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SCUOLA OGGI: Documenti e interventi sulla  politica scolastica della XVII legislatura

20.04.2014

Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere..
di Franco De Anna

Così Wittgenstein nel suo Tractatus…

Se c’è un sintomo del carattere” regressivo” della politica scolastica degli ultimi 15 anni è quello rappresentato dal fatto che, come in un vecchio vinile rotto, si ripetano sempre le medesime argomentazioni in termini esortativi; a parte la noia,  corrodendone in tal modo la stessa semantica. Parole  e concetti in sé carichi di significato, diventano così delle buzz-words, delle parole ronzio, sulle quali comunque ci si atteggia a commentare e sottolineare, financo a distinguersi “politicamente” in un finto dibattimento.

La nuova Ministra della Pubblica Istruzione, nella enunciazione del suo programma, si è esercitata, per esempio, su alcuni argomenti il cui “dire” fu all’ordine del giorno di 15 anni fa (almeno), costituendo allora il fuoco di un confronto culturale autentico e l’ispirazione di una politica.
Mi riferisco a tre “parole” essenziali: autonomia, sussidiarietà, parità.

Attorno alle prime due, delle quali l’autonomia scolastica rappresenta una “applicazione” specifica, ruota una intera stagione di prospettive e di attuazioni parziali di riforma della Pubblica Amministrazione (dunque non solo della scuola) che ha un suo “appuntamento” (non solo simbolico) con al Legge 59/97 (Bassanini), ma che è a sua volta il prodotto di una stagione più lunga, a far data dalla fine degli anni ’70. La periodizzazione non è inutile: si tratta del maturare  di consapevolezza della inadeguatezza del sistema pubblico italiano stretto tra l’ampliamento della produzione di servizi cittadinanza  e del welfare (dal sistema sanitario nazionale a quello previdenziale, alla scuola di massa), la permanenza del modello di amministrazione di tipo “autorizzativo” e non “produttivo” (indifferenza ai parametri “economici” della efficienza, della produttività e del controllo e ottimizzazione dei costi), e l’innesco della “crisi fiscale” dello Stato che investirà tutti i modelli di welfare sul piano internazionale.

Se la Legge 59/97 rappresentò un punto di svolta (sotto il profilo della legislazione) va ricordato che si tratta di un prodotto di una stagione più lunga di elaborazione: bastino per accenni i nomi di Massimo Severo Giannini, Sabino Cassese, e, appunto, Franco Bassanini. 
Allora si diceva di un intervento riformatore radicale, che operava trasformazioni profonde nell’assetto pubblico “a Costituzione invariata” (la successiva riforma del Titolo V, che in parte rintracciava coerenze possibili, al contrario non facilitò le realizzazioni “amministrative”, enfatizzando invece la conflittualità interpretativa).
Non è qui il caso di riprendere i contenuti forti della Bassanini se non per citazioni: dall’impulso al decentramento amministrativo che capovolge le priorità “definitorie” (lo Stato indica ciò che è esclusivo a sé, piuttosto che dedicarsi alle declaratorie di deleghe ad altri Enti), e ribadisce le competenze di esercizio di responsabilità nella unicità di funzioni (dunque no alle repliche di competenze , ai doppioni organizzativi, tra centro e periferia). Alla azione sugli Enti Pubblici la cui proliferazione senza controllo aveva fatto coniare a Massimo Severo Giannini il termine di “entismo”. Azione di sfoltimento numerico drastico e di trasformazione degli assetti con la fuoriuscita dai paradigmi del Diritto Amministrativo (da Enti Pubblici a Fondazioni, agenzie, aziende pubbliche..). Alla introduzione delle categorie economiche di produttività, efficacia, efficienza, come “criteri operativi” che affiancano quello classico (e, nella tradizione, esclusivo) della “legittimità degli atti”.

Potrei naturalmente continuare a lungo nella esemplificazione; ma qui mi preme sottolineare che nella Legge 59/97, il piano della affermazione di principi, delle scelte politiche culturali di ispirazione, della individuazione degli obiettivi e degli strumenti, è davvero esaustivo. Affermazione non dissimile dovremmo fare sulla autonomia scolastica: sul piano definitorio di principi e ispirazioni (ciò che può e “deve” fare uno strumento normativo), che cosa manca al Regolamento dell’Autonomia?
Si trattò di una produzione legislativa, certo non perfetta, ma  che conteneva ampie potenzialità realizzative, la possibilità cioè di costruire una “costituzione materiale” che segnasse il cambiamento profondo degli assetti organizzativi ma anche di sostanziali aspetti istituzionali e culturali. Si pensi alle contraddizioni anche laceranti che “l’amministrativismo” genera quotidianamente in settori come la sanità (vedi le incursioni dei TAR nella ricerca scientifica e nei trattamenti sanitari..), la produzione dei servizi alla cittadinanza, la scuola stessa (i TAR che decidono sul sostegno e l’integrazione..)…
E’ del tutto evidente che gli oltre quindici anni trascorsi sono caratterizzati da politiche pubbliche che non hanno dato corpo operativo a quelle scelte, non ne hanno esplorato le potenzialità e gli ampi spazi realizzativi. Senza negarle formalmente, ne hanno invece rallentato, posticipato, allontanato, compromesso gli impegni operativi necessari a realizzare quanto predicato, spesso continuando a “predicare” entro la palude, ma senza bonificarla.
In questo senso ho utilizzato il termine “regressive” per qualificare quelle politiche pubbliche, piuttosto che l’attributo (certo più nobile) di “conservatrici”. Il confronto politico sul modo di realizzare quel disegno e riempirne le potenzialità di “costituzione materiale” può offrire alternative di cultura politica conservatrice o progressista. Ritrarsi dall’impegno, deviare le priorità, contenere il cambiamento semplicemente lasciando operare l’esistente, significa invece, rispetto ad una realtà storico-sociale-economica in veloce cambiamento, semplicemente “regredire”.

Lo strumento operativo di tale regressione è stata la Pubblica Amministrazione. Attraverso la rielaborazione più o meno sotterranea del tradizionale rapporto tra decisore politico e decisore amministrativo teso a costituire il “compromesso” implicito che ha segnato la storia del nostro sistema pubblico: potere senza autonomia e autonomia senza responsabilità.
Si tratta di qualche cosa di più dell’ovvio meccanismo per il quale ogni megastruttura organizzata tende prima di tutto a conservarsi, e che dunque pensare di riformare la P.A. senza incidere profondamente nella sua distribuzione di poteri interni, senza smontare rapidamente i meccanismi cooptativi, e finanche senza rinnovamento generazionale, poteva essere una illusione. Si tratta di qualche cosa di più radicato e specifico nella nostra storia. Rimando alle analisi di Massimo Severo Giannini o di Sabino Cassese. Uso solamente un esempio immediato.
Nel Palazzo di Viale Trastevere dove ha sede il MIUR, vi è una sala oggi detta “dei ritratti” (un tempo vi si riuniva il Consiglio di Amministrazione). Il lettore che abbia l’occasione di visitarla vedrà che alle pareti sono appesi i ritratti a olio dei Ministri della Pubblica Istruzione, da Casati (1860) a Gentile (1922-24). Coprono dunque un arco temporale di circa 60 anni ( poi si smise di fare ritratti…). Nelle noiose riunioni li contavo e ricontavo, perdendomene sempre qualcuno; ma sono oltre 50 (ultimi ricordi 54 ma qualche volenteroso potrebbe confermarmi).
Credo che se guardassimo ai dati dei periodi successivi anche del secondo dopoguerra, sarebbe comunque confermata una realtà: non è “la politica” che governa il sistema della pubblica istruzione e che ne garantisce la continuità, (vedi la men che esigua durata media dei dicasteri) ma è la burocrazia ministeriale. Per alcuni aspetti “per fortuna!!!” visto il mutar dei volti della politica.
Finanche Giovanni Gentile che ha lasciato un “marchio indelebile” nella scuola italiana rimase in carica solo tre anni.
Ma per altri aspetti…. Lo stesso filosofo, in alcune sue lettere, lamenta più che vivacemente il fatto che il suo avere posto lo “studio della filosofia” come architrave degli studi superiori del sistema di istruzione, nelle mani della burocrazia ministeriale e della stesura dei “programmi”, sia diventato/normalizzato, attraverso l’azione amministrativa, lo “studio di storia della filosofia” (che, tuona il filosofo, è cosa ben diversa…).

L’idea iniziale della autonomia scolastica (e l’entusiasmo che la accompagnò in quegli anni) era proprio quella di “smontare” quella piramide di controllo e comando presidiata dal paradigma culturale “amministrativo” e di liberare la cultura “di prodotto” (didattica, pedagogia, ricerca educativa)  e l’affermarsi dei suoi criteri operativi (dalla autonomia organizzativa a quella fondamentale di ricerca e sviluppo, alla sperimentazione curricolare).
Si vada al Regolamento e se ne rintraccerà l’impostazione da Legge 59/97: il Ministero definisce con precisione materie e attributi che ad esso spettano esclusivamente. Il resto all’autonomia  (e conseguente responsabilità). Alle scuole autonome si schiude un potenziale di esercizio amplissimo (ben più ampio di quanto sappiano fare: ma si doveva innescare una intera fase storica di “apprendimento istituzionale”).
Certo tale “apprendimento istituzionale” avrebbe dovuto coinvolgere non solo le scuole e il loro popolo, ma la stessa amministrazione, in particolare sulle capacità/possibilità/condizioni per costruire effettiva “padronanza” degli strumenti operativi dell’autonomia: dalle risorse economiche (non tanto la quantità, ma la padronanza d’uso), alla disponibilità del personale, alla combinazione di tali fattori (risorse e lavoro) che determina la effettiva strutturazione organizzativa.
Come sia andata in questi quindici anni, dopo i primi di entusiasmo e di impegno, sappiamo… Proprio la definizione e sperimentazione di strumenti di effettiva padronanza dei fattori di realizzazione dell’autonomia (risorse, personale, sviluppo organizzativo), sono state il terreno del “recupero” dell’amministrazione, mai fatto da dichiarazioni esplicite contro l’autonomia (anzi!!!) ma di progressivi ostacoli e complicazioni realizzative, del tradizionale impianto burocratico, della sua cultura giuridico amministrativa, del riproporsi,  anche sotto diverse cosmesi, delle catene di comando tradizionali. Potremmo usare la ricostruzione delle vicende delle strutture amministrative periferiche, in primis i tradizionali Provveditorati agli Studi, come emblema di una transizione incompiuta ed anzi soffocata (ricordate la “resistenza” anche esplicita dei Provveditori ai  primi “stati generali” della scuola?).
Né, ovviamente, le responsabilità sono tutte da una parte (gestire i “passaggi” è una delle sapienze della politica, di non grande diffusione…); né in questo passaggio le posizioni si sono delineate come univoche: quante “improprie alleanze” tra la burocrazia ministeriale e alcune rappresentanze politiche “corporative”…; quante coincidenze tra interessi immediati di segmenti di lavoro dipendente e riproduzione di obsoleti modelli amministrativi (si pensi alla “classificazione” formale del lavoro docente, alle modalità di determinazione degli organici). Quali confusioni di semantica  tra proclamata difesa del carattere pubblico dell’istruzione e la “targhetta di garanzia” costituita dal solo passaggio attraverso i tortuosi sentieri del diritto amministrativo presieduto dal ceto amministrativo…

Ma, e qui è il problema, proprio per queste ragioni una Ministra che rinnova l’impegno verso l’Autonomia, sfida la mia pazienza di ascolto. Se appena comprende le ragioni del processo di mortificazione dell’autonomia sedimentato in questi quindici anni, sa che non vi è bisogno di dichiarazioni di intenzioni politiche: ciascuna di esse sarà sempre un “già detto”.
Come da Costituzione, il Ministro è, congiuntamente, espressione di un programma politico (il Governo) e “responsabile dell’amministrazione” ad esso affidata. Si concentri su quest’ultimo aspetto, se anche solamente una parte delle argomentazioni ricordate relative ai fallimenti di questi quindici anni sono sensate. Il suo Governo sembra riproporre la lotta contro la burocrazia e la riforma della Pubblica Amministrazione come orizzonti di cambiamento. Ciascun Ministro, per il suo ruolo (costituzionale) ha un diretto campo di esercizio di tale impegno, e, per tutti noi, un diretto campo di verifica e controllo delle politiche pubbliche. Cominci dai suoi direttori generali e dalle sue “strutture” periferiche.. e “lasci respirare” le scuole.

Un’altra parola chiave ha animato le dichiarazioni della nuova Ministra: sussidiarietà. Riproposta come valore fondamentale anche se declinata in particolare (ed è particolare “sospetto”) come punto di ricongiunzione tra pubblico e privato.
Devo alla mia formazione paterna l’idea fondamentale (parziale..) che la cittadinanza sia il compimento del percorso che porta l’individuo allo Stato e che dunque quest’ultimo sia il “valore fondante” di riconoscimento. Son passato attraverso stagioni politiche (ricordate “lo Stato si abbatte e non si cambia”?) ed impegni nella “sinistra” in cui, in proposito si confrontavano (almeno) due ispirazioni di fondo: la programmazione pubblica e l’intervento dello Stato come garanzia del bene pubblico, e l’ispirazione “consiliare” della “democrazia di massa”. (Due polarità del pensiero della sinistra).
Potrei dire, oggi, che considero lo Stato come l’intelaiatura, la cornice che ospita la dinamica reale della storia e della società (la cosiddetta società civile) del confronto di interessi, speranze, impegni, individuali e collettivi. Una “cornice” che non si limita a “regolare” tale dinamica reale in modo che non travalichi i diritti, ma che, come fanno appunto le cornici dei quadri, favorisca e valorizzi  una comune semantica interpretativa dello stesso “movimento reale”; sottolinei i significati comuni che la dinamica reale, storica, economica, culturale, rielabora e falsifica.
E, se di cornice si tratta, nulla di eterno ma “perimetro” permanentemente sfidato dalla stessa dinamica reale della storia e della società. Non una “etichetta” che incollata a qualunque “prodotto” ne garantisce il carattere “pubblico”; non un principio “ontologico” ma un quadro “operativo” entro il quale si confrontano significati, criteri, scelte, alternative, convenienze.
Certo è assai più semplice e meno impegnativo politicamente, o comunque richiede input inferiori di pensiero critico utilizzare due semplici categorie contrapposte come “pubblico” e “privato”. E il rilievo circa la rudimentalità del pensiero vale sia su un versante (l’ontologia del pubblico) sia sull’altro (la convenienza del privato).

Ovviamente la questione del rapporto tra Stato e Società civile è in sé assai più complessa e ha, nel caso del nostro Paese, specificità da cui non è possibile prescindere. A scanso di semplificazioni e pur non potendo esplorare tale complessità, ricordo che agli effetti pratico-storici, le stesse categorizzazioni di “statalismo” e “societarismo” non sono esaurienti a descrivere la realtà. Occorre invece rideclinarle almeno versus una seconda coppia di descrittori  che classifica i caratteri della “pedagogia pubblica” che si invera entro entrambi i poli della prima coppia. Insomma ci si provi a riempire una matrice che porta su un asse la coppia “statalismo” e “societarismo” e sull’altro asse la coppia “pedagogia emancipatrice” e “pedagogia stabilizzatrice”.  Le “celle” della matrice ci potrebbero restituire esempi storici concreti e strumenti analitici per esplorarli. Per esempio, nella sua tradizione, lo “statalismo” francese è segnato da una missione emancipatrice; lo statalismo bismarkiano da una missione stabilizzatrice. Guai se leggessimo le due esperienze storiche con il medesimo metro…
Così: il societarismo “americano”  ha carattere emancipatorio nel suo radicarsi sulla cultura delle libertà individuali; il societarismo britannico e più ancora quello nordico hanno spesso carattere  e motivazioni stabilizzatori.
Lascio ai lettori l’esercizio di qualificare e specificare lo “statalismo” italiano” entro tale matrice…Voglio solo richiamare il fatto che nella nostra tradizione la stessa autonoma capacità di auto organizzazione della società civile (il “societarismo” italiano) è segnata storicamente dalla sua affinità e contiguità con la politica. Il “volontariato” delle organizzazioni cooperative, mutualistiche nella nostra storia e sempre veicolo dello schieramento politico. Sia che si tratti delle cooperative rosse sia che si tratti di quelle bianche, o che si tratti dell’associazionismo e delle “opere di bene” della Chiesa, il legame con la dimensione politica fu storicamente consolidato, e forse solo oggi è in via di disarticolazione.
Certo, le prime trovarono proprio nel nesso politico e nella mediazione con la “Sinistra” sia le condizioni per divenire “sistema”(si pensi alle “regioni rosse” del centro Italia) e trovare inserimento nella “cornice” (vedi sopra), superando il carattere di “antistato” originale. Più difficile il cammino delle seconde: il legame con la struttura sotterranea del potere politico  (il “sistema” democristiano) e non con la “cornice” dello Stato, ne lasciò irrisolta la originale vocazione “antistato” (radicata fin dagli esiti del nostro Risorgimento). E la destrutturazione di quel sistema di potere legato al mondo politico  cattolico ha lasciato “l’antistato” senza rappresentanza e mediazione politica (si veda per es. la distribuzione geografica e sociale della Lega Nord).

Ma oggi siamo di fronte a grandi processi di cambiamento anche nei caratteri della auto organizzazione della società civile; e l’uso di categorie semplificate come “pubblico” e “privato” rischia di non farcene cogliere le potenzialità innovative. (Ribadisco nuovamente: il rischio di rudimentalità nell’analisi è ripartito sia sul primo che sul secondo fronte, sia sulla opacità potenziale dell’uso di classificazioni come quella, per altro inevitabile, di “terzo settore”)
Tutto ciò sembra potersi riassumere e condensare nella parola “sussidiarietà” di cui si fa grande uso (vedi le dichiarazioni della Ministra).
Sono legato ad una definizione di sussidiarietà, nel rapporto tra Stato e società civile, che ne dava Delors; diceva, in buona sostanza, che la sussidiarietà consiste nel fatto che lo Sato (o un Ente superiore) si astiene nell’intervenire su una comunità locale (o un organismo “decentrato”) quando questi siano in grado di risolvere da sé i loro problemi; ma consiste anche nel fatto che lo Stato si impegni a fare in modo che essi diventino capaci di risolverli.
Il valore della sussidiarietà ha dunque, in tale definizione, un fondamentale riflesso “operativo”. Si misura cioè con il carattere dei problemi che una comunità sa “risolvere da sé”. Si misura dunque sia con la “dimensione” di tali problemi, con il loro perimetro, sia con la loro “composizione tecnica”. Potremmo fare centinaia di esempi: un Comune di 10 mila abitanti può ragionevolmente affrontare e risolvere il problema di costituire un presidio sanitario locale per pronto intervento o per prevenzione; non può, pena il fallimento e costi esorbitanti, affrontare da sé il problema di laboratori diagnostici di grande levatura tecnica o la cura di patologie gravi. Economie di scala e economie di composizione tecnica contano nel dare sostanza al valore della “sussidiarietà”.

Rimarchevole scarto concettuale identificare la sussidiarietà con il problema del riconoscimento dei diritti di impresa, del sistema di garanzie pubbliche alle quali devono comunque rispondere anche le iniziative private nel campo dei servizi pubblici.
Non è problema di ideologie. Come la si pensi sulla libertà di impresa, è comunque assolutamente improprio in proposito richiamare il principio di sussidiarietà.
Nella scuola e nell’istruzione esempi evidenti: la realtà è come sempre buona fonte di falsificazioni. Come spiegare per esempio il fatto che la presenza di istruzione non statale decada proprio nei settori dove più consistente è la composizione tecnica necessaria ad erogare il servizio di istruzione? (vedi l’esiguità di scuole private nell’istruzione tecnica, l’assenza di università private nelle facoltà scientifiche o in quelle di ingegneria ecc..) In questi settori la capacità di risolvere “da sé”, localmente, su base di iniziativa autonoma i problemi relativi si stempera proprio nei caratteri dimensionali e di intensità di capitale richiesti.

La legge sulla parità è una legge equilibrata,  rigorosa. Contrassegna le condizioni per le quali una iniziativa in campo di istruzione abbia il riconoscimento di “carattere pubblico”.
Di nuovo il vero problema è la sua applicazione attraverso la mediazione amministrativa. Esperienza diretta sul campo di chi (quorum ego) ha fatto l’ispettore e si è trovato di fronte al compito “pratico” di rinnovare la parità a tante scuole.
Potrei raggruppare la casistica concreta in quattro esempi. Il primo sono le scuole per l’infanzia in certi comuni dell’appennino marchigiano dove il Sindaco “comunista”  perorava la permanenza della piccola scuola paritaria gestita dalle monache: unica condizione “politica, pratica, amministrativa, economica” per garantire il servizio alla piccola cittadinanza. Il secondo è il rettore del Collegio dei Salesiani (Salesiani e Gesuiti hanno insegnato ad insegnare a tanti..) che ospita un liceo in una antica e prestigiosa sede (costi di impianti fissi abbondantemente ammortati) e mi mostra un CD di un corso di formazione per i loro dirigenti, con un applauditissimo intervento di Fausto Bertinotti. Il terzo è un Istituto paritario che lavora con “gli scarti” del sistema statale: i ragazzi che la scuola “pubblica”  seleziona, abbandona, non è capace di “recuperare” non ostante le dichiarazioni e gli impegni: certo vi è molto da discutere nel rinnovare quel riconoscimento di parità; ma certo se la scuola di stato mantenesse davvero i suoi impegni, quella scuola paritaria semplicemente non avrebbe “clienti”. Il quarto è lo scandalo dei diplomifici, del salto di anni, delle idoneità fasulle… Affari fatti attraverso tutte le maglie di una normativa, ma soprattutto attraverso le “interpretazioni mirate” della norma in chiave di regole applicative. Quante relazioni ispettive alla fine degli Esami di maturità, a mettere in luce gli aspetti deteriori di queste “interpretazioni”… Alla fine alcune cosa sono effettivamente cambiate, ma la fenomenologia relativa è tutt’altro che scomparsa.
Quattro tipologie: il giudizio critico è il medesimo? E riassumibile nelle dichiarazioni di principio “binarie” tra pubblico e privato (su qualunque polo ci si schieri..)? Questa è la realtà, complessa come sempre, che l’impegno politico serve a modificare. Se tale impegno è invece dedicato a dimostrare “chi ha ragione” attraverso colpi di referendum, il prodotto finale è solo una “ringhiosa frustrazione” (mi esimo da esempi fin troppo numerosi e disponibili).

Nel mio lavoro sul campo (da ispettore/controllore della applicazione dei principi della “parità”) due sono stati gli elementi di “paziente realismo”. Il primo è la considerazione  che in un paese imprigionato nel Diritto Amministrativo, il problema della parità sta nelle procedure di concessione… Toglierla, per effetto di una visita ispettiva, una volta concessa è impresa di scalata di un Everest sulla cui cima “siede” un TAR. Il secondo è la considerazione che, come in tutte le spy stories che si rispettano, bisogna tenere conto che “la spia, il traditore” dove mai si trova, se non nel “quartier generale”?
E qui torniamo alle parole della Ministra.  A parte il sommesso suggerimento di più pertinente rigore nell’uso di alcune categorie di pensiero (vedi sussidiarietà), mi permetto due inviti: il primo è di dare una occhiata da vicino agli esiti delle rilevazioni INVALSI, prima di declarare la bontà dei risultati delle iniziative di istruzione paritaria, per discriminare almeno con analiticità comparabile a quella che applichiamo sulla scuola di Stato. Altrimenti, sui grandi numeri e sugli aggregati, i dati INVALSI testimoniano esattamente il contrario.
Il secondo: se, spunti polemici a parte, quanto sopra ha almeno un tratto di verità, soprattutto per quanto attiene alla esperienza sul campo, prima di parlare assennatamente di parità occorre francamente fare pulizia nelle modalità applicative della legge di parità, soprattutto nella “concessione” prima ancora che nel “controllo” successivo.  Torniamo alla “provocazione” precedente sulla “spia nel quartier generale”: i direttori generali, i dirigenti amministrativi che in questi anni si sono succeduti nelle responsabilità di gestione della parità hanno nomi e cognomi e sedi di servizio… Fanno parte della amministrazione di cui è ultima responsabile la Ministra.
Buon lavoro.

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