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(27.01.2006)
Tramontano le TIC?  
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di Marco Guastavigna

Quest'anno ho forse commesso un errore, che non rinnoverò: mi sono abbonato a "Il Sole 24 ore Scuola", pubblicazione quindicinale che si riceve appunto solo con questa formula. Peccato che mi arrivi in buca una volta ogni tanto, secondo una cadenza assai incerta.
Tra le rubriche per cui vale la pena di attendere la pubblicazione vi è in ogni caso "New Media e didattica", di Michele Fabbri.
Sull'ultimo numero di cui sono entrato in effettivo possesso (13-26 gennaio 2006) vi è un pezzo che si intitola "Una rivoluzione mancata", in cui viene enunciata ed argomentata la tesi secondo cui"PC e Internet restano ai margini della didattica".

L'interpretazione di Fabbri a proposito di quanto sta succedendo nella scuola è davvero radicale: "chiunque governerà la scuola nei prossimi anni, o vi insegnerà o studierà, dovrà fare i conti con uno scarto profondo tra sofisticate abitudini quotidiane all'uso delle Tic e una scuola che non ha saputo (o potuto) metabolizzarle".
Personalmente propendo per il fatto che la scuola non abbia "potuto" e più in generale sono d'accordo con la conclusione di Fabbri, ma non, come già per altro esplicitato in precedenza, sulle sue motivazioni, che ora analizzeremo.

Se in buona misura è infatti condivisibile l'affermazione che esiste uno "scarto fra l'energia profusa da tantissimi insegnanti solo pochi anni fa e l'attuale gestione routinaria di pochi", alcune altre lo sono molto meno.

Secondo Fabbri il rapporto tra computer è numero di studenti è inadeguato. Tutti abbiamo questa impressione ed alcuni colleghi la utilizzano come alibi per il loro immobilismo. Ma il rapporto è inadeguato rispetto a che cosa, a quale finalità formativa? Fabbri sembra individuare nella "cultura digitale" (della quale per altro non declina caratteristiche e connotazioni) l'obiettivo strategico e le assegna un ruolo innovativo in quanto tale.
Per comprendere le difficoltà incontrate dalla "cultura digitale" nella scuola Fabbri utilizza l'esempio dell'Open Source, occasione di condivisione della conoscenza all'interno di collettività aperte e competenti (finalità già di per sé illusoria, in quanto in palese conflitto con l'impostazione della politica scolastica dell'ultimo decennio, periodo in cui non a caso si sono avviati investimenti e politiche nazionali sulle TIC nella scuola caratterizzate da forte continuità tra le diverse gestioni), nei fatti inquinata dall'esigenza manifestata dagli utenti di rendere il software libero "uguale e semplice da usare come WIndows, escludendo ogni minimo sforzo per capire come funziona". Chi mi legge con un po' di costanza, sa già che mi sono da tempo schierato a favore di questa posizione: non mi interessa per nulla conoscere il funzionamento di una tecnologia, in particolare quando sia della Comunicazione e dell'Informazione, fino a quando non ne capisco la funzione, non comprendo come modifica, incrementa, facilita, solletica... la capacità mia e soprattutto quella sociale di comunicare, acquisire informazioni.
Il movimento Open Source ha un sacco di buone idee (in particolare la prospettiva che un altro mondo sia possibile), ma ripropone ogni volta (almeno quando entra in rapporto con la scuola) il proprio "vizio" di fondo.
Usando un'analogia, ci vediamo infatti proporre un modello di democrazia digitale insostenibile, intesa come estensione a tutti i cittadini dei privilegi dell'aristocrazia tecnocratica, anziché come definizione di un nuovo patto collettivo, che si fondi non sul versante specialistico, esclusivo ed a rischio di autoreferenza delle TIC (capirne e possederne architettura e condizioni di funzionamento), ma su quello generale ed inclusivo (estendere le opportunità comunicative, cognitive, formative a tutti i soggetti e a tutte le istanze), a partire da una vera analisi e da una precisa verifica di quali possano essere gli autentici valori aggiunti dalle TIC stesse all'apprendimento, questione a cui non vi è per altro una reale attenzione e su cui si preferisce invece continuare ad evocare il pensiero magico-positivista tipico del liberismo tecnologico bipartisan.

Anche la sottolineatura da parte di Fabbri del fatto che lo specialista delle TIC sia rimasto nelle scuole una figura priva di funzioni riconosciute individua un aspetto a prima vista molto vero. Dobbiamo però essere più analitici e comprendere che ciò dipende dal fatto che tali funzioni non hanno avuto alcun riconoscimento preciso proprio in termini di pedagogia e di didattica, prima ancora che di organigrammi e di relazioni professionali. Si è rimasti, anche dopo il percorso B, ad una sorta di delega sul versante prevalentemente tecnologico.
Ogni idea di specializzazione è anzi in sé esiziale a qualsiasi prospettiva di estensione, di acquisizione da parte delle TIC di un ruolo strategico nella definizione dei percorsi formativi e della impostazione didattica.
E lo diventa in misura tanto maggiore quanto più sposta l'accento sugli aspetti tecnici, perché si allontana sempre di più dal profilo professionale docente, perché perde ogni dimensione collegiale, perché fa ricorso a pseudoepistemologie. Di uno di questi diffusissimi pseudoconcetti (la SoluzioneDiContinuitàTotale) è del resto in qualche modo vittima anche Fabbri, quando al termine dell'articolo contrappone la "tecnologia del libro" alla "tecnologia altra", lamentando come la partita tra le due si svolga troppo spesso nel chiuso dei laboratori universitari .

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