Direzione didattica di Pavone Canavese

(17.07.99)

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IL GIORNO DEL BAMBINO
12 maggio 1994 (scritto in occasione del 30 aprile, in Messico il "giorno del bambino")

Vai alle 7 tessere del rompicapo

Vai alle 7 tessere del rompicapo

Ai bambini del Messico e del mondo
Bambini e bambine,

abbiamo chiesto al subcomandante ribelle Marcos di trovare le parole che voi potete comprendere per farvi conoscere il nostro pensiero.
Noi siamo i bambini zapatisti. Siamo indigeni e ciapanechi. Siamo poveri. Siamo i non-nati. Per il nostro governo, per i nostri connazionali, per le associazioni dei diritti dell'infanzia, per l'ONU, per i giornali, per la televisione, per la radio, per i bilanci governativi, per il Trattato del libero commercio, per il mondo intero, noi non esistevamo prima del 1° gennaio 1994. Non siamo mai esistiti, nessuno ha registrato la nostra nascita né la nostra morte. Ma la cosa peggiore di tutte è che neppure per voi, bambini e bambine del Messico e del mondo intero, esistevamo prima dell'inizio dell'anno.
Noi non conoscevamo i dolci, i giocattoli, le medicine, gli ospedali, le scuole, i libri, il latte, la carne, le verdure, le uova, e la maggior parte di noi neppure i vestiti. Adesso, in mezzo a questa guerra, persone buone (non il governo) ci hanno mandato cose per curarci, per vestirci, per nutrirci, per giocare.
I nostri genitori e i nostri fratelli maggiori furono costretti a morire combattendo perché un giorno anche noi potessimo conoscere queste cose. Partirono nell'ultima notte dell'anno 1993 e molti di loro non tornaromo. Alcuni di loro, ci hanno detto, morirono combattendo. Noi non conoscevamo questa maniera di morire. Conoscevamo la morte per febbre, per diarrea, per malattie che uccidono senza avere un nome. Ma non conoscevamo la morte che si incontra combattendo. Altri tra i nostri padri, madri, fratelli, zii, zie, cugini e cugine non tornarono, però non sono morti. Ci hanno detto che sono rimasti sulla montagna, la grande montagna azzurra, che si vede anche di notte. Sono combattenti, ci hanno detto. Qualche volta li abbiamo visti. Portano altri vestiti e hanno un ferro tra le mani. I loro visi sono gli stessi, però è come se fossero più belli, perché adesso ridono spesso. Quando ci vedono iniziano a ridere, e ridono, e anche noi ridiamo, e nessuno sa perché ridiamo. Poi se ne vanno di nuovo. Allora noi domandiamo ai grandi che restano perché i nostri che vengono dalla montagna ridono, e loro ci rispondono perché è la guerra.
Allora noi domandiamo se nella guerra si vince qualcosa, perché così sembra, perché se no ... perché ridono? Loro ci rispondono che non vincono niente, però noi, i bambini di questa terra, sì che vinceremo qualcosa. Noi abbiamo visto cosa ci hanno portato il governo con la guerra, abbiamo visto gli aerei e gli elicotteri, e abbiamo visto che sparavano proiettili proprio qua vicino e lassù sulla montagna dove sono i nostri. Noi abbiamo avuto un po' di paura, però non tanto, perché già prima ci avevano insegnato in quale direzione dovevamo correre e dove ci dovevamo nascondere perchè nulla ci accadesse; inoltre ci hanno insegnato a salutare la bandiera del Messico e a cantare l'inno nazionale e a marciare anche se qualcuno non marcia bene (...).
Noi abbiamo 10, 12, 8, 5, 9, 5, 11, 6 anni. I grandi dicono che noi ce l'abbiamo fatta, perché quando uno ha meno di cinque anni muore con più facilità. Da quando abbiamo memoria mai il governo è venuto a trovarci. La prima volta che è venuto è stato dopo il primo gennaio di quest'anno, ed è venuto con gli aerei e gli elicotteri, con i proiettili e i carri armati, e con i soldati. Così noi abbiamo conosciuto la faccia del nostro governo, bambini e bambine del Messico e del mondo. Prima non la conoscevamo e nessuno veniva a fare foto né a domandarci se mangiavamo o se studiavamo, o se avevamo giocattoli. I nostri adulti si riunirono un giorno e iniziarono a parlare e a parlare. Qui da noi uno è considerato adulto se ha più di 12 anni perché allora sa già pensare ed è in grado di caricare una fascina di legna, di raccogliere il riso, di seminare, macinare il mais, e avere cura dei più piccoli. Gli adulti si riunirono e pensarono alla guerra. Tutti parlarono della paura e della morte. Tutti si azzittirono. Tutti parlarono di noi. Tutti risero. Ognuno espresse la propria opinione, e la maggioranza decise di iniziare la guerra e a noi insegnarono come non morire nella guerra. Noi domandammo perché e loro ci risposero che lottavano perchè la morte fosse solo per i grandi e non più per i bambini. Così ci hanno insegnato. Ci hanno insegnato a non morire. A lottare perchè non muoiano i bambini come noi.
Non sappiamo se è male che noi impariamo a proteggerci e a difenderci nella guerra, non sappiamo se è male che impariamo a non morire. Qualcuno ha detto che non si deve insegnare la violenza ai bambini e ci hanno detto che dobbiamo vivere come gli altri bambini della città, che imparano il karate e hanno pistole giocattolo, e aerei e elicotteri a batterie che fanno le lucine, però qui la terra trema e i grandi tremano e non sappiamo se là dove voi state giocando alla guerra con questi giocattoli la terra non trema, ma qui noi non stiamo giocando e la terra, sì, trema. Perciò noi abbiamo imparato a non morire. Forse questo è male, e sarebbe meglio che morissimo senza imparare a non morire (...)

I Bambini zapatisti
(da Marcos, Dalle montagne del Sud-Est messicano, a cura di Massimo Di Felice e Cristóbal Muñoz, Edizioni Lavoro, Roma, 1995, pp. 84 - 88)