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SCUOLA OGGI: Documenti e interventi sulla  politica scolastica della XVII legislatura

21.10.2013

Penultimi! A quando il primato?
di Antonio Valentino

 

L’indagine OCSE-PIACC: una ragione in più…


L’ennesima, di livello internazionale, da cui usciamo con le ossa rotte.

Mi riferisco all’indagine OCSE-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), svolta nel periodo 2011-2012 – specificamente incentrata sulle competenze dei soggetti in età da lavoro tra i 16 e i 65 anni -.

Le competenze considerate – com’è ormai noto ai più - sono quelle che hanno a che fare lato sensu con le competenze linguistiche e quelle matematiche. Ma le rilevazioni hanno riguardato anche la capacità  di risoluzione dei problemi e la padronanza –basic -  delle Tecnologie dell’informazione e comunicazione (TIC).

I risultati hanno allarmato un po’ tutti perché mai ci eravamo collocati così in basso in una rilevazione internazione che ha coinvolto 17 Paesi dell’area UE e  6 extra-UE (Australia, Canada, Giappone, Repubblica di Corea, Norvegia e Stati Uniti d'America).

Modestamente,  ci siamo piazzati al 23° posto (penultimi!) per le competenze cosiddette alfabetiche;  e non ce la caviamo granchè meglio per le altre competenze considerate.

Insomma uno sfacelo. Che conferma la situazione di vera e propria emergenza alfabetica - ma anche matematica e oltre - di cui ha parlato qualche tempo fa Tullio De Mauro. E, per questa rilevazione, soprattutto Maurizio Tiriticco e Vito Piazza .

Né c’è molto da stupirsi se si considera che, tra i Paesi OCSE, ci collochiamo al penultimo posto (31° su 32 paesi) per quanto riguarda la spesa destinata all’istruzione

(il 9% del totale degli investimenti pubblici, contro una media Ocse del 13%).

 

Nei risultati dell’indagine considerata, non costituisce certo motivo di “sollievo” il fatto che nella fascia 16-35 anni i risultati sono migliori  (per via della scolarizzazione divenuta di massa e per l’innalzamento dell’obbligo); perchè il gap, rispetto agli altri paesi, rimane inalterato anche per questa fascia (anche gli altri migliorano e la nostra collocazione non subisce variazioni).

Un quadro complessivo quindi decisamente vergognoso – e preoccupante -. E  non tanto per il sistema scuola, quanto, più in generale,  per il sistema Paese: la cui cultura complessiva si rivela estremamente carente proprio in relazione al possesso di strumenti fondamentali per la vita sociale - e produttiva – (le competenze al centro dell’indagine). E, nei termini in cui è rappresentata, proietta sul nostro futuro ombre pesanti di marginalità e declino.

D’altra parte, la mancanza di politiche per il Life Long Learning poteva farci sperare altro?

Di tutto questo si parlerà nelle scuole, oltre che nelle varie sedi (la politica, i sindacati, l’associazionismo culturale e professionale, l’università) ? O ormai la situazione è tale che niente più ci tocca?

Come provare ad uscirne?

 

Segnali cercansi disperatamente.


L’ispettore Tiriticco, nella ricerca di punti di attacco per invertire la tendenza in atto, auspica che si lancino, da parte di chi di dovere, segnali “che contino” in una logica di ‘ricominciamento’

Ne indica tre che vale la pena di riprendere. Perché, sebbene possano apparire minimaliste a qualcuno,  se declinate opportunamente, potrebbero segnare l’inizio di una svolta che non può attendere oltre.

Il primo segnale che propone è  “valorizzare il più possibile i 10 milioni previsti per la formazione del personale” nel Decreto-Legge  del 12 settembre (art. 16).

Dieci milioni (a cui sono però da aggiungere le risorse già stanziate per altre operazioni riconducibili all’area della formazione) non sono un gran cifra.

Ma se la loro gestione fosse oculata economicamente  e attenta culturalmente a declinare  quel “valorizzare”  in  termini giusti (ad esempio: favorire – nelle azioni da mettere in campo - coinvolgimento, ricerca-azione, orientamento al risultato, autoformazione guidata e  utilizzo come luoghi di formazione degli spazi di lavoro collegiale previsti), probabilmente qualcosa comincerebbe a muoversi.  

Su questo terreno, carta vincente e da giocare al meglio è sempre il superamento di quelle pratiche di formazione  che sono la riproposizione del modello didattico ancora imperante nelle nostre scuole: la lezione ex cattedra (o pratiche viciniori).

C’è solo da sperare al riguardo che ci si arrivi cercando comunque punti di accordo tra Miur e sindacati sull’annosa questione della  formazione:  se solo diritto, come sostanzialmente – e scandalosamente - avviene ancora oggi, o non anche “dovere” professionale – e quindi obbligo - a tutti gli effetti.

 

Sbloccare il contratto scuola. Per andare dove?

L’altro segnale, nelle considerazioni di Tiriticco, riguarda lo sblocco del contratto della scuola e dei DS. Sul valore strategico di una scelta di questo tipo non si può che convenire profondamente.

Direi di più: sarebbe un segnale importante se le OOSS confederali e le altre forze sociali la assumessero direttamente – ed eccezionalmente - come obiettivo da privilegiare. A sottolineare la funzione centrale che ha la conoscenza - e quindi la scuola - per lo sviluppo e la qualità della democrazia nel nostro Paese.

Si potrebbero recuperare così atteggiamenti di fiducia e di ‘considerazione’, nei confronti dei docenti in modo particolare, senza dei quali ogni altro intervento rischierebbe l’insuccesso.

Ma va anche aggiunto al riguardo che o si punta all’innovazione - certo graduale, ma decisa - oppure il rinnovo contrattuale, se arriva, si rivelerà un pannicello caldo.

Le attese del mondo della scuola che punta alla qualità del suo “ricominciamento” riguardano prioritariamente – credo - possibili scelte finalizzate  

·        a valorizzare la professione docente soprattutto, a partire dalle figure di coordinamento e collaborazione;

·        a definire forme dinamiche per lo sviluppo di carriera volte a riconoscere e socializzare le esperienze didattiche e organizzative meglio riuscite e le sperimentazioni più valide;

·        a favorire modelli organizzativi che rendano praticabile una leadership educativa diffusa;

·        a garantire una formazione del personale continua, obbligatoria e varia nelle forme, che recuperi pratiche di ricerca azione e sia orientata a ricadute concrete sul lavoro di classe (repetita iuvant).

 


Buttare il bambino con l’acqua sporca?

 

C’è un altro segnale che andrebbe richiesto a questa Amministrazione  e che opportunamente Tiriticco mette in primo piano:  rilanciare una seria “cultura della valutazione”. Che lui però associa alla necessità di fermare le  prove Invalsi, utilizzandone le  risorse finora impiegate  “per affliggere le scuole”.  

Probabilmente questa proposta è la più accetta alla maggioranza degli insegnanti. Ma probabilmente non alla sua parte più dinamica e innovativa. 

 

Penso non si abbiano dubbi - da parte di chi lavora ad una scuola un po’ più appetibile ed efficace - sul fatto che, appunto, una “seria cultura valutativa” sia il modo migliore per sviluppare nei docenti consapevolezza del proprio lavoro in classe e consentire una verifica dell’efficacia formativa dei propri interventi. Ma anche per offrire strumenti e criteri volti a sviluppare comportamenti auto-valutativi negli studenti e quindi atteggiamenti riflessivi, autonomi e motivanti.

 Le migliori esperienze sul campo, anche nella nostra scuola in gran parte scalcinata, , per quanto circoscritte, dicono proprio questo. E non solo gli studi più accreditati sull’argomento.

Ma considerare questo obiettivo come incompatibile o addirittura confliggente con l’ Istituto che sovraintende nel nostro paese alla valutazione dei risultati scolastici e del sistema scuola, lo vedo fuorviante e controproducente. Pur riconoscendo i tanti limiti strutturali, le tante criticità, e i tanti errori che ne hanno in questi anni caratterizzato le sue varie attività.

Il segnale che andrebbe richiesto - contestualmente a quello sullo sviluppo di una solida cultura della valutazione dei nostri insegnanti – è piuttosto  quello di investire meglio nella ricerca e nelle procedure valutative dell’INVALSI perché le prove e le indagini in generale abbiano le caratteristiche giuste.

Giuste, sia per capire dove sono più forti le nostre criticità (non tanto quindi come stiamo; hanno ragione quanti  dicono che lo sappiamo fin troppo bene); sia per   lanciare stimoli che indichino direzioni di marcia coerenti con politiche formative nazionali (per esempio, mettendo al centro delle prove la rilevazione di quelle competenze curricolari che sono anche competenze chiave di cittadinanza attiva).

Il discorso, come sappiamo, è complicato e improbo e il terreno difficile. Ma non si getta comunque il bambino con l’acqua sporca.

Perciò un segnale vigoroso su questo terreno - che punti non a fermare l’attività dell’INVALSI, ma a rivisitarne, circoscrivendoli,  prerogative e ruolo (e quindi  pratiche e utilizzo dei risultati) nel Sistema Nazionale di Valutazione – potrebbe essere ben coerente con un modo nuovo di pensare alla nostra scuola e al suo rinnovamento.

Dentro questa logica potrebbe ben collocarsi la scelta di un più incisivo ruolo dell’INDIRE come istituto di sostegno alle scuole, anche sul terreno della cultura valutativa.

Si può ancora sperare?

 

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