Direzione didattica di Pavone Canavese

Progetto Storia del '900. Libri e articoli

 

Pietro Veronese, Africa-Reportages
Laterza, pagg. 180, lire 18.000

recensione  di STEFANO MALATESTA (da La Repubblica, 18 dicembre 1999)

"Gli uomini non sono tutti uguali. Le razze esistono e si dividono in superiori e inferiori. E superiore a tutte è l'africana". Che splendido inizio per un libro sull'Africa. Fa venire in mente per lo stile il celebre attacco di Paul Nizan in Aden Arabia: "Avevo vent'anni. Non lascerò a nessuno dire che è la più bella età della vita". Segno della modestia di Pietro Veronese che nel suo libro Africa-Reportages (Laterza, pagg. 180, lire 18.000) l'abbia messo nell'epilogo. Perché prima dei pensum, vanno le cronache. Solo dopo si può affermare che in un villaggio africano o in una di quelle orrende bidonville che nelle capitali circondano i palazzi presidenziali, un europeo non resisterebbe a lungo. Mentre i "nativi" tirano avanti come nella giungla darwiniana, riuscendo anche a sorridere. Un'idea simile l'aveva espressa molti anni fa un grandissimo antropologo, Claude Lévi-Strauss, spiegando in Tristes Tropiques che gli indios dell'Amazzonia avevano raggiunto il più alto livello di civiltà possibile in quell'area geografica e con quel clima. Dove trovano la forza gli africani per dimostrarsi amici verso i loro peggiori nemici, i bianchi?

L'immagine che riflette l'Africa, per chi ne segue gli avvenimenti in maniera non professionale, è quella di un continente perduto. L'immagine viene da lontano. Durante l'epoca coloniale si sosteneva che non c'era una storia africana da capire, ma solo la storia degli europei in Africa da insegnare. Battaglie e conquiste, dinastie e colpi di stato, tutto si era susseguito senza intravederne un senso, perché niente aveva una direzione. "The rest is darkness", il resto è buio, ha detto una volta il regio professore di storia H.R. Trevor-Roper. In un mondo dominato dalle tecniche europee, dagli esempi europei, dalle idee europee, l'unica cosa da fare è quella di studiare il passato europeo. La storia come storia dei vincitori.

Oggi sembra tutto molto peggio. Dall'assassinio di Sylvanus Olympio nel 1963 alla defenestrazione in Zaire del presidente Mobutu nel 1997, ci sono stati più di settanta colpi di stato. Nel Benin, che un volta si chiamava Dahomey (la girandola dei nomi attribuiti agli stati rende ancora più difficile l'orientamento per il profano) hanno preso d'assalto per sei volte il palazzo del governo, la costituzione è cambiata cinque volte e si sono visti dodici capi di stato in cinque anni. Le altre nazioni non stanno meglio, con qualche notabile eccezione: Senegal, Tunisia, Egitto, Marocco. Stati che ammettono un solo partito, quello del capo della ghenga, ordine imposto militarmente, le risorse del paese dilapidate in progetti demenziali o, più spesso, intascate direttamente dai vari leader, sono diventati la norma. Si ripete sempre che la maggiore responsabilità vada addossata alla fretta con cui si è concesso l'indipendenza ai paesi africani impreparati. Ma un disastro simile era difficile prevederlo anche per chi non si fidava dell'ottimismo terzomondista basato sulla chiacchiera.

Chi va in Africa, chiamato a raccontare stragi, genocidi, rivolte, pestilenze, siccità, inondazioni, ha un compito estremamente difficile. Non basta inzeppare l'articolo di aggettivi estremi, di descrizioni di scene raccapriccianti. Quelle le vediamo in televisione e comunque ce le immaginiamo, perché la fantasia vola sempre verso il peggio. Bisogna anche trovare un significato, dare un senso agli avvenimenti africani che gli storici definiscono appunto privi di senso. Veronese è andato alla ricerca dell'impossibile. E lo ha fatto non solo con grande competenza, ma come se si trattasse del più interessante, facile e remunerativo degli incarichi. A un certo punto dice che l'Africa si "presenta come una sconfinata miniera a cielo aperto. Un posto dove non c'è quasi bisogno di scavare, perché basta andare in giro e si inciampa nelle pepite d'oro". Per questo sono un ammiratore di Veronese.

Un altro suo merito è di trattare l'Africa come un essere affetto da una sindrome galoppante di personalità multipla. Va bene l'unità del continente, la sua eterna somiglianza con sé stesso. Ma ogni caso deve essere visto per quello che offre e se la Nigeria o il Ruanda esemplificano l'incubo africano, il Sud Africa mantiene una traballante speranza di trasformare i sogni in realtà. Un'altra nazione, lo Zimbabwe, al momento dell'indipendenza era considerata una delle più promettenti di tutta l'Africa. O comunque una di quelle meno a rischio. Oggi è sull'orlo della catastrofe, insieme con il Kenya, per l'alto tasso di corruzione e di malgoverno. E chi avrebbe mai immaginato che le alte colline di un paese paradisiaco come il Ruanda diventassero teatro di una delle più spaventose stragi del secolo, con quasi un milione di morti, la maggioranza tutsi?

Dicono che dopo la fine della guerra fredda, si siano moltiplicate le guerre dimenticate, di cui non parlano i giornali, perché non interessano a nessuno. L'Africa è la terra di queste guerre, in Angola o in Eritrea. La più infame di tutte si svolge da anni nel sud del Sudan e consiste nel tentativo del governo sudanese, fanaticamente mussulmano (ha lasciato che per molti anni il più famoso terrorista internazionale, Osama bin Laden, trovasse rifugio a Karthoum) di annientare i Nuba, una straordinaria popolazione animistico-cristiana che vive in un territorio montagnoso, lontano dalle antiche strade carovaniere, assolato cuore della negritudine, dove si muore di fame. Forse i reportage migliori di tutto il libro sono questi che parlano di neri atletici e orgogliosi, che non chiedono l'indipendenza, ma soltanto di essere sé stessi. Nella premessa Veronese racconta che il suo rapporto con l'Africa è stato all'inizio come un matrimonio combinato, fatto di stima e di interesse, in attesa dell'amore. Possiamo assicurare che la stima e l'interesse si sono trasformati in una travolgente passione.

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