Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica del dopo-Moratti


01.08.2007

Dalla democrazia parlamentare lombarda
all'autoritarismo del Governo nazionale
di Domenico Sugamiele


Alcuni articoli apparsi su ScuolaOggi, in particolare quelli di Osvaldo Roman sul «Titolo V della Costituzione» e di Maurizio Tiriticco sulla «scelta precoce a 13 anni» della riforma Moratti, mi avevano, in un primo momento, indotto a scrivere.
Voglia che è passata subito, un po’ perché lo ritengo un dibattito tra sordi, quindi inutile, e un po’, forse, per seguire il consiglio di Tiriticco, formulato nella risposta all’amica, on.le Aprea: prima di rispondere, tenere il testo nel cassetto per mesi.

Alla fine mi ha coinvolto l’articolo di Sara Valmaggi e Carlo Spreafico, sempre su ScuolaOggi, sulla proposta di legge regionale sulla scuola della Lombardia.

Perché mi ha “intrigato”? Perché descrivono un fatto nuovo nel panorama politico italiano. Gli autori, infatti, rappresentano con gioia e passione (come non possiamo essere d’accordo con loro!) un iter di sviluppo della legislazione che nel nostro Paese abbiamo dimenticato o, meglio, non esiste più: l’iter di un processo di democrazia parlamentare.

Sì! In Lombardia, la regione del male oscuro, la regione della destra eversiva, quella della privatizzazione selvaggia, quella della sopraffazione sociale vige il principio della democrazia parlamentare: la Giunta (il Governo regionale) presenta una proposta di legge (proposta si badi bene!), i gruppi di opposizione presentano le loro proposte di legge più o meno alternative, le strutture di rappresentanza democratica, Commissione e Consiglio regionale, le discutono e alla fine uscirà una legge espressione del Consiglio regionale, cioè del complesso della rappresentanza della società lombarda.

Capisco la sorpresa degli autori che affermano come la proposta originaria in Commissione «ha subito modifiche in ben 14 articoli su 19 ed ha visto l’aggiunta di 10 nuovi articoli. Diverse modifiche e quasi tutti gli articoli nuovi attingono in modo significativo (in qualche caso in modo integrale) all’articolato del PdL dell’Ulivo come quella dell’autonomia: il testo dell’art. 3 sull’autonomia scolastica è preso integralmente dall’art. 31 del PdL dell’Ulivo».

E capisco la loro euforia nello sperare che il Consiglio possa ancora modificare il testo. Ci mancherebbe! È il principio della democrazia parlamentare.

Quella che dovrebbe essere una prassi normale è una cosa sconosciuta a livello nazionale dove è in carica un Governo che procede con soperchierie nei confronti anche di sue componenti (Diliberto al Corriere della sera di Sabato 29 luglio). Insomma, un Governo, quello nazionale, autoritario. Un Governo che gestisce il potere come una oligarchia spalleggiata da una sorta di burocrazia pubblica sindacale e il Parlamento che funziona come una pseudo camera delle corporazioni. Sulle pensioni un segretario sindacale ha chiesto al Governo di mettere la fiducia sull’accordo sottoscritto tra Governo e sindacati.

A cosa serve, in queste condizioni, il Parlamento? Perché dobbiamo mantenere le spese di due Camere (e servizi) e una pletora di parlamentari? Sciogliamolo! Votiamo, solo per salvare le apparenze della democrazia e non farci cacciare dall’Europa, direttamente un esecutivo (oligarchia) espressione di una maggioranza che concertando con le corporazioni di turno, sindacati, confindustria e conf varie, associazione magistrati, tassisti, avvovati, etc.. produce decreti che i sudditi siamo obbligati ad attuare.

La scorsa Legislatura si è caratterizzata per un continuo e duro conflitto tra lo Stato e le Regioni. Conflitto che in questo anno di Governo della sinistra è stato sterilizzato.

Sulla scuola, con il Centrosinistra al Governo, non c’è stato un solo provvedimento che ha visto la partecipazione del Parlamento e della Conferenza Stato - Regioni.

Nella scorsa Legislatura, con molta difficoltà, caro Tiriticco, la Conferenza ha svolto un ruolo fondamentale perché, su sollecitazione del Governo, si è pronunciata, negativamente, contro, ha negato pareri ma ha alimentato un dibattito duro e vero. Un dibattito che guardandolo con le decisioni di questa maggioranza appare essere stato il frutto del gioco delle parti, con le Regioni di sinistra che hanno usato le istituzioni per scopi non istituzionali. Come si spiega, altrimenti, la posizione del Vice ministro Bastico che sostiene, oggi, l’esatto contrario di quanto richiedeva, da assessore che ha vinto un  ricorso alla Corte costituzionale e niente ha fatto per attuarlo, fino al febbraio del 2006? Parrebbe che la democrazia sia strumentale. E che ci sia qualcuno più uguale di altri che la può utilizzare secondo le convenienze del momento.

Tornando alla legge lombarda. Non conosco il testo uscito dalla Commissione ma ciò non è importante e non ho motivo di dubitare delle affermazioni degli autori dell’articolo. Qui mi interessa soprattutto la questione di metodo che è l’anima della democrazia.

Credo che l’Ulivo voterà la proposta definitiva. Non può essere altrimenti. Come potrebbe votare contro o astenersi su un provvedimento che rispecchia quasi integralmente la sua proposta di legge? Sarebbe semplicemente spregiativo delle normali regole di democrazia. Darebbe ragione a quanti credono nello spirito autoritario e razzista (nel senso del razzismo etico che evoca l’amica on.le Aprea nella risposta, sempre su ScuolaOggi, a Tiriticco) della sinistra. Una sinistra che crede soltanto nella sua verità. Verità che impone quando è maggioranza e che rivendica di imporre anche quando è minoranza (cioè quando i cittadini non la votano). Un atteggiamento tipico dell’attuale Governo nazionale e della sua maggioranza e che affiora anche negli interventi di Tiriticco e Roman.

Ma siamo sicuri che ciò non avverrà: la Lombardia è una regione governata da un sistema democratico dove esiste il primato della democrazia parlamentare che si realizza nel Parlamento regionale, espressione dei partiti democratici e dei cittadini lombardi. Ciò basta ed avanza per dare risposte ai tanti, affetti da razzismo etico, che hanno descritto la Regione Lombardia come il luogo del male. Persone che collaborano con un Governo che nega la possibilità di emendare i provvedimenti che prepara anche a partiti della sua maggioranza. Un Governo che va avanti non con proposte di legge ma con decreti legge e decreti  ministeriali. Un Governo che tramite “lenzuolate” di finte liberalizzazioni interviene in modo autoritario su una molteplicità di materie fra loro estranee. È di questi giorni la dura presa di posizione di quattro ministri e dei rispettivi partiti di riferimento che lamentano proprio «l’assenza di democrazia parlamentare» (sic!).

Abbiamo un Ministro dell’Istruzione che agisce per decreti e direttive e che pare abbia già “accumulato un mare di debiti”, perché è facile promettere e molto più difficile realizzare secondo le normali regole dell’economia. Regole dell’economia che chiedono di rispettare la “clausola di salvaguardia” prevista dalla legge finanziaria (1.400 milioni di risparmi o tagli in tre anni). Una clausola che rischia di azzerare il bilancio del Ministero per le voci diverse dalle spese di personale. Insomma, dopo la coppia Fioroni - Bastico al palazzo della Minerva servirà un “curatore fallimentare”.

Rispetto al testo di Valmaggi e Spreafico mi permetto di fare solo alcune precisazioni che hanno il senso del dubbio: esiste ancora la formazione professionale finalizzata al conseguimento di qualifiche e titoli di studio? Può darsi che mi sbaglio ma la Costituzione del 2001 non ne parla più e introduce l’endiadi istruzione e formazione professionale. Condivido, solo su questo, le argomentazioni di Tiriticco.

È improprio, quindi, parlare di formazione professionale iniziale. La formazione professionale è richiamata nella Costituzione solo come formazione dei lavoratori: la formazione continua. La conclusione è che quando ci riferiamo a percorsi che portano a titoli di studio di qualsiasi tipologia non si possa più prescindere dall’istruzione. Si tratta della consapevolezza che i costituzionalisti hanno avanzato nel ritenere che la formazione professionale non è più addestrativa e neanche complementare, come sostiene il ministro Fioroni, all’istruzione. Una scelta che permea tutta la legge 53, nonostante le affermazioni poco informate di tanti commentatori.

I costituzionalisti dicono che la formazione professionale fa parte della macromateria dell’istruzione. E si tratta dell’interpretazione universalmente condivisa dell’articolo 117 della Costituzione modificato nel 2001. (Invito a leggere non quello che ho scritto io e altri modesti “apprendisti stregoni” ma il sito di Astrid-online e federalismi.it.).

 Un’attenta lettura farebbe bene anche a Roman e a Tiriticco che parla di “banalità” sul capitolo dei Lep del D. L.vo 226/05 e non si accorge delle sciocchezze che dice lui. Come nel calcio: siamo tutti allenatori.

Sui possibili esiti della sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 2004 si sentono e leggono affermazioni che, se le cose di cui discutiamo non fossero serie, ci sarebbe da ridere. In merito, consiglio agli autonomisti e ai novelli riformatori di sinistra la lettura del commento alla citata sentenza della Corte di Alessandro Pajno - sottosegretario al Ministero degli Interni e persona di grande livello e spessore scientifico e culturale che ha contribuito sia alla stesura dei testi delle leggi Bassanini sull’autonomia scolastica che alla riforma costituzionale - sul Giornale di diritto amministrativo, n. 5, 2004. Riprendo solo un passaggio che dovrebbe farci riflettere sugli effetti che la riforma costituzionale del 2001, se verrà attuata, comporterà. Egli afferma che «la sentenza della Corte rompe la linea di continuità fra appartenenza ai ruoli statali del personale e gestione del medesimo» e che «in prospettiva, vi è comunque, la regionalizzazione del personale della scuola, e cioè il passaggio di tale personale ai ruoli regionali, unitamente alle risorse finanziarie allocate sul bilancio dello Stato, che lo riguardano, .. purché venga garantita la possibilità a tutti gli insegnanti di svolgere la propria attività di insegnamento su tutto il territorio nazionale»[1] (sottolineato mio).

Altro che destra e Regione Lombardia aziendaliste e mercatiste!

Quindi, la gestione di tutti gli istituti, cosa diversa dai percorsi di studio, dovrà passare nella sfera di competenza esclusiva delle regioni.

Nella legislazione di questo Governo si sovrappone, sbagliando, la normativa sugli istituti, che è competenza delle Regioni e delle stesse scuole autonome, con i percorsi di studio rispetto ai quali si differenziano le competenze istituzionali tra Stato e Regioni. Infatti, sia la Finanziaria che il decreto Bersani parlano solo di “istituti” e mai di percorsi (i giovani interessano poco). Si sovrappone, cioè, il potere organizzatorio, che è competenza delle Regioni, delle Autonomie locali e delle stesse scuole autonome, con la legislazione sugli ordinamenti. Confusione che permea tutto l’intervento di Osvaldo Roman.

Le competenze ripartite o esclusive si giocano sugli ordinamenti. Sull’organizzazione è ormai assodato (sentenza Corte costituzionale e D. L.vo 112/98) che le competenze regolamentari e amministrative sono state devolute alle Regioni e alle Autonomie locali, Comuni in primo luogo.

Dalla lettura della Costituzione, ripeto, che fanno costituzionalisti di diversa tendenza politica, cadono le riserve sul rapporto tra istruzione e formazione come entità separate. Molto banalmente l’istruzione forma e la formazione istruisce in un processo di circolarità e di identità dei singoli percorsi. L’idea dei percorsi integrati è alquanto bizzarra e priva, a mio modestissimo avviso, di qualsiasi fondamento didattico e pedagogico. Essa appare il frutto della trasposizione dei modelli della formazione continua all’interno dei percorsi di istruzione e formazione iniziale. Mi riferisco, in particolare, allo sviluppo mutuato dal modello delle Unità formative capitalizzabili (Ufc).

Lo sviluppo di un percorso che porta a titoli di studio deve essere connaturato, invece, come un processo continuo e non discreto come è, appunto, quello delle Ufc. I risultati fortemente negativi dei percorsi integrati dovrebbero, inoltre, farci riflettere.

Un avviso ai naviganti: studiare i rapporti di monitoraggio della Regione Emilia – Romagna sui percorsi integrati.

Credo che il problema del nostro Paese sia quello di sviluppare, come auspicano Valmaggi e Spreafico, una forte interazione istituzionale (processi di Governance territoriali) che sviluppino, però, integrazione delle politiche (dell’istruzione, della formazione, del lavoro, dei servizi sociali) e non integrazione dei percorsi. Questa, semmai, è competenza delle scuole autonome che, proprio in forza della loro autonomia, potranno organizzarsi in strutture a rete territoriale.

In merito alla sperimentazione dei percorsi triennali sono troppo di parte nel sostenerli e, quindi, mi affido ad un comunicato stampa dell’assessore del Lazio, Silvia Costa, del 9 luglio scorso (il sottolineato è mio):

«“L’esperienza dei percorsi triennali, rivolti ai ragazzi tra i 14 e i 18 anni, si è rivelata estremamente positiva – ha detto l’Assessore Silvia Costa – Ad oggi sono stati coinvolti oltre 7.600 ragazzi, 2.800 dei quali hanno ottenuto una qualifica professionale e quasi la metà è rientrata nel percorso scolastico superiore. La domanda di accesso è in forte espansione, a dimostrazione del notevole interesse verso questi percorsi formativi, che “accompagnano” i giovani verso una professione o li aiutano a rientrare nella scuola e a proseguire gli studi.”

“Come è noto – ha proseguito l’Assessore – i ragazzi che frequentano i corsi triennali sperimentali secondo il protocollo d’intesa tra Regioni e Ministero dell’Istruzione del luglio 2003, alla fine del triennio ottengono una qualifica riconosciuta a livello nazionale.
Nel Lazio, che presenta indici di dispersione scolastica del 15% circa (dato in costante diminuzione), stimiamo che l’attivazione dei percorsi triennali abbia prodotto una diminuzione dell’abbandono e della dispersione intorno al 2,1%.”

 “I fondi assegnati, statali e regionali, andranno prioritariamente ai percorsi triennali, anche alla luce del fatto che dal prossimo anno scolastico entra in vigore l’obbligo di istruzione a 16 anni e che questi percorsi garantiscono l’adempimento di tale obbligo

 Se ho capito bene: la Regione Lazio, grazie ai percorsi triennali, entro il 2010 rientrerà abbondantemente nei parametri di Lisbona per il contenimento al di sotto del 10% degli early schools levers. Il fatto più sorprendente (non per chi scrive) è che la metà prosegue nei percorsi di istruzione tecnica e professionale. Fenomeno che si manifesta anche in Veneto, in Lombardia, in Piemonte e in Liguria. Dal Veneto arriva la notizia che il passaggio tra le diverse tipologie di percorsi è pressoché identico (la pari dignità vera e non quella delle retoriche!) e che i ragazzi provenienti dai percorsi triennali “rendono”, in quarta degli istituti professionali, mediamente meglio della media di coloro che provengono “dall’interno” degli istituti. Ogni ulteriore commento è superfluo. Tuttavia, varrebbe la pena, piuttosto che azzuffarci sulle (reciproche) posizioni preconcette, realizzare azioni di monitoraggio e valutazione seria: verificare le soluzioni messe in campo e ricercare quelle più efficienti per sostenere processi di inclusione.

Alla Regione Emilia – Romagna va riconosciuto il merito di effettuare un monitoraggio serio sia quantitativo che in parte qualitativo. Prendere ad esempio ed “esportare”!

Gli interventi di Osvaldo Roman e Maurizio Tiriticco mi hanno fatto un po’ sorridere. Cosa vuoi rispondere alle vacuità? L’onorevole Aprea ha scomodato Goebbels ma credo si tratti semplicemente di “ignoranza”, nel senso popperiano del termine. Popper nel saggio Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza si sofferma «sulla teoria dell’ignoranza come cospirazione, che interpreta l’ignoranza, non come una semplice mancanza di conoscenza, ma come l’opera di qualche potenza malvagia, fonte di influenze negative ed impure, che perverte e avvelena le nostre menti e ci instilla l’abitudine a resistere alla conoscenza». Per Popper tutti siamo fallibili e soggetti all’errore e la «nobiltà della conoscenza» si fonda, in primo luogo, «criticando le proprie teorie e congetture» oltre che quelle fatte da altri.

La sinistra, invece, pare solo piena di certezze e di infallibilità. Quindi si bolla chi non la pensa nello stesso modo come reazionario e antidemocratico in contrapposizione ai progressisti e democratici. Le parole, per dirla con Panebianco, sono semplicemente mantra ripetuti ossessivamente per creare l’illusione che dietro a quelle parole ci sia un pensiero, un argomento. Invece c’è il vuoto.

L’idea ossessiva dell’obbligo “scolastico” come essenza coercitiva dello Stato e in contrapposizione al diritto – dovere è emblematica. Mi sono sempre chiesto del perché di questa ossessione della sinistra. È possibile, mi sono chiesto, che la sinistra italiana sia così restia a comprendere che la società è cambiata? Ho l’impressione che la sinistra sia passata dall’individuazione dei bisogni alla declinazione dei desideri. Per cui può promettere tutto e il suo esatto contrario. Crea aspettative che il confronto, duro e severo, con la realtà le dimostrerà che sono irrealizzabili.  Una sinistra che, secondo Antonio Polito, ha abbandonato anche l’idea di sviluppo che ha permeato e caratterizzato le socialdemocrazie europee.

La nostra Costituzione, contrariamente a quanto potrebbe apparire, è abbastanza flessibile per consentire interpretazioni che accompagnino, governando i processi, l’evoluzione della società. L’obbligo è nato in un sistema di analfabetismo e la sua estensione è avvenuta con il passaggio dalla società agricola a quella industriale. È rimasto tutto immutato? Assolutamente no! Nel 1999, un anno prima dell’innalzamento dell’obbligo scolastico al 15° anno, il 94% circa dei licenziati della scuola media si iscriveva ai percorsi secondari. La società si era “evoluta” prima della legislazione. La quasi totalità delle famiglie sceglievano per i propri figli il proseguimento degli studi. È evidente che è cambiato qualcosa e non siamo, come sostiene Roman, nelle stesse condizioni del dopoguerra. Suvvia!

Mi sono chiesto se questa sinistra e i suoi consiglieri abbiano letto le tesi, 66 e 67, dell’Ulivo del 1996 dove si parla proprio di diritto-dovere alla formazione. Principio che le corporazioni e una cultura di resistenza passiva al cambiamento ha fatto tramutare in obbligo formativo. Ma che senso ha l’obbligo formativo? Il punto era (nel 1999) e resta (oggi) la capacità del sistema educativo di mantenere i giovani nel sistema. Non serve obbligarli. Si sono obbligati da soli. Certo, sono d’accordo che bisogna trovare gli strumenti per portare dentro anche quel 6% del ’99, ridotto in modo drastico con il diritto – dovere e i percorsi triennali. Ma bisogna ricercare soluzioni pedagogiche, didattiche, organizzative che aiutino nei processi di inclusione. Non ripresentare, come fossimo ancora fermi alla fine degli anni ’70, come se la società fosse “stanziale” e immutabile, soluzioni che allontanano i giovani dalla scuola. E non credo che siano le soluzioni legislative e di ingegneria ordinamentale quelle più utili ed efficaci a risolvere questi problemi. Il biennio unico, per esempio, non è la soluzione ma il problema.

Apprendiamo però dall’intervento di Tiriticco che il biennio unico/unitario è tramontato e che l’obbligo ha perso la sua “carica mitologica”. Infatti, il nostro parla di bienni, al plurale. E allora, mi chiedo, come fa a sostenere che rispetto alla scelta precoce morattiana sia cambiato qualche cosa? Dobbiamo pensare che i bienni di Fioroni siano più unici/unitari di quelli della Moratti? Ma non scherziamo! Il D. L.vo 226 e, soprattutto, le Indicazioni (programmi camuffati da Osa, sia quelli della Moratti che quelli in circolazione in queste settimane) presentavano un quadro per cui i bienni erano tali che con il 20% di flessibilità oraria e le opzioni obbligatorie una scuola poteva passare da un liceo all’altro: un grande liceone!

I bienni di cui si occupa Tiriticco hanno la stessa struttura? Sarà diversa? Se sì, in che cosa? Concretamente, però, e non con fumisterie psicosociopedagogiche: quadri orari, opzioni disciplinari, flessibilità organizzativa, etc.. Come si fa a dire oggi che saranno migliori. È una presunzione grave. E ciò anche in considerazione che non mi ricordo di aver letto osservazioni di merito alternative. Per esempio non ho mai visto un esempio di Osa e di livelli essenziali di prestazione alternativi a quelli delineati nel D. L.vo 226, eccetto la paccoltiglia del primo ciclo appena sfornata.

Mi ricordo che, in cinque anni, soltanto l’ADI ha fatto osservazioni serie e di merito e, per onestà, il CIDI, sul primo ciclo. Gli altri solo chiacchiere e retoriche.

In effetti, a leggere i provvedimenti di questo Governo sulla scuola e gli interventi dei suoi sostenitori sembra di essere su “scherzi a parte”. I percorsi triennali non ci sono ma si finanzieranno e servono per l’obbligo, il biennio unico/unitario si è trasformato in tanti bienni unitari, il Vice Ministro che afferma: «quando avremo ben definito cos’è la scuola tecnica, cos’è la scuola professionale per rendere ciò più appetibile» potremo chiamarli tutti licei (sic!).

Tiriticco afferma che «I nostri bienni secondari dovranno faticare non poco per vincere la sfida!». Quale sfida? Tuttavia, posso fare una domanda alla quale, mi permetto di dare una risposta, contento di essere smentito? Tiriticco, perché il centrosinistra fa scegliere a 13 anni l’indirizzo di scuola secondaria superiore? E sì! È proprio così! I bienni, tralasciando i percorsi triennali o integrati, saranno almeno tre: quello dei licei, quello dell’istruzione tecnica e quello dell’istruzione professionale.

I ragazzi che frequenteranno l’ultimo anno del primo ciclo dovranno, nel mese di gennaio, a 13 anni e ½ (come è adesso e come prospettava la riforma Moratti) scegliere uno di questi percorsi che hanno finalità diverse. Perché, diciamola tutta: nel seminario sull’istruzione tecnica- professionale è stato detto chiaramente dal Ministro, dal Vice Ministro, dagli studiosi, da Confindustria - ispiratrice del modello tanto che il Vice presiedente Rocca ha rivendicato pubblicamente, senza essere smentito, di avere preparato il “pacchetto” assieme ad un gruppo di dirigenti di istituti tecnici fidati (a Confindustria s’intende) - che una cosa è il liceo che prepara all’università, altra cosa è l’istruzione tecnica (definita l’aristocrazia dell’istruzione tecnica-professionale) che prepara alla ricerca applicata (controllo e gestione dei processi e progettazione), altra cosa ancora è l’istruzione professionale che rilascia diplomi di tipo operativo. Tutti saranno quinquennali tanto che gli istituti professionali non potranno più rilasciare le qualifiche triennali.

Il Presidente del Consiglio ha anche detto che l’istruzione professionale deve servire per l’integrazione degli immigrati. In primis mi sono quasi arrabbiato ma poi mi sono detto: ha ragione! Quale migliore modello di integrazione se non quello dell’istruzione che forma e che ha contatti con il mondo del lavoro. E per questo, per esempio, non riesco a capire come può la sinistra avere un atteggiamento che a volte sembra di disprezzo per l’apprendistato e per il lavoro. Pensate cosa potrebbe significare lo sviluppo di uno strumento come quello dell’apprendistato che, come avviene in tutta Europa, conduce a diplomi identici a quelli conseguiti con l’istruzione a tempo pieno. In Francia l’apprendistato inizia a 15 anni e a tredici anni, nel Collège, si avviano progetti di alternanza scuola-lavoro. Ma la sinistra pare abbia perso anche la concezione del valore formativo e sociale del lavoro e ritiene che solo la scuola di Stato possa formare l’uomo, meglio se nuovo.

Tiriticco, infine, mi mette in seria difficoltà quando, sostenendo il suo lavoro di consulenza ministeriale, descrive con enfasi retorica  «…che i nostri ragazzi escano dai bienni avendo raggiunto solide conoscenze e competenze di base, orientati a spenderle secondo le potenzialità che hanno scoperte e – qui mi sono perso del tutto – le capacità che hanno acquisito». Confesso la mia ignoranza, non capisco se si tratta di capacità in senso fisico, come “riempimento” di un contenitore, giacché il nostro parla di pluridisciplinarismo e mai di interdisciplina, o di capacità come attitudini. Le attitudini si acquisiscono? Resto nella mia ignoranza e, in entrambi i casi, nutro molte perplessità.

In riferimento ai Livelli essenziali di prestazione del D. L.vo 226/05, ritengo che si tratti di quanto di meglio si è potuto scrivere in un clima di concertazione istituzionale viziata da pregiudizi.

Al dottor Roman sarà sicuramente sfuggito che gli articoli 27 e 28 del decreto sono il frutto di un intenso processo di concertazione istituzionale Stato - Regioni. Qualche maligno (bene informato) sostiene che siano stati scritti “sotto dettatura” degli assessori regionali (attuale Vice Ministro Bastico in testa).

In Conferenza Unificata, il  Ministro Moratti aveva proposto la votazione separata dei due articoli, proprio per accogliere le proposte delle Regioni. Richiesta che, con una buona dose di arroganza istituzionale, le Regioni di sinistra hanno rifiutato.

Così come le sarà sfuggito che il coordinamento degli assessori regionali (maggioranza di sinistra), il 9 febbraio 2005, in un documento ufficiale, chiedeva la modifica dei licei tecnologici in istituti tecnici e rivendicava la responsabilità esclusiva di tutti i percorsi professionalizzanti, tecnici e professionali: l’esatto contrario di quanto fatto dal ministro Fioroni. Ed è bene ricordare, in proposito, che l’attuale Vice Ministro Mariangela Bastico era fra gli assessori più attivi nella richiesta.

Il dottor Roman sottolinea, inoltre, come il D. L.vo 226/05 avrebbe collocato gli istituti professionali «in una grande discarica». Sicuramente avrà letto molto, in questi mesi, della monnezza della regione Campania e avrà confuso le Regioni con le discariche. Perché le Regioni sono soggetti costituenti la Repubblica e paritetici allo Stato assieme alle Province e ai Comuni (art. 114 della Costituzione). Potrà dire che non è d’accordo ma allora ricerchi nelle sue vicinanze politiche il male oscuro.

Il problema del trasferimento delle competenze dell’istruzione professionale alle Regioni è un problema tutto interno alla sinistra. Esso si era posto, infatti, già con il D. L.vo 112/98. E anche allora si è sviluppata una resistenza corporativa, all’interno dell’allora maggioranza, che ha portato alla mediazione finale per cui alle Regioni sono stati trasferiti solo gli indirizzi dell’arte bianca: cinque/sette istituti in tutta Italia.

Oppure faccia come il Ministro di cui è consigliere che, nel citato seminario sull’istruzione tecnica - professionale, quasi a giustificare che riportava nelle competenze statali i diplomi professionalizzanti, ha affermato di aver votato, a suo tempo, contro la modifica del Titolo V della Costituzione. Il Parlamento che aveva varato il provvedimento, anche se a maggioranza risicata e senza il concorso dell’opposizione di allora, e soprattutto i cittadini che  abbiamo votato il referendum confermativo non contiamo niente. Egli è contrario, ha votato contro e, quindi, essendo ministro (di se stesso presumo) può non applicarlo.

Ecco perché bisogna brindare alla democrazia parlamentare della Lombardia dove ci sarà una legge condivisa e votata da forze politiche di diverso schieramento che hanno trovato un punto di convergenza che fa ben sperare.

In conclusione, vorrei esprimere una domanda che è anche un desiderio: si può esportare la democrazia lombarda a livello nazionale? In questa Legislatura, però, e non solo nella prossima.


[1] A. Pajno, Costruzione del sistema di istruzione e “primato” delle funzioni amministrative, commento alla Sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 2004 sulla pronuncia di incostituzionalità dell’art. 22, comma 3 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge Finanziaria 2002), in Giornale di diritto amministrativo, n. 5, 2004.  

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