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Democrazia WEB e ragazzi

“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber

(13.10.2013)

Ancora (!?) sulla “classe digitale”  
Franco De Anna

Ho seguito con attenzione i numerosi contributi che sul tema si sono susseguiti su queste pagine

Vorrei solo riprendere alcune osservazioni a partire dalla battuta riportata del mio precedente intervento sulla ambiguità del costrutto “nativi digitali”.
Sostenevo, in quella “battuta” che nella storia dell’umanità i “nativi” sono sempre stati gli “sconfitti”: massacrati, fatti schiavi, confinati in più o meno confortevoli riserve… questo almeno nella storia dell’Occidente. Sicchè quando diciamo “nativi digitali” dovremmo impegnarci a chiarire quali “intenzioni abbiamo” verso “questi” nativi, o a riflettere sugli “impliciti” che la scelta della metafora contiene.
Tale impegno vale tanto più in quanto ci occupiamo, in questa sede di confronto, non tanto del manifestarsi di competenze nuove e diverse in “adulti” in contesto di lavoro, di vita sociale autonoma o professionale, o di formazione compiuta. Ma di “cuccioli” in via di formazione e in un percorso, più o meno precoce, verso l’adultità e l’autonomia personale.
E’ questo lo sguardo specifico di chi si occupa di formazione, verso l’intera fenomenologia “digitale”: di come e quanto si trasformano sia i processi cognitivi, sia quelli di socializzazione, di assunzione di responsabilità, di costrutti etici, di “vissuto” delle emozioni  e di rielaborazione del vissuto emozionale.
Nel precedente intervento ricordavo (sintetizzando) che il “digitale” promuove un approccio cognitivo di tipo simultaneo-sintetico e contemporaneamente ne sviluppa enormemente le potenzialità e l’efficacia produttiva che retro agiscono in “rinforzo” dell’approccio stesso e delle abilità e competenze necessarie a praticarlo (per esempio l’interazione visuale, il processamento per frames e non per script, l’accorciamento radicale del rapporto stimolo-risposta, l’accorciamento altrettanto radicale del rapporto errore-ricerca di alternative-correzione, ecc..).

Vorrei ricordare che tale approccio non è “nuovo” ed esclusivo del mondo digitale. E’ costitutivo del funzionamento del cervello umano, compresente nelle diverse modalità di rapporto tra apparati nervosi e sensoriali e realtà “esterna”, nella determinazione etologica, ed è presente ed esplorato in modo esemplare nella stessa storia dello sviluppo della conoscenza umana  nelle sue diverse fasi.

Caratterizza costitutivamente, cioè, sia ogni singolo soggetto umano, sia la storia della specie.
Ovviamente tale approccio è parallelo (affermazione di comodo: in realtà è variamente “intrecciato”) con l’approccio sequenziale e analitico. L’approccio che scompone, divide, cataloga, confronta, ricompone, rintraccia ricorrenze e “leggi” generali, rielabora teorie interpretative con  (variabile) capacità predittiva.
Anche esso è “costitutivo” sia del soggetto che della specie: è inscritto nel funzionamento stesso degli apparati nervosi e sensoriali, nei processi di memorizzazione e nella determinazione degli schemi comportamentali. Ed è presente nella storia del pensiero umano e nella sua evoluzione.

Per una sintesi che meriterebbe un più lungo percorso analitico: il logos è il sostantivo del legein. La conoscenza (i significati costruiti) è il prodotto di una processualità (la significazione) che declina approcci diversi e complementari, variamente combinati sia sul substrato originale di ciascun soggetto, sia nelle diverse fasi di sviluppo della civiltà e cultura dell’uomo.
I nostri lontani progenitori cacciatori e raccoglitori svilupparono una conoscenza botanica e zoologica che si confrontava con migliaia di specie vegetali ed animali, in una interazione diretta ed immediata con la realtà e con una sua rappresentazione (e memorizzazione) “oggettuale”.
Diecimila anni di sviluppo a partire dalla rivoluzione neolitica e dalla “invenzione” dell’agricoltura hanno ridotto progressivamente tale conoscenza “diretta” a poco più di una decina di specie animali e vegetali (che, per altro, costituiscono ormai oltre il 90% della biomassa del pianeta: gli entusiasti sostenitori della “biodiversità” spesso dimenticano il dato..).
Bisogna aspettare Linneo per dotare l’umanità di uno strumento di conoscenza altrettanto ampio di quello praticato dai “nativi raccoglitori e cacciatori” e basato non sulla rappresentazione “oggettuale” ma sulla identificazione di repertori, tassonomie, individuazione di costanti e combinazione di elementi semplici… insomma su una base sequenziale e analitica.
Uso questo esempio perché mi sembra esemplificare opportunamente le affermazioni precedenti sulla “compresenza” di diversi approcci al sapere ed alla conoscenza nella storia dell’umanità.

Il dominio o l’egemonia dell’uno sull’altro dipendono fortemente dai caratteri delle stesse fasi storiche e dalle modalità concrete di “appropriazione” della natura da parte dell’uomo, e dunque dalla rispettiva efficacia nel promuovere tale “appropriazione”, e non tanto dalla “efficacia cognitiva”. (I raccoglitori e cacciatori, sotto tale profilo, ne sapevano “di botanica” certo “di più” di Linneo e …senza che esistesse qualcosa chiamato “botanica”).
Il “dominio” e il “primato” di quello che abbiamo chiamato approccio sequenziale e analitico contrassegna lo sviluppo razionalistico e scientifico, dal protoilluminismo dell’Atene del IV e V secolo, alla rivoluzione industriale.
Tale primato non ha mai negato o “sostituito” l’altro approccio, ma spesso lo ha relegato a saperi “particolari” come quelli artistici e creativi, e guardandolo sempre con qualche sospetto: rammentate la diffidenza platonica per la poesia e la musica (e, sull’altro versante, ma ci si tornerà) verso “il libro”?

I sistemi di istruzione si sono costituiti e costruiti, nella loro funzione sociale di riproduzione dell’enciclopedia, dei saperi e significati ereditati e codificati, (e dei comportamenti e dei modelli etici) identificando nell’approccio sequenziale ed analitico il “proprio” metodo.
Ciò vale per tutti i sistemi di istruzione della cultura occidentale.
Ma ogni insegnante attento e sensibile si è sempre trovato a misurarsi, nel suo lavoro quotidiano, con soggetti che processavano l’approccio alla conoscenza in modalità diversificate secondo questi due modelli, secondo diversi “stili cognitivi” personali. Si è trovato cioè a perseguire la sua mission metodologica (il primato sequenziale e analitico) misurandola con la “diversità” degli stili individuali e dovendo ricomporre, nella varia strumentazione didattica, un accettabile equilibrio.
Ciò che si presenta oggi come una vera e propria “nuova fase” della civiltà consiste invece nel fatto che il “digitale” ( i suoi strumenti, le sue “protesi individuali”, i “processamenti” dell’informazione che gli sono propri) conferiscono potenza inedita (e inusitata) all’approccio simultaneo e sintetico.
Tale “potenza” non è immediatamente esprimibile in termini di ”efficacia” dei risultati (esattamente per le stesse ragioni per cui gli antenati raccoglitori ne sapevano di più di Linneo) ma va indagata in termini specifici nei suoi rapporti con le “potenzialità” cognitive connesse con i processi di appropriazione della natura (in primis ma non esclusivamente con i caratteri dello sviluppo economico).
Insomma siamo di fronte ad una “rivoluzione” che attiene al legein; al processamento della conoscenza. La domanda senza risposta (per ora) riguarda il logos.
Sotto questo profilo il rapporto tra digitale e analogico è molto meno “semplice” di quanto si faccia apparire in certe elaborazioni.
Digitalizzare significa condurre alle estreme conseguenze un processo di scomposizione e dicotomizzazione della realtà, fino a raggiungere elementi e componenti discreti, in sé privi di “regola e significato”; e poi ricostruire il processo bottom up, ricostruendo una rappresentazione della realtà di partenza, dominandone (o determinandone?) in tal modo le “regole e il significato”.

La potenza della strumentazione progressivamente prodotta dalla “rivoluzione microelettronica” consente di condurre il processo di scomposizione in una dimensione micro mai esplorata (pur mantenendone la dimensione “finita” e discreta) e di produrre “ricostruzioni” apparentemente “continue” nelle quali la “grana discreta” è indistinguibile dalla realtà continua. Appare “uguale” a quella percepita analogicamente. (Ma le differenze ci sono, eccome!… per esempio l’infinito appartiene alla concettualizzazione, ma è estraneo al digitale… E vi pare poco?)
Insomma ciò che usualmente viene indicato come una “realtà virtuale” si pone come indistinguibile da quella “reale”. Poco importerebbe qui discettare sul significato di virtuale e reale, se non fosse che il processo di ricostruzione artefattuale che presiede  e guida il processo di appropriazione della natura “per via digitale” non deve mai essere considerato “gratuito”.
E’ al contrario guidato da finalità e scopi, come ovvio. Ma è altrettanto ovvio ricordare che essi non sono necessariamente né tanto meno esclusivamente identificabili con quelli dell’aumentare la padronanza di conoscenza e sapere dell’uomo. (Insomma la rivoluzione tecnologica ha sicuramente una origine ed una ricaduta “filosofica” ma non si identifica con la mission della filosofia).

In altre parole, contraddittoriamente, la “digitalizzazione”, implementata nei suoi prodotti d’uso (dai PC agli IPhone), promuove e potenzia l’approccio simultaneo e sintetico che ci fa narrare di ”nativi digitali”; ma la realizzazione della digitalizzazione è intrinseco processo che spinge a livelli un tempo inimmaginabili la scomposizione sequenziale e analitica. Ciò struttura una dislocazione radicale (una nuova gerarchia?) tra chi “consuma” il primo approccio e chi padroneggia il secondo.
Potremmo (e dovremmo) discuterne a lungo, di tutto ciò sotto il profilo generale: ma la domanda specifica (certamente di natura filosofica), per quanto attiene alla scuola (ai cuccioli in formazione) è assolutamente determinata.
Come ricombinare sensatamente i due approcci nell’apprendimento dei cuccioli?
Ciò che ogni bravo docente cercava di fare nel ricombinare assennatamente i diversi “stili cognitivi” dei suoi alunni (personalizzando e mettendo in valore le relative efficacie) si costituisce oggi come un problema che investe l’insieme degli alunni nel loro rapporto con strumenti, processi, approcci che danno (proporzionalmente) potenza superiore ad “una” delle modalità. Con la complicazione (scientifica e culturale), che si tratta di quella tradizionalmente più lontana dal “metodo” della scuola.
La domanda diventa allora: poiché la “potenza” acquisita dalla “rivoluzione digitale” non è immediatamente ed automaticamente traducibile in “superiorità” cognitiva, e in particolare in “accertata pertinenza” ai processi di formazione che riguardano i cuccioli, come e dove reperire l’equilibrio ottimale tra approcci diversi recuperando per ciascuno le relative potenzialità per garantire l’acquisizione di effettiva “padronanza”?

Ci sono questioni “teoriche” sottese a tale domanda. Piaget, Vitgoskj,  Dewey, Montessori (et all.), a fronte della rivoluzione digitale dovrebbero probabilmente riscrivere alcune parti delle loro opere che continuano ad ispirare il lavoro nella scuola.
E dunque quest’ultimo si trova a doversi misurare con una necessaria “innovazione” filosofica capace di ristrutturare le fonti teoriche.
Contemporaneamente è alle prese con la necessità di reperire una “filosofia della prassi” capace di tradursi nella operatività quotidiana.
Sia l’una che l’altra questione richiedono sviluppo di ricerca.
Da quella di base dei laboratori di psicologia, di scienze cognitive, di neuroscienze, di Intelligenza Artificiale, a quella che inevitabilmente assume la dimensione del laboratorio di massa di una scuola che abbia deciso di aprirsi integralmente alle tecnologie digitali. (La ricerca educativa, nella sua corretta accezione: ricerca su e nel “sistema educativo” che è cosa diversa da quella pedagogica)

Un aforisma molto in auge tra chi si occupa di “competenze” in contesto di impresa recita pressappoco “si può sempre insegnare ad un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma probabilmente è meglio assumere uno scoiattolo”. La crudeltà del suo realismo è certamente enfatizzata dal fatto che nei nostri schemi idealtipici assumiamo una implicita gerarchia tra lo scoiattolo ed il tacchino, dimenticando che il tacchino sa fare cose che lo scoiattolo neppure immagina (per esempio tenere lontane le vipere dall’aia…).
Lo ricordo qui sia per rammentare en passant a tanti cultori del costrutto “competenze” l’origine economica di esso (del resto rintracciabile nella stessa bibliografia delle elaborazioni UE da cui proviene); sia, soprattutto, per ricordare che la mission della scuola è anche quella di provare comunque ad insegnare al tacchino ad arrampicarsi, anche sapendo che ciò non ne farà mai uno scoiattolo.

Nella formazione, lo stile personale di ciascun soggetto è una risorsa fondamentale da interrogare per sfruttarne la funzione di incentivo all’efficacia dell’apprendimento; ma contemporaneamente la “formazione” procede sfidando il soggetto a misurarsi con altri stili e approcci, a prescindere da considerazioni “economiche”.
Se ciò è sempre vero e alimenta la vocazione “democratica” dell’insegnare (“insegnare tutto a tutti” di Comenius) lo è a maggior ragione oggi a fronte di una innovazione che sembra modificare alla radice gli stili di apprendimento, non tanto creandone di nuovi, ma esaltando la “potenza” di una forma di processamento del pensiero, e dando a tale potenza il conforto che si vorrebbe “oggettivo” degli strumenti, e ipotizzando la riduzione a “fossile” o a “ammuffito metodo” dell’altra  forma di processamento. Come “addestrare” i cuccioli dando loro padronanza di “tutti” gli approcci, combinandoli assennatamente?

Oggi tale combinazione è lasciata al “buon senso” professionale (risorsa preziosissima) dei docenti. Ma siamo solo agli inizi di un processo di trasferimento massiccio di tecnologia digitale entro le aule scolastiche, che probabilmente produrrà una rapida obsolescenza  di modelli organizzativi, di immaginari e pratiche professionali, di classificazione del lavoro e di organizzazione di spazi e tempi dei processi di apprendimento, e finanche di tradizionali categorie di pensiero come “programmi di studio”, “discipline di insegnamento”,  “curricolo”, e finanche “ordinamento”.
Nessun effetto è automatico, neppure se la causa è una innovazione tecnologica radicale. Ogni tecnologia ha sempre almeno un grado di libertà che attiene alle decisioni ed alle applicazioni.
Ma, appunto, è una “libertà” da esplorare sia con ricerca che con conseguenti “sensate esperienze”.
Ma, in contesto di formazione dei cuccioli, non si tratta solo di affrontare questioni di apprendimento. Guardate lavorare i “nativi digitali” e la loro operatività materiale: questi ragazzi sanno calibrare i movimenti fini con l’esattezza di un orologiaio… Ma le dita lisciano, accarezzano, premono delicatamente, indicano…e in genere non se ne usano più di due: indice e medio.
Ciò che non si esercita è lo stringere, l’afferrare, il colpire e il gettare (che son simmetrici).
Metafore di due modi di produrre (anche sapere). Il “per forza di levare” del colpire il marmo per “liberarne” l’idea del “platonico” Michelangelo; o l’apporre successivo di morbido materiale, lisciando superfici, delle dita di Cellini o meglio di un  Della Robbia...
Insomma non sarebbe tanto “la mano” a rischiare il tramonto fossile; ma è il pollice opponibile dell’afferrare e colpire… Afferrare un bastone per farne un’arma, una bandiera per piantarla, una pietra per scheggiarne altre… Stringere un pugno per colpire, ma subire nell’urto il feedback della propria violenza sulle nocche (un buon sistema di controllo della violenza tra adolescenti, i più anziani di noi ricordano)…”

Che la civiltà dell’uomo e le “culture” che ne hanno scandito l’affermazione planetaria (lungo tutta la storia della specie “homo” senza ulteriori specificazioni, dall’”Herectus” al “Sapiens Sapiens”, passando per il “Neanderthalensis”.. ) siano fondate sulla interazione mano-cervello è affermazione che soffre della sua ovvietà. Ne aggiungo una che potrebbe apparire “singolare”. La forza di tale interazione sta nel fatto che sia la mano che il cervello (inteso in senso lato come insieme dell’apparato nervoso, centrale e periferico) sono in modo “specifico” a basso livello di “specializzazione”.
L’arto superiore dell’uomo non ha artigli per colpire, non ha conformazioni delle dita e dei polpastrelli per correre. Non è “specializzato” da funzioni selezionate (ciascuno può misurare tale assenza di specializzazione confrontando le “prestazioni” delle proprie mani, multifunzioni, e dei propri piedi, più specializzati).
In modo speculare l’uomo ha una vista meno acuta di un uccello, un odorato rudimentale rispetto a quello di tutti mammiferi cui pure appartiene, un udito molto lontano dal range di sensibilità ultrasonica di un cane…
La coniugazione di due assenze di specializzazione produce la civiltà dell’uomo. La plasticità correlata di apparati non specializzati genera una capacità di adattamento che ha reso la specie “dominante” sull’intero pianeta. All’assenza di specializzazione “fisiologica” si sostituisce la capacità di trasformazione “progettuale” della natura: l’invenzione della “tecnologia”, la creazione di “protesi artificiali” che si sostituiscono alla specializzazione fisiologica.
Un altro modo per indicare tutto ciò ( e sottolineare un tratto essenziale aggiuntivo) è ricordare che, sotto il profilo di questa assenza di specializzazione l’uomo può considerarsi un “animale neotenico” ( mai adulto). Cioè che conserva per tutta la sua esistenza la capacità evolutiva che è propria dell’embrione. (O, se si vuole, per estensione di significati, che “anticipa” permanentemente  le caratteristiche proprie dell’adultità compiuta). Una plasticità apprenditiva permanente. D’altra parte potremmo sostenere (forse) che il massimo dell’apprendimento coincide con il momento della fine della vita…

Ne discendono tre considerazioni essenziali per chiunque si occupi di “formazione” (massime i docenti).
La prima: tale plasticità ha una oggettivamente correlata manifestazione “soggettiva”. Proprio l’assenza di una specializzazione specie-specifica sta alla base di una estesa variabilità soggettiva (di grande potenzialità evolutiva…). Anzi sta alla base della “invenzione” del soggetto che è fondamento della “filosofia dei greci” (gli inventori, strictu sensu, della “filosofia”). La scoperta (invenzione?) del soggetto e della sua “dualità tragica” con il mondo, la natura, il destino, la morte che segna l’origine della nostra civiltà “tecnologica”. L’uomo è, in questa prospettiva che supera i vincoli specie-specifici, sempre “homo diversamente sapiens”.
La seconda: tale plasticità comune ad entrambi gli “apparati” (l’arto superiore e il sistema cerebrale) vive nella dimensione della interazione , e dunque di interferenza reciproca, nella “interpretazione” della realtà, dalla riproduzione per immagini alla creazione linguistica. Due esempi estremi, per semplificare l’argomentazione 
La mano che ha tracciato i graffiti delle grotte di Lescaux ha colto animali in posizioni di movimento che oggi non  saremmo capaci di  riprodurre e  di imitare se non dotati di una macchina fotografica (la protesi tecnologica). Coerentemente, in molte lingue di popolazioni vicine alla civiltà di raccoglitori e cacciatori, esistono parole diverse per indicare il medesimo animale (per esempio un coniglio) mentre corre, mentre salta, o mentre è fermo.
In una vignetta risalente all’epoca della meccanizzazione forzata dell’agricoltura sovietica, un ironico commentatore presentò l’immagine di una giovane contadina che si accingeva a mungere un trattore. (Aneddoto ricordato da E.J. Hobsbawm in “Il secolo breve”). La giovane aveva sicuramente “imparato” a condurre il trattore, ma applicava alla novità della macchina il suo immutato  tradizionale “quadro di senso”.
La terza: sulla plasticità dei supporti fisiologici e sulla soggettività evolutiva ad essa connessi (homo diversamente sapiens) e dunque sui diversi “modelli di combinazione” che hanno caratterizzato le diverse culture umane, ha retroagito in termini selettivi (scale di valori, selezione di “verità”, validazioni sociali) non la “filosofia”, ma il “modo di produzione” (mi si perdonerà la semplificazione ammiccante). Cioè le modalità concrete di trasformazione della natura e i rapporti sociali di appropriazione e lo sviluppo della “protesi tecnologica”. Cattiva filosofia è quella che ha voluto prescindere da tale realtà, proponendosi come “ideologia”.

Che dire di un Cicerone che afferma “nec quicuam ingenuum habere potest officina” e ancora “opifices omnes in sordida arte versatur” (“la bottega artigianale non si concilia con la condizione di uomo libero” e “ tutti gli artigiani praticano un basso mestiere”). Ma anche Seneca per il quale i compiti dell’artigiano sono vili e volgari e non hanno niente a che fare con le vere qualità dell’uomo (”ad virtutem non pertinent”). Scelgo volutamente gli esempi interrogando il (supposto) modello alto e “umanistico” (!?) di riferimento della “cultura (scolastica) nazionale”, in merito della consapevolezza del  rapporto mano-cervello.
Naturalmente, a proposito di ideologia, non  si deve trascurare il fatto che Cicerone ricavava parte consistente della sua ricchezza personale dalla produzione di laterizi, per altro contrassegnata con tanto di marchio… E della fonte di reddito di Seneca, sotto tale profilo, è bello tacere…

Se decliniamo tali osservazioni critiche sul piano specifico della “filosofia dell’educazione” potremmo riscontrare che, anche a prescindere dalle interpretazioni “filosofiche/ideologiche”, la sensibilità verso una assennata combinazione delle “plasticità” del rapporto mano-cervello è stata sempre presente almeno in gran parte della elaborazione fondamentale di un “ideale pedagogico” finalizzato ad una formazione umana assennata ed armonica.
La elaborazione di un “ideale” formativo capace di equilibrare acquisizione concreta di esperienza “manipolatoria” con la realtà e “concettualizzazione” (costruzione del sapere) ha contrassegnato il pensiero dei padri della pedagogia (da Piaget, a Dewey, a Freinet, alla Montessori). Fino all’ideale di “uomo multivalente” di alcune immagini marxiane.
Semmai vi è da rileggere, in questa chiave, i tratti specifici del modello nazionale di istruzione e di “cultura della scuola”, non tanto o solo sotto il profilo degli “ideali pedagogici”, quanto delle ispirazioni concrete, delle scale di valori riconosciute, degli immaginari gerarchici e delle loro traduzioni istituzionali. (Da qui le provocazioni volute su Cicerone e Seneca…)
Per ciò che appare, per ciò che è, e per ciò che deve essere. (così il ”quadro filosofico” è completo).

Nella problematica (ideologica?) dei “nativi digitali”, quale assennata ricombinazione tra mano e cervello si vuole praticare in sede di formazione? La potenza degli strumenti della rivoluzione digitale rappresenta un differenziale positivo nei processi di formazione, ma anche un potenziale di conformazione/deformazione nella combinazione assennata della plasticità antropologica del rapporto mano-cervello. Il contesto di “formazione” non può semplicemente ridursi ad assumere i parametri di “produttività” immediata dell’uso di strumenti e tecnologie. Deve interrogarsi sulla combinazione ottimale e pertinente degli elementi costitutivi di una “adultità” del soggetto nell’esercizio fondamentale della “deliberazione” sui significati, e sulla integrazione fondamentale tra mano e cervello, tra pensiero e capacità di intervento manipolatorio sulla realtà. Non si mungono i trattori.
La portata del problema ha un ordine di grandezza più che rilevante: io credo che lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali nella formazione abbia conseguenze “rivoluzionarie” capaci di porre i discussione categorie interpretative fondamentali come “programmi”, “discipline di insegnamento”, “indicazioni”, “ordinamenti”, “organizzazione didattica”,  “classi”, “classi di concorso”, “curricoli”, ecc.. Per tacere di variabili fondamentali come l’organizzazione dei tempi, degli spazi e dell’ambiente (spazi, tempi e relazioni) di formazione.
Nessuna suggestione e nessun adattamento alla “meraviglia” della natività digitale può sostituire la faticosa esperienza della “combinazione ottimale” degli elementi della plasticità antropologica che, connaturati alla specie “homo diversamente sapiens”, vanno declinati in questa fase di rivoluzione tecnologica e della produzione e riproduzione della cultura e dell’informazione a livello planetario.
Ho visto studenti di scuola media utilizzare software che, suonando su una tastiera, fornisce in diretta la notazione musicale. E naturalmente viceversa fornendo il file della notazione. Si può comporre musica senza suonare alcun strumento: senza misurarsi con l’interazione fisica (la fatica, il coordinamento delle dita o del fiato, lo sforzo dell’impugnare o sorreggere..).
Allo stesso modo nulla di più facile, usando alcuni applicativi, che scaricare una immagine della Gioconda e disegnarle dei bei baffi, senza bisogno di essere Duchamp… Come nell’esempio precedente, si può “fare arte” senza saper usare i colori, tenere un pennello, impugnare uno scalpello, manipolare alcun materiale.
Qui non si tratta di discutere di “cosa sia l’arte” (la produzione di un “oggetto significativo” di emozioni o una “rappresentazione”…) o di “cosa sia l’arte nell’epoca della sua riproducibilità” (per dirla con Benjamin). Ma in quale educazione e formazione all’arte vogliamo impegnare i soggetti in formazione.
La formazione è un compito che va oltre il paradigma del “risultato” e i suoi parametri di produttività.  Deve al contrario consegnare al soggetto le condizioni potenziali di una “combinazione originale” degli elementi di plasticità combinatoria che caratterizzano il suo originale e irripetibile substrato psico antropologico. A partire dalla combinazione specifica di mano-cervello che è congiuntamente carattere individuale e carattere storico sociale legato ai “modi di produzione” e di trasformazione della natura. “Forma hominis juxta propria principia”, appunto. Con Tommaso, con Marx, con Goethe e Shiller.
Marchionne, ma anche Mastrocola, sono un’altra cosa.

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