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“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber

(22.09.2013)

A proposito di Classi 2.0
Franco De Anna

 

Sono sollecitato ad intervenire su andamento, esiti, conclusioni del progetto classi 2.0 almeno per quanto attiene al primo triennio di applicazione (2009-2012).

Devo chiarire i limiti oggettivi del mio intervento. Il monitoraggio del progetto fu affidato dal Ministro alle Fondazioni Agnelli e San Paolo per la Scuola, che costruirono un complesso protocollo di monitoraggio, osservazione e valutazione che qui è impossibile riassumere completamente. Il “cuore” di tale protocollo era l’esigenza di misurare il successo della scelta di politica pubblica di investire risorse, per “aprire” attraverso un progetto determinato, all’uso intensivo delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione la didattica scolastica nei diversi ordini di scuola, a partire dalla scuola media, attraverso la misurazione dei miglioramenti nelle prestazioni di apprendimento misurate negli alunni coinvolti, lungo il triennio di sperimentazione.

Gran parte di tale protocollo aveva una impostazione di carattere “quantitativo”: questionari di rilevazione a distanza, utilizzo dei test INVALSI per la rilevazione degli apprendimenti, report richiesti alle scuole su formati standard, ecc…
A me fu affidato, nel 2012 dunque alla fine del periodo sperimentale, una rilevazione “qualitativa” attraverso visite sul campo, che prevedevano sia l’interlocuzione con i protagonisti (docenti, dirigenti) sia l’osservazione diretta delle attività in classe.
Ho visitato 40 scuole dal Friuli alla Sicilia. Non si tratta di un campione in senso stretto, ma di un gruppo definito mantenendo l’impegno di almeno una scuola per Regione, aumentando le viste per le Regioni di maggiore consistenza, e includendo scuole che nella fase di monitoraggio precedente (quantitativo) avevano in qualche modo segnalato inadempienze o assenze di documentazione “oggettiva”.

Il report è stato consegnato ai committenti (Ministero e Fondazioni) alla fine del 2012. Si tratta di un  documento corposo che ricompone informazioni relative all’uso specifico dei finanziamenti da parte delle scuole, agli atteggiamenti ed giudizi rielaborati dai protagonisti, alle realizzazioni concrete nelle esperienze specifiche delle scuole, alle osservazioni dirette sulle attività didattiche in classe, rese comparabili attraverso l’uso di comuni griglie di interlocuzione/osservazione; ma anche di una parte che qualifico come “narrativa” nella quale le impressioni, i rilievi dell’osservatore non sono stati guidati da esigenze di “comparazione” ma piuttosto tese a porre in risalto aspetti “clinici” significativi anche quando non generalizzabili.
Per tutte queste ragioni non è certo possibile ripercorrere interamente quel report e devo limitarmi a mettere in rilievo solo alcuni aspetti che, a mio personale giudizio, paiono essere di più rilevante interesse.

I caratteri del progetto.

L’osservazione sul campo ha fatto rilevare aspetti critici che sono riferibili a scelte di impostazione del progetto e dunque riflesse nelle attività di realizzazione.

  1. Alle scuole sono stati erogati finanziamenti diretti ad acquisire strumentazioni tecniche (devices, ambienti…) destinate ad “una sola classe”, accentuando dunque il carattere “sperimentale” del progetto. Sotto tale profilo di tratta di un finanziamento non trascurabile (30 mila euro).
  2. Le risorse erano destinate a scuole che potevano garantire un set di competenze, esperienze già sperimentate. Nessuna risorsa era destinabile esplicitamente a formazione dei docenti. La preesistenza di competenze era requisito per accedere al finanziamento.
  3. Il disegno di politica pubblica era caratterizzato dalla ipotesi fondamentale che l’uso delle tecnologie implicasse un miglioramento dei livelli di apprendimento. Dunque si scelse un protocollo di verifica di tale assunto di netta impronta “controfattuale”. Una sola classe coinvolta, con l’esplicita esclusione dell’uso di tali dotazioni tecnologiche in altre classi. La individuazione di un “gruppo di controllo” costituito da una classe parallela che operasse senza le tecnologie. Nell’impianto sperimentale allo scadere del triennio e attraverso l’uso di test di rilevazione dei livelli dei apprendimento, messi a punto specificamente con la collaborazione dell’INVALSI, ma anche utilizzando il confronto dei risultati delle prove generali INVALSI, si sarebbe dovuto certificare l’avvenuto miglioramento e dunque validare le scelte di politica pubblica a monte.
  4. Alle scuole coinvolte veniva assicurata l’assistenza, la consulenza, il supporto sia dell’ANSAS (INDIRE) che mise a punto una specifica piattaforma per la raccolta della documentazione  e per la comunicazione tra le scuole impegnate nell’esperienza, sia dell’Università, coinvolgendo diversi Atenei e Facoltà di Scienze della Formazione sul piano nazionale.
  5. Alle scuole venne erogato il finanziamento sulla base di un progetto formulato secondo uno standard protocollare che impegnava ai vincoli su indicati (finalizzazione della spesa, competenze pregresse, individuazione di obiettivi determinati, impegno verso il protocollo di valutazione). I finanziamenti furono erogati attraverso l’usuale catena di comando amministrativo dal centro alla periferia (Ministero-Uffici Scolastici Regionali-scuole) che doveva accertare nel percorso opposto (dalla periferia al centro) l’esistenza di tali requisiti e individuare le scuole attraverso opportune “graduatorie”.

 

I rilievi critici desunti dall’osservazione sul campo.

Per comodità di esposizione raggruppo tali elementi (che in verità interagiscono tra loro) in capitoli separati

  1. Conseguenze più o meno dirette delle ipotesi di “politica pubblica” poste a capo del progetto.
  2. Difformità di approccio (motivazioni, coerenze strategiche, corrispondenza tra nuovo progetto ed esperienze precedenti) presentate dalle scuole.
  3. Difformità di implementazione del progetto nelle scuole, derivanti da diverse condizioni operative e da diverse misure di “adattamento” ai vincoli stabiliti centralmente.
  4. Non adeguata opera di consulenza, assistenza, tutoraggio da parte sia dell’ANSAS che delle Università coinvolte (testimoniata dalla quasi totalità delle scuole visitate)
  5. Consistente e irrisolto nucleo problematico costituito dai diversi approcci didattici e pedagogici dei docenti, non tanto verso le competenze nell’uso dei devices (l’uso delle “protesi” digitali) quanto nella individuazione delle trasformazioni più o meno radicali delle forme e dei caratteri dell’apprendimento legate al “digitale”.

In questa sede mi è impossibile esplorare compiutamente tale repertorio di osservazioni critiche. Mi riservo ulteriori interventi anche confidando che il Ministero, nel frattempo, proceda ad un confronto pubblico sugli esiti del lavoro di monitoraggio e valutazione. Le considerazioni seguenti sono perciò una estrema e parziale sintesi delle osservazioni rilevate.

  1. L’ispirazione di fondo delle scelte di politica pubblica e la verifica dei suoi risultati.
    Personalmente ritengo che nella ricerca sociale il criterio della “variabile indipendente” sia improponibile. L’approccio controfattuale che ha ispirato la scelta politica (classe oggetto di somministrazione, classe di controllo, misurazione “oggettiva” dei differenziali di apprendimento correlabili al digitale) ha costituito una premessa che si è riflessa criticamente sulla stessa esperienza concreta nelle scuole.
    Dalle informazioni in mio possesso (tale valutazione è a carico di altra parte del protocollo direttamente gestita dalle Fondazioni) è stato impossibile “dimostrare” differenziali positivi dei livelli di apprendimento correlabili all’uso delle tecnologie, con significatività apprezzabile; non ostante il rigore della strumentazione statistica utilizzata.
    Data la premessa metodologica ritengo che tale risultato finale fosse ampiamente prevedibile: un fenomeno squisitamente “multivariabile” e di tale complessità di interrelazioni come l’apprendimento non è riconducibile a metodologie controfattuali. Ma qui non è in questione il confronto di “scuole di pensiero” (quantitativi versus qualitativi) che si ripropone sempre. Quanto il comprendere il riflesso che tale approccio ha riverberato sulle stesse realizzazioni legate al progetto che ne decostruisce ab initio la “filosofia” (e dunque l’ispirazione delle scelte di politica pubblica).
    Il paradigma “classe di somministrazione” e “classe di controllo” con la destinazione di investimenti vincolati ad una sola classe risulta di difficile accettazione nella scuola prima di tutto sotto il profilo “etico”. Un buon insegnante, nella ipotesi che l’uso di alcune risorse abbia conseguenze positive sul lavoro didattico, non accetta che se ne limiti l’uso solo ad alcuni, sotto pena di invalidità del progetto stesso. Ma anche sotto il profilo strettamente organizzativo: nessun docente della Media ha solo una classe (da due a nove…). Dunque quella scelta differenziante ha scarsissimo livello di realismo nel comportamento concreto (Schizofrenia nella progettazione formativa?).
    Poiché il progetto aveva una indubbia “appetibilità” (non solo economica) ciò ha finito per favorire l’adattamento opportunistico alle “prescrizioni”.
    E ciò a partire dalla stessa “progettazione”. Oggi le scuole ( specie le più esperte) padroneggiano una “retorica progettuale” che viene favorita dalla standardizzazione dei protocolli. Sanno “che cosa non può non esserci” in un progetto per passare alla selezione del “superiore Ministero vigilante”.
    Non ho alcuna pregiudiziale “moralistica” (anzi…). Semplicemente richiamo la necessità di tale avvertita consapevolezza nella fase di predisposizione delle scelte di politica pubblica. I “decisori” non possono non avere tale consapevolezza e dunque fare scelte appropriate.
    In verità tutti gli interlocutori incontrati “sul campo”, hanno confermato il “miglioramento generale” riscontrato nelle esperienza classi 2.0. Ma si tratta, per tutti, di un miglioramento che riguarda il clima di classe, i livelli di partecipazione, il protagonismo e le responsabilità degli studenti, il rinforzo del lavoro collettivo e di gruppo. (A margine, ma di grande importanza si segnalano i miglioramenti relativo al lavoro con DSA e BES).
    Tutte cose difficilmente riscontrabili attraverso un test, e non riconducibili a correlazioni statisticamente misurabili.
    Anche in tale caso non si tratta di confrontare “scuole di pensiero”, ma di validare scelte di politica pubblica. Non si può ne si devono sottovalutare tali miglioramenti (anzi…) ma il “decisore pubblico” non può non considerare che mentre non è stato possibile validare risultati attesi (i livelli di apprendimento) sono stati invece raggiunti risultati collaterali non oggetto di “dichiarazioni esplicite” di quella politica. Qualche cosa andrebbe dunque cambiata.
     
  2. La differenziazione di implementazioni e realizzazioni.
    Più si formalizzano e standardizzano gli strumenti di rilevazione e osservazione “a distanza”, di documentazione “normalizzata”, più si “conformizzano” gli esiti della rilevazione. Più si osservano i fenomeni sul campo, anche correndo il rischio della soggettività dell’osservatore, più la realtà si rivela differenziata e plurale. Tenere l’equilibrio degli approcci è la condizione per una “buona inferenza” (H. Putnam).
    Ciò vale appieno per il progetto Classi 2.0 e per la sua implementazione osservata sul campo.
    La grande differenziazione delle realizzazioni e degli esiti del progetto apparentemente “unitario” è l’effetto di molte cause, soggettive e oggettive.
    Tra le prime, per esempio, il diverso significato assegnato al progetto, a partire dalle diverse esperienze precedenti, dai diversi modelli di gestione, dal diverso “peso specifico” assegnato alle risorse economiche distribuite. Se in una scuola i 30 mila Euro dell’investimento rappresentano il 5% del bilancio complessivo, il “valore strategico” assegnato al progetto è inevitabilmente diverso da quello elaborato in una scuola nella quale essi rappresentano oltre il 20% del bilancio complessivo.
    Parallelamente, se in una scuola esiste già una LIM in ogni aula (ve ne sono..), se i docenti sono già formati, se gli ambienti fisici sono già “pensati e realizzati” per il lavoro cooperativo, se la rete interna è presente e funzionante, il supplemento di finanziamento classi 2.0 produrrà un differenziale di “ricerca e sviluppo” e il miglioramento di cui sopra si inserirà su uno standard già consolidato.
    In altre condizioni il progetto classi 2.0 avrà, al meglio, il carattere di un “punto di avvio”; al peggio un mero carattere residuale di procacciamento di risorse aggiuntive (e vitali). E ciò a prescindere dai livelli di competenza, passione professionale, disponibilità all’innovazione presentati dai docenti. Difficile attrezzare un ambiente per il lavoro cooperativo reso potenzialmente possibile dalla strumentazione digitale, se l’aula ha dimensioni tali da contenere a stento i banchi allineati…
    Il medesimo investimento potrà dunque avere carattere di “ricerca e sviluppo” in una situazione, ed in altre presentare  i limiti di quella politica di investimento che un tempo si indicava come la costruzione di “cattedrali nel deserto”. Le ricadute realizzative della apparente medesima politica sono assolutamente diverse.
    Si tratta qui dei limiti di un approccio “amministrativo” che si riscontrano nel caso in questione, ma che provengono da un “paradigma” più generale della politica di investimento orientata al “primato” dell’offerta, e che è profondamente iscritta nella amministrazione (non solo scolastica) del nostro Paese.
    L’analisi meriterebbe ben altro approfondimento, qui impossibile. Ma è evidente (saltando alle conclusioni) che qui opera la declinazione tra politica dell’investimento di sistema e concezione e pratica dell’autonomia. Anche in tale caso non si tratta ( o meglio non mi pongo da questo punto di vista) solo di confronto tra “concezioni e scuole di pensiero”. E’ invece del tutto evidente, con la forza dei fatti osservati, che una politica di investimento realizzata entro il “primato dell’offerta” (che pure ha ragioni non disprezzabili, come quella della “uniformità” sistemica) senza interrogare direttamente “la domanda”, produce risultati che negano la medesima pretesa di tenuta sistemica.
    La produttività di un investimento in un sistema multicentrico e plurale come è il sistema scolastico (anche solo per le sue dimensioni reali) è fortemente condizionata dalla autonoma “propensione all’investimento” concretamente operante a livello delle singola organizzazione scolastica, nella lettura dei propri bisogni, delle sue priorità, dei suoi modelli di gestione  e programmazione, nella sua cultura organizzativa. Un buon investitore ( e un buon amministratore) dovrebbero preliminarmente essere in grado di valutare e misurare quella “propensione” rilevandone le componenti, i margini, le specificità, ed intervenendo prioritariamente in termini di consulenza e promozione (investimenti a bassa intensità)
    Con una avvertenza di difficile gestione: la differenziazione che nasce da attori come quelli rapidamente ricordati non ha un mero riscontro “oggettivo” ma si declina tra soggettività (le culture organizzative, i modelli di gestione strategia e decisionale, i profili dirigenziali, i modelli professionali declinati) e dati oggettivi come le strutture, gli ambienti, il rapporto tra la scuola e il territorio, il ruolo della singola scuola come dotazione del capitale sociale riconosciuto dalla comunità locale. Sotto tale profilo il nostro è tutt’altro che un “sistema” e proprio un oggetto che si vorrebbe “advanced” come la digitalizzazzione nella didattica è (purtroppo) una buona lente di ingrandimento di tale situazione.
     
  3. L’aula digitale tra “protesi” e decostruzione e ricostruzione di modalità di apprendimento.
    Purtroppo, in questi anni, l’efficacia comunicativa di un costrutto come quello dei “nativi digitali” ha mascherato la necessità di una più radicale riflessione, alla quale si rimanda sempre da parte di pensosi ed esperti opinion makers, e sulla quale si fa molta pubblicistica (anche di ottimo livello) ma poca ricerca. Rivendico la paternità di una battuta che la ripetizione di tale costrutto mi ha letteralmente strappato per insofferenza. La storia dell’umanità è contrassegnata dal destino gramo sempre incontrato dai “nativi”. Massacrati, imprigionati, ma anche, nelle ipotesi ”buoniste”, relegati in confortevoli “riserve”. Perciò quando parliamo di “nativi digitali” dovremmo esplicitare fino in fondo le nostre intenzioni ed il destino che ne disegniamo.
    Nella panoramica del mio monitoraggio sul campo ho potuto esplorare, nelle realizzazioni concrete, l’intera gamma delle interpretazioni connesse con l’uso delle TIC (e sempre all’insegna della esaltazione dei “nativi”). Procedo anche in questo caso per sintetiche generalizzazioni.
    Il primo livello è quello della “protesi”. Gli strumenti delle TIC sono usati ed interpretati come estensione della efficacia e dell’efficienza dei processi di insegnamento e apprendimento. Un livello tutt’altro che insignificante. Anzi.
    Sto rileggendo il Decamerone sul mio Kindle di Amazon. Punto su una parola e si apre una finestra in collegamento con il dizionario Zanichelli della lingua italiana, o volendo, con il dizionario Oxford dell’inglese memorizzati sul dispositivo. Contemporaneamente posso evidenziare un passaggio e scrivere una nota sulla quale tornare, per un commento generale.
    Nulla che non potessi fare altrimenti (consultare un dizionario, prendere un appunto…). Ma l’efficacia e l’efficienza del mio lavoro sono espanse. L’immediatezza dello strumento, la sua potenza confortano la mia stessa attenzione e il mio stesso piacere della lettura. Avessi avuto a disposizione mentre ero studente!!… (Tenere conto di tale livello di problematica è essenziale quando, per esempio, si parli di e-book. Altrimenti ci si limita a discettare di PDF, e non è certo questo il problema…).
    A livello problematico successivo sta il passaggio dalla “protesi” (l’estensione dell’efficacia e dell’efficienza del lavoro umano) alla “macchina” che incorpora il lavoro stesso. Sempre un esempio: l’uso del tradizionale tornio parallelo, appreso nella mia frequenza dell’istituto tecnico (non ho fatto il liceo), per costruire un pezzo conico, mi costringeva comunque a calcolare il rapporto tra l’avanzamento longitudinale dell’utensile e la sua traslazione trasversale (dalla combinazione si produceva il cono). Dovevo applicare qualche fondamentale conoscenza di trigonometria. (Per inciso: il lavoro manuale in quel caso richiedeva di conoscere la trigonometria, che infatti stava nei programmi di insegnamento. Contemporaneamente, in quegli anni, nella preparazione delle future maestre, l’istituto magistrale di allora, la trigonometria non stava nei programmi. Singolare retaggio, forse ancora operativo oggi, sia pure come riflesso culturale…).
    Ma se devo costruire un pezzo conico su una macchina a controllo numerico, mi basta dare alla macchina le specifiche del pezzo. I calcoli li fa lo strumento. La trigonometria posso non conoscerla. Posso considerarla “un fossile”.
    Nelle esperienze osservate ho visto varie declinazioni di questi due primi livelli di esplorazione della tecnologia. Ma ve ne è uno successivo.
    Per ciascuno di noi e a diversa composizione, coesistono due approcci “apprenditivi” verso la realtà: quello “simultaneo-sintetico” e quello “sequenziale-analitico”. Sono due forme di conoscenza che fanno parte entrambe del substrato antropologico comune. Individualmente si combinano in gradi e forme specifiche che appartengono allo “stile” di ciascuno.
    Nella scuola, tradizionalmente, nel suo legame con la nostra civiltà a partire dal protoilluminismo del IV-V secolo ateniese, viene privilegiato l’approccio analitico sequenziale. Nelle migliori esperienze didattiche il buon insegnante personalizzerà il lavoro, utilizzando lo stile prevalente di ciascuno per dare maggiore efficienza all’apprendimento e contemporaneamente sfidando ciascuno a misurarsi con l’altro approccio in nome di un “ideale” di onnilateralità dell’umano e del significato profondo del termine “formazione” (forma hominis juxta propria principia direbbe Tommaso).
    Il digitale enfatizza l’approccio simultaneo sintetico. Quello che ci fa apparire i nostri studenti come dei “draghi” nell’uso dei devices.
    Ma la domanda, in fase di “formazione” (diverso sarebbe se ci si ponesse per esempio in una fase di “professionalizzazione”) è la medesima e costituisce la vera sfida pedagogica: quale combinazione tra i due approcci? Come integrarli sul substrato antropologico e psicologico dei soggetti, tra valorizzazione del proprio “stile” e la “forzatura” (ebbene sì: l’apprendimento avviene per stretching..) a misurarsi con l’altro stile? L’attualizzazione di tale domanda è dovuta alla pervasività, generalizzazione, diffusione di quegli strumenti che favoriscono il simultaneo-sintetico delegando al device la fatica analitica.
    Quali saperi e quali forme di sapere possiamo legittimamente considerare come “fossili”, e perché?
    Questo è il campo della ricerca. Ho incontrato docenti che di fronte a tali problemi applicavano il loro sapere e buon senso professionale. (E’ la parte del mio report che ho classificato come “narrativa”). Ma è evidente che occorre di più e di meglio. Sotto tale profilo il deludente (per usare un eufemismo) contributo dell’Università e dell’ANSAS-INDIRE allo sviluppo del progetto classi 2.0 rappresenta uno degli elementi critici più rilevanti e più necessitanti di correzioni.
    C’è la possibilità di un vero e proprio “laboratorio di massa”. Che è cosa assai diversa dal produrre
    (anche qualificata) pubblicistica.

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