24.01.2015
C’est la 
	faute à Voltaire: se Voltaire diventa  un brand…
	di Franco De Anna
	Si sa, il tempo della 
	riflessione, al tempo della sua infinita riproducibilità, è compresso e 
	compromesso dalla velocità dei media e della loro infinita capacità di 
	orientare, sollecitare, provocare, la pubblica opinione.
	Nell’arco di pochi giorni dalla tragedia di Parigi la discussione pubblica 
	ha cambiato più volte registro. E non mi riferisco alle opinioni, ovviamente 
	diverse, a confronto, ma proprio al registro dell’argomentare, ai 
	riferimenti messi in campo, alle “identificazioni” prontamente rielaborate 
	come i tanti e diversi (tutti mediaticamente fortunati, anche quando in 
	opposizione tra loro)  “Je suis…”.
L’eredità dell’illuminismo
	Siamo partiti con il 
	richiamo generale “all’illuminismo” come radice propria della cultura 
	dell’Occidente, base del sistema dei diritti e delle libertà che 
	costitui-scono (-rebbero) il contributo fondamentale della cultura europea 
	alla civiltà umana…
	Nel nostro mondo di scolastici, l’amico Tiriticco è immediatamente 
	intervenuto con interessante contributo (mancherebbe…). E commenti 
	appropriati anche nelle pagine di questo sito.
	Notizia recente è che, stimolato intensi e ripetuti richiami, vi è un 
	significativo incremento delle vendite del “Trattato sulla tolleranza”. 
	Chissà se gli interessati nuovi lettori sapranno cogliere (qualcuno lo 
	spiegherà loro?) la consapevolezza che “quel” Voltaire è notevolmente 
	diverso dal giovane che scrisse il “Trattato di metafisica”, predicatore 
	entusiasta della libertà dell’uomo. Tra il primo e il secondo vi è la misura 
	del dramma del terremoto di Lisbona,  lo sconcerto del confronto con la 
	miseria umana,  con la morte, con la dimensione del dolore della vita. Con 
	l’incontrollabilità razionale del destino.
	La tolleranza e il suo fondamento si collocano, anche per Voltaire, in 
	quella dimensione, più che nella astratta affermazione della libertà.
	Del resto… l’Illuminismo è davvero il contributo  specifico della cultura 
	europea alla civiltà umana? 
	La cultura tedesca, “dopo” Goethe e Schiller non produsse forse la tragedia 
	del nazismo?
	E la/le guerre mondiali che hanno segnato il ‘900 hanno forse altri padri e 
	madri? E non si tratta solo di “deviazioni e parentesi”  di dittature. 
	I civilissimi cittadini di Weimar, città di Goethe, non potevano 
	materialmente non accorgersi di ciò che accadeva a pochi chilometri da loro, 
	sulla collina ben visibile di Buchenwald…  
	Se proprio dobbiamo usare il costrutto del “je suis…” credo che ciò 
	che segue l’affermazione di identità europea possa e debba essere un elenco 
	lungo, che articola certezze luminose con miserie e colpe infami, generosità 
	ed egoismi, eroismi e tradimenti; violenza e diritti, giustizia e massacri.
	Della “triade” rivoluzionaria (libertà, uguaglianza, fraternità) cosa 
	potremmo ragionevolmente raccontare ai nostri figli?
	La libertà ha trovato traduzione progressiva nei diritti. In quelli politici 
	certamente; quelli civili (fondamentale e intangibile quello di proprietà) 
	via via riconosciuti ma non senza drammi (che dire della Repubblica francese 
	post rivoluzionaria che confermò la schiavitù nelle sue colonie?); quelli 
	sociali in crescita potente e significativa nel trentennio successivo alla 
	seconda guerra mondiale con l’affermazione del welfare… Ma oggi?
	L’eguaglianza? Se c’è una fase storica nella quale si moltiplicano le 
	disuguaglianze è quella che stiamo vivendo. O meglio: dati alla mano le 
	disuguaglianze tra le nazioni (per esempio tra quelle sviluppate  e quelle 
	in via di sviluppo) si vanno lentamente  riducendo; ma si accentuano le 
	disuguaglianze all’interno delle diverse popolazioni. La guerra alla povertà 
	sembrerebbe oggi vinta; ma… con la sconfitta dei poveri.
	Il terzo termine della triade rivoluzionaria è sempre stato per la verità 
	quello di più difficile e controversa interpretazione. La fraternità, (o la 
	fratellanza…) in cosa consista davvero è assai problematico definire… 
	Probabilmente perché sui tratta di un valore cui è difficile dare semantica 
	convincente rimanendo sul piano della “ideologia” della laicità, o del puro 
	esercizio della “ragione”.
	Chiedersi (è stato fatto ripetutamente e da pulpiti diversi) come sia 
	possibile che vengano reclutati terroristi tra giovani apparentemente 
	cresciuti ed integrati nella “nostra civiltà” urbana è domanda carica di 
	ipocrisia appena ci si misuri davvero con le poche e necessariamente 
	superficiali considerazioni precedenti.
	Il riferimento all’Islam come causa, in questa chiave, è altrettanto 
	ipocrita e sostanzialmente isomorfo all’opposto riferimento che fa 
	dell’Islam la leva strumentale per il reclutamento terrorista agita da altri 
	soggetti e da altre politiche. 
	E tale ipocrisia costringe a singolari acrobazie concettuali, come quella 
	che ricerca “l’Islam moderato”.  Si può e si deve ovviamente cercare e 
	affermare il rispetto reciproco di tutte le religioni; ma è francamente 
	risibìle chiedere ad un credente di esprimere una “fede moderata”. Lo dice 
	un ateo come me: si può mai chiedere ad una persona di credere in dio 
	moderatamente? 
	E del resto è altrettanto carica di ipocrisia la presa di posizione più 
	squisitamente politica di Paesi che si propongono come paradigmi di libertà, 
	ma che agiscono in un panorama  caratterizzato da contraddizioni evidenti 
	nei reciproci rapporti  internazionali.
	Non sono oggetto della riflessione che qui propongo, ma certamente non si 
	può non ricordare che Qweit e Qatar finanzino l’autoproclamato califfato 
	perseguendo interessi ed equilibri complessivi del medio oriente.… che quel 
	movimento si sia sviluppato sulla base della destabilizzazione del regime 
	siriano e delle ambiguità ed incertezze del comportamento dei paesi 
	occidentali… Che il califfato abbia sviluppato una sorta di sistema di 
	piccola impresa estrattrice di petrolio che viene venduto clandestinamente 
	sul mercato internazionale con buoni profitti….
	E ricordare che in Nigeria il successo e l’espansione di Boko Haram 
	sarebbero inspiegabili senza debolezze complici dell’esercito nigeriano, la 
	rapina del paese da parte di una classe politica che, a partire dal 
	presidente cristiano, ha tradito gli accordi per l’alternarsi di cristiani e 
	mussulmani alla presidenza (In Nigeria la popolazione è sostanzialmente 
	suddivisa in termini quasi paritari tra le due religioni..)… e insieme al 
	miope perseguimento di egoistici interessi nazionali dei pesi europei, 
	l’inconsistenza di una politica estera dell’Unione, vi è il consistente, 
	dinamico e non appariscente intervento cinese in tutta l’Africa.
	Un cumulo di cause, di riflessioni, di consapevolezze che attendono di 
	essere approfondite nel dibattito dell’opinione pubblica la cui attenzione 
	invece viene “deviata” sull’Islam e sui versetti del Corano.  E vi è chi si 
	presta volentieri a tale strumentalizzazione.
	C’è naturalmente una aggravante nazionale: siamo un paese di particolare 
	ignoranza religiosa. Se dovessi citare i versetti “violenti” della Bibbia 
	gran parte degli interlocutori mi indicherebbero coerentemente e preoccupati 
	come terrorista. 
	Nei Paesi della Riforma, almeno, la lettura del libro accompagna la 
	religiosità, e i fedeli sono stati abituati ad interpretare (e prima di 
	tutto a leggere e scrivere, a livello popolare, almeno un paio di secoli 
	prima di noi)… Ma da noi (con insegnamento religioso previsto come 
	“normale”, fatta salva scelta esplicita delle famiglie) chi legge la Bibbia?
	
	Ma la riflessione che voglio qui proporre pur richiamando la necessità di 
	quella analisi politica a fronte delle parzialità, opacità, deformazioni 
	nell’orientamento della “opinione pubblica” , non  sta  sul piano 
	dell’analisi politica. Penso piuttosto al rapporto tra tutto ciò e le 
	domande che tutto ciò pone alla dimensione della formazione.
Diritti, religioni e laicità.
	Impegnato in questi 
	pensieri mi è tornato per le mani un libro di un illustre interprete del 
	pensiero laico, di scuola mazziniana, interprete di Bobbio, attento anche a 
	problematiche formative. Mi riferisco a Maurizio Viroli, e il libro in 
	questione tra i tanti da lui scritti ha un titolo che esprime un programma 
	“Come se dio ci fosse: religione e libertà nella storia d’Italia”.
	Il riferimento che faccio ad esso è in realtà un riflesso specchiato, e 
	dunque richiede un doppio registro. Il titolo scelto da Viroli richiama un 
	costrutto fondamentale che spesso viene ascritto a Dietrich Bonhoeffer il 
	pastore luterano che partecipò alla congiura per uccidere Hitler (fu 
	giustiziato, fallita la congiura) e che nel dramma della propria coscienza 
	di cristiano che accettava tormentosamente  l’idea dell’omicidio del 
	tiranno, avrebbe cercato una definizione di diritto e di etica comunque 
	validi “Come se dio non ci fosse”.
	E’ un costrutto spesso ri-utilizzato dal pensiero laico, quando voglia 
	indicare la necessità di norme giuridiche e di definizioni etiche valide a 
	prescindere da ogni fede religiosa e dunque  proponibili come universali 
	all’interno di una società tollerante e promuovente i diritti individuali e 
	collettivi.
	Ora io non so se si tratti di un infortunio o se dipenda dal fatto che 
	Viroli (forse) abbia scritto il libro in inglese con il titolo che suona “As 
	if God existed…”
	Ma quel doppio riferimento usato per illustrare una cultura nazionale 
	certamente non caratterizzata da alto livello di laicità, ha una origine 
	lontana . Il costrutto è in realtà di Grozio e risale alla prima metà del 
	seicento, quando egli (cristiano riformato ma di orientamento liberale, non 
	calvinista..)  pose le basi del diritto civile moderno.  Grozio cercando il 
	fondamento di una norma giuridica che potesse predicarsi come universale si 
	pose il problema della sua validità non “Come se dio non ci fosse” ma “Anche 
	se dio non ci fosse”. Dunque non un “ut si deus non daretur” (o un “as if 
	God…”), ma” Etsi (etiam si) deus non daretur”.
	La scelta di un avverbio cambia il senso complessivo. “Come se dio non ci 
	fosse” è inaccettabile certamente per un credente (si può mai chiedere ad un 
	credente di agire come se dio non esistesse?), ma anche per un non credente 
	che dovrebbe dare fondamento della propria scelta etica con una  sorta di 
	“simulazione”, di “convenzione infondata”.
	“Anche se…” propone invece ad entrambi, credente e ateo, di misurarsi con la 
	dimensione del dubbio, dell’incertezza, che non può che essere dimensione 
	esplorata sia da una fede seria e costantemente approfondita, sia da una 
	scelta atea… entrambe chiamate, proprio in nome di tale dimensione di 
	incertezza, a trovarne composizione rispettosa e dialogo.
	Cito sempre, da ateo, un motto del Talmud che dice (pressappoco) “Il Signore 
	ha parlato, e io ho udito due voci..” e che disegna efficacemente la 
	dimensione dell’incertezza della permanete necessità dell’approfondimento, e 
	dunque (anche letteralmente) del dia-logo. Del resto nella Bibbia dio dice a 
	Mosè: “non vedrai mai il mio volto..”. (A proposito di iconoclastia…)Vorrei 
	dunque proporre, a chi si occupa di formazione, una interpretazione del 
	dia-logo, della tolleranza, del confronto, che non hanno la dimensione 
	luminosa (illuminata…) delle affermazioni del diritto, della legge, della 
	“naturalità” della ragione, ma quella faticosa dello “scarto”, 
	dell’incertezza, del dubbio, del non poter “guardare dio in faccia”, e del 
	dolore di tale fatica
Illuminismo e formazione.
	Sotto questo profilo, 
	allora, lo sgomento della domanda “…ma come è stato possibile che giovani 
	nati, cresciuti, istruiti nella nostra società “illuminista” diventino 
	fanatici capaci di compiere ciò che hanno compiuto..?” perde il rischio di 
	ipocrisia e diventa interrogativo che colpisce direttamente chi si occupa di 
	istruzione, di scuole, di formazione…. Il ragionamento “politico” 
	rintraccerà e darà, se ne è consapevole, le risposte sul piano della 
	emarginazione sociale, della disuguaglianza, della esperienza di quotidiana 
	ingiustizia delle periferie della grandi metropoli multietniche e 
	multiculturali.
	Ma che la ribellione contro l’ingiustizia, non solo acceda alla violenza (la 
	storia della lotta di classe non né fatta di pacifismo…) ma identifichi il 
	terreno religioso e si immedesimi con una guerra di religione contro gli 
	infedeli e che declini la violenza non in termini di lotta di massa ma di 
	terrorismo individuale, tutto ciò invece rende fondata la domanda iniziale: 
	“che cosa è accaduto nella formazione di questi giovani?”. Una domanda che 
	investe la formazione (e non solo la scuola, ovviamente) di tutte le  nuove 
	generazioni.
	Ma il terreno nel quale affondano le radici di questa domanda è di assai 
	complessa dissodatura. Provo a proporre una domanda parallela, confidando 
	che essa stimoli il pensiero dei lettori e la ricerca di risposte, al di là 
	della rielencazione (come non condividerla, ma rischia qui di essere 
	stereotipa) di richiami alla libertà di stampa, a quella di opinine, al 
	ruolo della satira, al rifiuto della violenza…ecc..
	Prendiamo una vignetta del giornale satirico francese contro il quale si è 
	concentrata la violenza terrorista, Rappresenta, o lo vorrebbe, la trinità 
	(il nucleo dommatico di un cristiano) in questo modo: dio sodomizza Gesù che 
	a sua volta  sodomizza lo Spirito Santo…
	Ho scelto volutamente una vignetta (satirica?) che non ha come bersaglio 
	l’Islam.
	Fatto salvo il repertorio di richiami alle diverse libertà, e quello alla 
	volterriana tolleranza, nonché il richiamo alla funzione del diritto e della 
	giustizia, ed non alla violenza della reazione individuale dell’offeso, a me 
	pare si possa riproporre esattamente la domanda “ma cosa è accaduto nella 
	formazione di queste persone, come è possibile che nate e cresciute e 
	acculturate nella nostra società illuminista e tollerante manifestino in 
	tale modo il proprio pensiero, o la propria arte, o il proprio animo...Da 
	dove può mai nascere tale violenza (in questo caso verbale, certamente…) 
	contro la fede di propri simili… in quali pieghe dell’anima o irrisolti 
	psicologici si alimenta tale violenza…?”. In questo caso, probabilmente 
	senza neppure la possibilità di invocare il piano politico-sociale della 
	emarginazione, della disuguaglianza, della povertà…
	Riproposta nel nostro contesto di persone che si occupano di istruzione, di 
	scuola, di formazione, tale domanda diviene ricerca isomorfa a entrambi gli 
	esempi (certo incommensurabili sul piano della violenza, delle conseguenze 
	ecc…). Chi si occupa di formazione si chiederà comunque sgomento  di fronte 
	ad entrambe le “casistiche” (se confrontate con la pretesa luce dei lumi 
	della nostra cultura..)  dove stia, cosa procuri quello ”scarto”? o meglio 
	ancora (posto che “il male” sia componente ineliminabile dell’uomo) come e 
	cosa fare per contenere, limitare, ridurre i danni? O anche solo vedere, 
	guardare, diagnosticare, prevenire…
	Io  credo che, proprio falsificando il rischio dei fare di Voltaire un brand 
	e un neo successo editoriale, ma anche del richiamo all’illuminismo una 
	sorta di bandiera (di sventolio assai esile per altro, se basta una battuta 
	di papa Francesco a farla ammainare..) della nostra civiltà europea, quella 
	domanda ponga in termini radicali il nesso tra cultura, ragione, educazione  
	formazione: E dunque i compiti fondamentali della scuola (ma non solo…) 
	nella riproduzione sociale (particolarmente, ma non solo, delle nuove 
	generazioni).
	Piuttosto che a Voltaire il mio pensiero va alla cultura tedesca. 
	Bildung e aufklarung, per le ragioni implicite in quanto sopra sono 
	riferimenti che ritengo più pertinenti quando si parli di istruzione e 
	formazione. 
	Rispetto all’illuminismo francese l’aufklarung tedesca non ha prodotto una 
	rivoluzione, ma nel collegamento con la bildung ha sviluppato una 
	sensibilità particolare verso una “istruzione” popolare capace di coniugare 
	la felicità degli individui e la sua ricerca, con una solidarietà sociale 
	per la quale il soggetto è ciò “che sa e dà” al contesto sociale  di 
	riferimento.
	Da Kant, a Goethe e il suo Meister, a Lessing. Ma, se il lettore lo 
	preferisce, il riferimento è all’illuminismo scozzese (So che gli amanti 
	delle “congiure nascoste” son pronti ad accusarmi di appartenenze  
	massoniche: le smentisco in via preventiva) . 
	Le differenze tra gli approcci sono comunque radicate nella dimensione 
	“individualista” del richiamo alla ragione e ai suoi lumi nella cultura 
	francese. 
	Dunque non solo questi ultimi sono il riferimento, ma lo è Bildung, 
	costruzione, formazione in senso stretto. 
	Chi si occupa e lavora per l’educazione sa per propria esperienza che i lumi 
	della ragione non esauriscono la sua missione, non rispondono alla esigenza 
	complessiva di costruzione del soggetto, alla necessità che esso trovi e 
	rielabori la sua posizione nel mondo. 
	Il riduzionismo razionalistico ha, sotto il profilo educativo, esiti 
	contraddittori, a volte perniciosi, sia rispetto al singolo soggetto, sia 
	nella rielaborazione culturale collettiva; può produrre come esito del suo 
	esclusivismo, la negazione del valore stesso della ragione (ci riconoscete 
	qualche vostro studente?). Del resto ciò è accaduto nella storia stessa del 
	pensiero (da Kant a Nietzsche), e a maggior ragione accade nella storia 
	della evoluzione del soggetto.
	Adolescenti costretti a cibarsi di quest’unico ingrediente declineranno 
	volta a volta derive bulimiche verso il proprio desiderio reiterato nel 
	consumo senza compimento, o derive anoressiche assolutizzanti incapaci di 
	rielaborarlo e di riconnetterlo come ingrediente, tra gli altri (compreso il 
	proprio desiderio), della propria crescita e affermazione di autonomia.
	Se Bildung è “costruzione”, allora  la formazione dell’uomo implica sempre 
	una “potatura”, una ”ferita”, un “artificio”. 
	Tommaso dice “forma hominis, juxta propria pincipia..” dunque  non secondo 
	la “propria natura” ma secondo una forma determinata “al di fuori”. 
	Per Marx è il “lavoro” (dunque lo sforzo, la fatica) il processo di 
	umanizzazione dell’uomo; e nella creazione di questa sua “seconda natura” 
	sta la ferita dell’alienazione.
	Adorno usa ripetutamente termini come “mutilazione”, “storpiamento” per 
	indicare concretamente il processo di formazione, e guarda al “sistema della 
	cicatrici” (rileggere “Minima moralia”. Non dico invece, ma almeno accanto, 
	al riacquistato “Trattato sulla tolleranza”).
	Del resto l’etno-antropologia 
	ci propone dovizie di esempi nei quali la “formazione”, l’acquisizione della 
	“adultità”  si accompagna, in certe culture anche fisicamente, con la 
	ferita, la scarificazione. (E i piercing plurimi  dei nostri adolescenti?).
	E infine la castrazione (simbolica) non è forse la “topica” fondamentale 
	della costruzione del soggetto nell’approccio freudiano?.
	Chi si occupi di formazione, sia che operi nella scuola e nell’istruzione, 
	sia che lavori nei media e nell’informazione, o comunque, per il ruolo ed il 
	lavoro che fa ha possibilità, grandi e men grandi, di influenzare e 
	determinare il senso comune, la cultura sociale condivisa (la funzione 
	“intellettuale, secondo Gramsci), porta questa pesante responsabilità.
	Si misura innanzi tutto con i rischi del “riduzionismo” che riporta la 
	formazione stessa ad un percorso lineare. Un bel repertorio di dichiarazioni 
	di “diritti”, così apparentemente “naturali” e rassicuranti del benessere 
	(benestare) sociale, e la reiterazione convincente attraverso la 
	comunicazione, lo spot, il richiamo alle “educazioni”. 
	Misurarsi invece con quello scarto, con quella “ferita” che sta nel cuore 
	profondo della formazione è più complicato, più destabilizzante, reclama 
	responsabilità vere e partecipate, non elenchi e repertori di diritti 
	“naturali”.
	In altro contributo su queste pagine sottolineavo che un docente non 
	esaurisce il suo lavoro e impegno con la “geometria” del curricolo, ma 
	sperimenta quotidianamente e in modo tanto più drammatico quanto più 
	profondamente viva il suo impegno, il rapporto con quella dimensione di 
	scarto, di ferita, di “potatura”, di castrazione simbolica che è il cuore 
	duro  della formazione. E chi invece dedica esclusivamente  la propria 
	attenzione alla geometria del curricolo finisce per pensare di avere di 
	fronte non giovani, preadolescenti o adolescenti reali, ma una sorta di 
	“idealtipo apollineo”, che, al peggio, andrà “convinto” , attraverso 
	opportune ”unità didattiche” ben progettate magari secondo le “indicazioni 
	ministeriali”, delle buone “ragioni”, e “naturali”, della cultura, della 
	scienza, del sapere, della “naturalità” del sistema dei diritti.[1] 
	 
	Salvo contraddirle clamorosamente, appena fuori dal perimetro scolastico, 
	allo stadio, nei bar del quartiere con gli amici, o anche semplicemente 
	“twittando” sullo smartphone. 
	Giacobbe lotta per tutta la notte  con l’angelo, anzi con dio stesso (Genesi 
	32, 23-33. Si perdonerà a un ateo come me l’invito a leggere la Bibbia?) E 
	non molla. Ne esce sciancato (lo storpiamento di Adorno), ma vincitore. “ 
	Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con dio e 
	con gli uomini e ne sei uscito vincitore”. E mentre lottava avvinto 
	all’avversario, e non lo lasciava andare,  Giacobbe gli dice “non ti 
	lascerò se non mi avrai benedetto”.  In altre parole combatte perché “si 
	dica bene di lui”…
	C’è metafora più potente (nella nostra cultura. Credo vi sia traccia 
	assimilabile  nel mito di Gilgamesh..) della “formazione” dell’uomo, del 
	valore e significato della cultura, della “fondazione” dell’impresa umana? 
	La vittoria dell’uomo su dio è segnata dalla “sciancatura”, dalla ferita 
	(chissà se il Voltaire che rifletteva sul dolore irrimediabile e 
	“sragionevole” del terremoto di Lisbona non avesse intuito proprio questo…); 
	e la lotta è per ”essere benedetto” dall’avversario, non per odio nei suoi 
	confronti.
	E contemporaneamente l’esito della lotta vittoriosa è l’acquisizione di una 
	dimensione sociale e collettiva ”da ora in poi ti chiamerai Israele”. La 
	formazione compiuta (bildung) è in dimensione sociale, non individuale. 
	La cultura e il sapere non sono rapportabili con la natura, neppure quella 
	immaginifica nella sua “primordialità” (non è un caso se “pedagogista” 
	Rousseau, ne fece il fulcro contraddittorio della sua riflessione). Sono 
	invece “artificio”, costruzione. Dunque lotta, sciancatura, ferita. Segno 
	permanente che rimane nel tempo.
	Il sapere 
	e la cultura sono una “seconda natura” dell’uomo, non solo non rapportabili  
	alla prima, ma “laceranti” rispetto ad essa. 
	Come ricordavo (provocando)  ai miei studenti (tanti anni fa: si era 
	all’inizio delle sensibilità ecologiche e della loro vulgata mediatica) la 
	struttura portante dell’ecosistema è la catena alimentare: chi mangia e chi 
	è mangiato… se volete sviluppare una cultura ecologica misuratevi con tale 
	paradigma, e scoprirete che la cultura e la civiltà umana non solo sono 
	altro e ma anche incompatibili (a meno di essere nazisti..). O come dico 
	sempre ai fondamentalisti della biodiversità: dalla invenzione 
	dell’agricoltura (10-12 mila anni fa) circa l’80% della biomassa del pianeta 
	è ormai composta da sette o otto specie animali e poco più di specie 
	vegetali. Selezionate e riprodotte dall’uomo in questi millenni. Solo il 
	(poco) resto è “natura”. Dunque bene che la “cultura” dell’uomo si misuri 
	con la necessità di rispetto e riproduzione della “natura”, ma è un compito 
	culturale e scientifico: non c’è nulla di “naturale”. Fa parte di quello che 
	Adorno chiama il “sistema delle cicatrici”. La natura-natura è il terremoto 
	di Lisbona che sconvolge Voltaire…
	Ma quella “seconda natura” proprio perché è lacerazione, è nella storia; è 
	“storicamente determinata”; quanto a dire che non vi è predicazione 
	“liberatoria” che non si misuri con la storia dell’uomo e con le sue 
	contraddizioni. Non c’è “repertorio di diritti” che sostituisca la 
	“giustizia sociale”. Battersi per i diritti non è la stessa cosa che 
	battersi per una società più giusta. E questo è il piano del rapporto tra 
	formazione e polis.
	Domande di fondo, le cui risposte (tentativi di..) lascio ai lettori: come, 
	nella formazione,  rielaborare la ferita, la mancanza, la storpiatura; la 
	dimensione dionisiaca e notturna dell’itinerario di formazione, e 
	falsificare l’illusione apollinea della inevitabilità naturale del sapere e 
	della cultura? Come rielaborare “simbolicamente” la ferita  a fronte della 
	realtà di ferite “vere”, patite nella carne e nello spirito (esclusione, 
	selezione, emarginazione), in modo che la stessa ribellione contro 
	l’ingiustizia conquisti una sua “disciplina”? Come rielaborare la dimensione 
	sociale collettiva della formazione, dalla “fratria” (ormai la scuola è il 
	solo luogo di incontro con “fratelli”, scomparsi dal contesto familiare), 
	all’esperienza concreta del valore sociale di “ciò che sei e sai” per 
	ciascuno, rispetto al contesto di riferimento (P. es. sono anni che richiamo 
	l’idea del servizio civile obbligatorio..).
	Due sole notazioni finali di un ragionamento difficile e complesso. Una 
	seria, l’altra meno.
	Si dice, guardando le immagini terribili  di esecuzioni a freddo, a 
	bruciapelo, senza esitazioni: “devono avere avuto un addestramento 
	militare”… Certo. A base di video giochi e di carneficine virtuali.  La 
	virtualizzazione della realtà è un potente strumento di addestramento a 
	ridurre l’impatto, fisico e psicologico, della realtà. Un cazzotto (vero) 
	innesca un sistema di retroazione sensibile: ne porti il dolore sulle nocche 
	per settimane… Non è un caso che una battuta di Francesco sia stata 
	sufficiente a smontare tante elaborazioni…certo usa il linguaggio semplice 
	della vita quotidiana, certo è spontaneo e immediato fino all’infortunio 
	(apparente) mediatico. Ma è il primo papa della storia gesuita e, credetemi, 
	nulla, neppure una parola, è rielaborata a caso…Sa quel che dice e vuol dire 
	a differenza di tanti mosconi ronzanti che cercano di interpretare.
	Un videogioco rovescia fiumi di sangue senza retroazioni se non sul piano 
	emozionale di “accumulo di punteggio”. Bisogna pensarci in una formazione 
	che, giustamente, tende ad integrare al massimo le potenzialità delle 
	tecnologie della informazione, e i vantaggi della virtualizzazione. 
	Virtualizzazione è processo nettamente diverso (opposto) da quello di 
	“rielaborazione simbolica”.
	La notazione meno seria è dedicata all’amico Tiriticco: “tutta colpa di 
	Voltaire” era un modo di dire usato dai “benpensanti” durante la 
	Restaurazione. Ma è anche un verso della canzoncina ironica che Hugo mette 
	in bocca a Gavroche, il fanciullo barricadiero de “I miserabili”. A 
	proposito dell’esercizio dell’ironia e della satira.
	Bisognerebbe decidere quale versione adottare. 
[1] Ho sviluppato più ampiamente l’argomento in Franco De Anna, “La/le geometrie del curricolo”, in “La scuola e l’uomo”, (periodico dell’UCIIM,) n. 7-8, Luglio agosto 2014. Che la rivista cattolica ospiti il contributo di un ateo dichiarato mi pare un bell’esempio di tutto quanto andiamo dicendo