Direzione didattica di Pavone Canavese

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06.10.98

PERCHE' IL "FONDAMENTALISMO" ISLAMICO?
Una indagine sull'origine e l'evoluzione dei movimenti islamici del Maghreb.
LE TESI DELLO STUDIOSO FRANCESE FRANCOIS BURGAT

di Aluisi Tosolini

"Perché dobbiamo essere i soli a non gustare i benefici della modernità se non per tramite obbligato di Descartes o di Marx? Per accedere alla modernità non vi sono in effetti altre strade reali che la nostra, quella che hanno tracciato per noi la nostra religione, la nostra storia e la nostra civiltà" (Rashid Ghannushi).

sommario

1. LA DIFFICOLTA' DI DAR NOME ALLE COSE
2. L'OCCIDENTE E L'INCUBO DEL SUO DOPPIO
2a. islamismo, terzo stadio del missile chiamato decolonizzazione?
3. VIVA NOI: PARLA RASHID GHANNUSHI
4. DALLA CULTURA ALLA POLITICA
5. I LUOGHI: MOSCHEE, UNIVERSITA', URNE
5a. Il ruolo delle donne
6. E LA VIOLENZA?
7. QUALE FUTURO?
8. ASPETTANDO L' IJTIHAD: COME DIRE DEMOCRAZIA IN ARABO?
:
9. NON CAPIRCI NIENTE E FARLO FINO ALLA FINE...

 

1. LA DIFFICOLTA' DI DAR NOME ALLE COSE

"Fondamentalismo islamico": in queste due parole stanno molte delle paure e degli incubi dell'occidente, non solo di quella porzione di esso che si specchia sul Mediterraneo ma dell'identità stessa di quel "quid" astratto ma dotato di una enorme forza collante che si definisce, appunto, occidente. (1)

La letteratura scientifica sul fondamentalismo islamico (2) è abbastanza scarsa in Italia mentre risulta fiorente in altre realtà, Francia in primis.

Tra i diversi studi risulta molto interessante un volume del politologo francese Francois Burgat pubblicato dalla SEI (F. Burgat, Il fondamentalismo islamico. Algeria, Tunisia, Marocco, Libia, Torino, SEI, pp 366, 1995).

Interessante perché

  1. si impegna ad "ascoltare il militante islamico senza mediazione" (p. 6)
  2. propone un originale modello interpretativo che va a verificare nel concreto della storia recente di quattro paesi del nord Africa (Libia, Marocco, Algeria e Tunisia).

In primo luogo, comunque, Burgat cerca di "dare il nome alle cose" e nel corso del primo capitolo sostiene la necessità (sulla scorta anche degli studi di Bruno Etienne e Muhammad Tozy) di definire "islamico" ciò che comunemente viene invece chiamato fondamentalismo o integralismo. "Islamici" si definiscono del resto gli stessi fautori del movimento distinguendo tra Islam e movimento islamico. Scrive Rashid Ghannushi (leader e teorico della principale corrente tunisisna): "L'Islam - in Tunisia - è antico, ma il movimento islamico è recente" (p. 11) (3).

Islamismo viene così definito da Burgat: "il ricorso al vocabolario dell'Islam (inizialmente ma non esclusivamente ad opera degli strati sociali non colpiti dagli effetti integratori della modernizzazione) per esprimere - a partire dallo Stato o, più spesso, contro di esso - un progetto politico alternativo che utilizzi l'eredità occidentale come respingente ma, nel farlo, autorizzi la riappropriazione dei suoi principali referenti" (p. 46).

2. L'OCCIDENTE E L'INCUBO DEL SUO DOPPIO

"L'integralista è una categoria indispensabile all'immaginario occidentale" (p. 7). L'occidente fatica a comprendere il fenomeno e troppo spesso - dimenticando la storia - fa di tutte le erbe un fascio e si chiude a riccio nella difesa dei propri (universali?) valori (con annessi privilegi).

"Nel paesaggio politico occidentale - scrive Burgat - la ricezione del discorso islamico ha provocato lo stesso pericoloso unanimismo prodotto in altri tempi dal discorso nazionalista. Rispetto all'Islam, al Terzo Mondo e agli Arabi la destra ha trovato nello spauracchio islamico la riprova di qualche certezza ben radicata. Presumibilmente più disponibile ad accettare la nascita di un Altro, la sinistra, trincerata nella roccaforte del suo attaccamento puntiglioso (integralista?) ai simboli laici, appare oggi, da parte sua, prigioniera della propria difficoltà ad ammettere che l'universalismo del pensiero repubblicano possa essere rimesso in causa e che, da qualche parte, qualcuno osi un giorno tentar di scrivere un pezzo di storia in vocabolario diverso da quello che essa ha forgiato. Ora, è proprio della rottura lessicale e sintattica con la terminologia politica occidentale che si nutre la ricetta islamica" (pp. 8-9).

2a. islamismo, terzo stadio del missile chiamato decolonizzazione?

Secondo Burgat il movimento islamico costituisce una "rimonta del fondo arabo-musulmano a discapito degli apporti occidentali più recenti" (p. 49). Pertanto "è proprio nella cornice dialettica della colonizzazione/decolonizzazione e non soltanto in quella delle contraddizioni legate allo sviluppo socio-economico o in quella altrettanto ristretta di un ipotetico ritorno (universale) del religioso che bisogna cercare l'origine del fenomeno islamico" (p. 49).

La colonizzazione francese ha infatti avuto come corollario una radicale destrutturazione sociale e simbolica. L'ordine simbolico ereditato (figlio dell'humus arabo-islamico) è, come scrive Kepel, brutalmente indietreggiato di fronte "all'ordine tradotto, all'ordine straniero" (4).
Si sono così venuti a creare, in tutti i settori della vita dei paesi del Maghreb, due mondi: il mondo della modernizzazione ed il mondo della arcaicità. Ma questi due mondi, questi due universi tra loro dissimili, erano nello stesso tempo intimamente legati da un principio unificatore evidentissimo: "la totale subordinazione dell'elemento locale all'elemento francese" (p. 51).

L'età della indipendenza politica (nazionalismo) non portò inversioni di tendenza, anzi. Spesso le elites indipendentiste riprenderanno per conto loro, in mancanza di alternativa, molti degli obiettivi e dei metodi che avevano combattuto con determinazione quando ad attuarli era il colonizzatore. Non vi fu rottura simbolica: "L'élite bilingue era presentata, ed essa stessa si presentava, come un innesto riuscito, una sintesi armonica di opposti fattori di civiltà: in realtà, era nell'intimo spiritualmente asservita ai valori occidentali: interiorizzava la propria inferiorità e la superiorità dell'altro" (p. 53). Si è così avuta una destrutturazione senza costruzione, uno stupro ideologico, un furto culturale. Inoltre la modernizzazione "assunta" progrediva molto più velocemente di quella che l'antico padrone coloniale aveva tentato di imporre: "forti della loro legittimità di liberatori nazionalisti, molti regimi adottano all'indomani delle indipendenze legislazioni le quali si inimicano le istituzioni (giudiziarie o universitarie in particolare) che nemmeno il colonizzatore aveva osato toccare" (p. 54). E' il caso, ad esempio, della chiusura ad opera di Burghiba, in Tunisia, della prestigiosa Zaytuna, ben più che una università una complessa organizzazione socio-economica.

 

2b. una illusione chiamata occidente

Ma ben presto le disillusioni faranno la loro apparizione sulla scena dei moderni stati maghrebini: la ricette occidentali non funzionano, le promesse della modernità sono rappresentate più che da bilanci trionfalistici da curve esitanti, da cifre di ristagno, da sommosse per il pane.

Dal 1968 in avanti l'occidente impaurito non riesce più a produrre certezze ideologiche (siano esse liberali o marxiste) ed è in questo contesto, secondo Burgat, che "il Sud comincia a sentire il bisogno di parlare con un'altra voce" (p. 55), la propria.

L'islamismo nasce dunque come linguaggio della reazione politica alla dominazione culturale (oltre che economica) occidentale.

3. VIVA NOI: PARLA RASHID GHANNUSHI

In un'intervista a Jeune Afrique (1990) Rashid Ghannushi riassume con chiarezza i termini della questione: "Il nostro problema è che abbiamo dovuto trattare con l'Occidente a partire da posizioni di debolezza, nello stesso tempo materiale e psicologica. Ammirandolo in modo eccessivo, paralizzati dal nostro complesso di inferiorità, abbiamo cercato di scimmiottarlo in tutto piuttosto di raccogliere i suoi contributi in questo o quel campo. O meglio, abbiamo preso ciò che non ci interessava e abbiamo tralasciato ciò di cui avevamo bisogno. Ebbene, io affermo che tale relazione impari e perversa con l'occidente non ha niente di fatale. Il Giappone conserva pienamente le sue tradizioni, la sua cultura ed è tuttavia partecipe dello sviluppo universale della modernità. Israele ha fatto resuscitare una lingua morta, si è dato una storia che risale alla notte dei tempi e impone il suo posto nel mondo. Una volta l'Europa non aveva bisogno di rinunciare ai suoi valori per attingere a piene mani all'oriente musulmano. Perché dobbiamo essere i soli a non gustare i benefici della modernità se non per tramite obbligato di Descartes o di Marx? Per accedere alla modernità non vi sono in effetti altre strade reali che la nostra, quella che hanno tracciato per noi la nostra religione, la nostra storia e la nostra civiltà".

Una dichiarazione che non necessita di commenti.

Dopo l'indipendenza politica, dopo (l'illusoria) autonomia economica, il riequilibrio consecutivo alla decolonizzazione investe ora il campo ideologico e simbolico. Nasce così un nuovo vocabolario. L'islamismo diventa terapia sociale e nel contempo individuale: restaura le immagini di sé maltrattate dalle crisi di identità, fornisce sicurezza a chi ha dovuto introiettare per decenni solo inferiorità nei confronti dell'occidente.

Ma - sottolinea Burgat - "non si tratta tanto di rinnegare l'occidente quanto di differenziarsene: non tanto di rompere con esso quanto di distanziarlo, di fargli concorrenza, di restituirgli, allontanandolo, tutti gli attributi di alterità. Ciò per essere liberi in seguito - agendo questa volta sul registro della riappropriazione - di avviare il processo del suo riconoscimento" (p. 73).

E non si tratta nemmeno, sempre secondo Burgat, di un ritorno in sé e per sé al sacro, come alcuni osservatori sostengono. Il ritorno al religioso è infatti per Burgat riabilitazione di referenti, soprattutto politici, della cultura locale, sollecitati a ritrovare, oltre la parentesi coloniale, la loro perduta ambizione all'universalità.

Così se al sud del mondo il ritorno del sacro rappresenta un processo di riconquista di identità che attenua l'insicurezza, l'equivalente ritorno del sacro percepibile anche al nord del mondo implica un ripiegamento di identità, una difesa.

4. DALLA CULTURA ALLA POLITICA

Le funzioni del discorso islamico non si fermano tuttavia alla logica della rifondazione culturale: esso è anche linguaggio di contestazione, riappropriazione politica che, sempre secondo Burgat, "varcherà anche la soglia del pluralismo democratico che di fatto è invece oggi rifiutato in nome delle circostanze storiche della sua comparsa, molto più che per il suo contenuto intrinseco" (p.84). In questa chiave va letta la progressiva islamizzazione delle opposizioni legali e l'interesse dei movimenti islamici per il filone della giustizia sociale sino ad allora appannaggio delle formazioni politiche di sinistra.

La grande mobilitazione islamica coincide con l'inizio degli anni '80 e con la crisi dell'"arabismo". Simbolicamente essa coincide con la morte del XIV secolo dell'Egira e con la nascita di quel XV secolo di cui Ghannushi ha scritto che "sarà musulmano o non sarà" (p. 96).

5. I LUOGHI: MOSCHEE, UNIVERSITA', URNE

Il passaggio da movimento religioso /culturale fondato sulla predicazione a movimento politico che si presenta alle elezioni viene giocato in luoghi specifici tra i quali la moschea assume rilevanza centrale. Secondo Abbasi Madani, leader del FIS algerino, non si può negare la funzione politica della moschea: "se le moschee non servono a questo allora a cosa servono? La funzione della moschea non è la stessa della chiesa. Essa è sede di tutte le attività positive e vi si trattano tutti gli affari della umma" (p. 99). Ed è sulle moschee - sul loro controllo e sul controllo del personale che le gestisce - che in tutti i paesi del Maghreb si è giocata per anni una durissima competizione tra potere politico e movimenti islamici.

Secondo luogo cruciale le università. Contrariamente a quanto si pensa sono state le università frequentate da francofoni quelle che hanno dato l'avvio al movimento islamico. Una grossa spinta è stata poi data dall'arrivo all'università dei figli della popolazione rurale. I figli dei contadini hanno conquistato, arrivando all'università, la libertà di esprimere con parole la loro cultura vissuta. La gestazione ideologica dei quadri studenteschi ha talvolta preso in prestito il percorso del marxismo e del naserismo nel quale la quasi totalità degli intellettuali arabi si sono un tempo riconosciuti.

Dalle università al centro sociale e poi all'intenso dibattito culturale portato avanti dalle riviste il passo è stato breve ed ha coinvolto, al contrario di quanto comunemente si pensa, prima gli intellettuali ed il ceto medio che i diseredati o gli strati arcaici esclusi dalla dinamica della modernizzazione.

5a. Il ruolo delle donne

Un ruolo specifico hanno poi avuto le donne. E qui il discorso si complica. I movimenti islamici sono infatti accusati di considerare le donne ed il mondo femminile quali "esseri inferiori". Senza entrare nel merito della disputa interpretativa è tuttavia significativo notare come la partecipazione delle donne ai movimenti islamici sia massiccia e significativa. Scrive Burgat: "tra le principali motivazioni femminili all'entrata nell'islamismo vi sono le stesse motivazioni riscontrate per gli uomini. La maggior parte delle donne sembra proprio aderire al sistema di rappresentazione islamica per ragioni banalmente identiche a quelle dei loro fratelli e mariti". E neppure, sempre secondo l'autore, pare corretto il giudizio, tipicamente occidentale, che ritiene tutte queste donne come sostanzialmente "non libere". Ancora Burgat: "il paradosso della visione dell'occidente femminista permane nel fatto che omette troppo spesso di accordare, a colei che vuole proteggere dagli abusi della dominazione maschile, il diritto di autodeterminarsi come individuo pensante" (p. 111).

6. E LA VIOLENZA?

Violenza o controviolenza? Burgat sembra risolvere (un po' sbrigativamente a mio parere) il problema della violenza dei movimenti islamici iniettando i germi del dubbio tre le pieghe delle incrollabili certezze dell'osservatore occidentale. Lo studio delle specifiche realtà socio-politiche dei quattro paesi messi sotto analisi (Libia, Marocco, Tunisia ed Algeria) permette per lo meno di accogliere (come ipotesi da verificare) l'ipotesi che la violenza islamica sia in realtà controviolenza, risposta alle durissime politiche repressive con cui i poteri centrali dei vari paesi hanno ritenuto di poter arginare il diffondersi dell'islamismo. In particolare l'analisi delle vicende algerine, dove l'esercito ha chiuso violentemente una stagione elettorale particolarmente favorevole al FIS, sembra rendere perlomeno plausibile l'ipotesi, che necessita però di ulteriori verifiche concrete. Secondo Burgat esistono in Algeria "due terrorismi" (p. 291) ma quello islamico è un terrorismo di risposta, di reazione al primigenio terrorismo di stato. "Il terrorismo islamico è il prodotto - scrive Burgat - della deriva radicale della resistenza di un potente movimento politico uscito, in due riprese, vincitore alle urne e da allora sottoposto ad una formidabile campagna di repressione... I due terrorismi algerini non sono gemelli: di fatto uno dei due ha generato l'altro" (p. 291) (5).

Sul rapporto "violenza-movimento islamico-governo algerino" insinua un "giustificato" dubbio un altro grande conoscitore della situazione politica del Maghreb, Bruno Etiénne. Secondo Etiénne l'attentato parigino del 17 agosto '95 all' Arc de Triomphe, addebitato a "terroristi islamici", potrebbe benissimo essere stato messo in atto dai servizi segreti algerini per spingere il potere politico francese a cambiare politica nei confronti dell'Algeria ritornando a sostenere il governo militare di Algeri (6).

Va inoltre aggiunto, per coerenza, che non è corretto parlare di islamismo al singolare. Esistono infatti diversi movimenti islamici e forte è la dialettica sia a livello di paese che all'interno degli stessi movimenti: forse è solo la nostra ignoranza (o pigrizia) a spingerci a semplificare ciò che è complesso.

7. QUALE FUTURO?

Secondo la tesi di Burgat, dunque, i movimenti islamici sono l'espressione del processo di ricongiunzione con l'universo simbolico della cultura pre-coloniale percepita come endogena. "Questa mobilitazione si attua di fronte alle istituzioni della società tradizionale in una relazione semi-conflittuale di tensione riformatrice e non manifesta la resistenza della società alla modernizzazione, bensì un vettore essenziale di tale modernizzazione" (p. 287). Burgat vede così in azione due processi non contraddittori: la reintroduzione nel linguaggio politico delle categorie e della terminologia della cultura intuitiva (reislamizzazione) e il lento emergere di modalità pluraliste, rispettose dei diritti degli individui e delle minoranze (democratizzazione).

Una posizione ottimistica, perlomeno rispetto ad alcune realtà islamiche (vedi Sudan, ad esempio).

8. ASPETTANDO L' IJTIHAD: COME DIRE DEMOCRAZIA IN ARABO?:

Cosa porterà i movimenti islamici a "dire democrazia" secondo la propria cultura? Secondo Burgat la mobilitazione islamica genera un ventaglio di atteggiamenti politici particolarmente aperto. "In gran parte, la differenziazione si esprime nel grado di storicizzazione che i produttori di ideologia accettano di introdurre nella loro lettura del dogma. In altri termini, la maggiore o minore accettazione dell'idea di un possibile adattamento alle esigenze attuali (per mezzo dell'esegesi - ijtihad -) dell'espressione normativa del nucleo invariante della dottrina, o al contrario il grado di letteralismo o di integralismo nella lettura di quest'ultima". E Burgat ipotizza che il progressivo allontanamento dalla visione letteralista dipenda, almeno in parte, "dal back-ground socio-educativo dei protagonisti, dal percorso e dal grado del loro inserimento nella società moderna ma anche dal tipo di reazione corrispondente del contesto nazionale e internazionale" (p. 289). Nello specifico Burgat pare sostenere, ad esempio, che Madani (leader del FIS e plurilaureato in Francia ed in Inghilterra) o Ghannushi avranno più possibilità di coniugare, mediante l'esegesi, Islam e modernità di quante ne abbiano personalità di spicco dei movimenti islamici mai uscite dalla cultura e dalla geografia maghrebina.

Siamo, insomma, nelle mani dell'esegesi...

9. NON CAPIRCI NIENTE E FARLO FINO ALLA FINE...

Troppo spesso noi ascoltiamo solo quanto vogliamo sentirci dire. E ci convinciamo che la realtà si esaurisce lì. Il volume di Burgat è particolarmente stimolante, al di là delle tesi sostenute, proprio perché ci fa sbattere contro il muro della nostra ignoranza e ci invita a far parlare (e ad ascoltare) quanto l'altro ha da dire.

Cosa che spesso non accade, secondo Burgat, nel caso algerino: come in altri tempi, media e classe politica accordano un quasi monopolio di rappresentazione "degli algerini" e della crisi che li lacera al piccolissimo numero di quanti dicono quello che gli occidentali - e in particolare i francesi - sperano di sentire. E non importa se gli stessi sono militari golpisti che si rappresentano come "salvatori della democrazia".

E per finire una stoccata acida, che è rivolta alla Francia ma forse vale anche per noi: "rispetto all'Algeria, la classe politica e dei media francese sembra di fatto avere attualmente ripreso la fiaccola di una pericolosa tradizione, quella di non capirci niente, e preferibilmente fino alla fine. Gli intellettuali non si sbracciano per contestarla. Algeri non è Sarajevo. I "diritti del barbuto" non fanno testo. L'incontro di Roma [si riferisce all’incontro oraùganizzato dalla comunità di S. Egidio] ha certo ricevuto un prudente sostegno politico. Ma nulla nei discorsi ufficiali o in quelli dei grandi media è venuto a ristabilire un po' di realismo necessario alla percezione costruttiva dell'avvenire condiviso

delle due rive del Mediterraneo" (p. 294). Un invito a studiare, a capire, ad analizzare con mente aperta e con capacità di dialogo reale prima che sia troppo tardi.

 

Note

1. Per una indagine sull' Occidente si veda il volume di S. Latouche, L'occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, 1992.

2.Tra gli altri testi in lingua italiana sul "fondamentalismo" si veda: Y.M. Choveiri, Il fondamentalismo islamico, Bologna, Il Mulino, 1993; S. Eisenstadt, Fondamentalismo e modernità, Bari, Laterza, 1994; B. Etienne, L'islamismo radicale, Milano, Rizzoli, 1988; R. Giammarco (a cura di), Ai quattro angoli del fondamentalismo, Firenze, La Nuova Italia, 1993. Per una mappa dell'Islam in Italia: S. Allievi - F. Dassetto, Il ritorno dell'Islam. I musulmani in Italia, Roma, Ed. Lavoro, 1993.

3. se è così risulta tuttavia poco aderente al testo la scelta della casa editrice italiana di titolare il volume seguendo la dizione semplicistica e giornalistica di "Il fondamentalismo islamico" quando l'originale francese titola "L'islamisme au Maghreb".

4. G. Kepel, Le profhète et Pharaon, Paris, 1984.

5. al proposito è di grande rilievo quanto 'Alì Benhaj, uno dei dirigenti più radicali del FIS, scrive in una lettera del 20 gennaio 1995 ripudiando esplicitamente il principio di una possibile "legittimità del diritto divino" dei dirigenti come estraneo "al sistema politico dell'Islam", così come "la forza militare o la filiazione tribale" (Burgat p. 328, nota 4). Nello stesso periodo si sono tenuti, grazie alla comunità S. Egidio, i colloqui di Roma dove le molte opposizioni al governo golpista algerino avevano firmato una precisa piattaforma comune che tentava di mettere le basi per una soluzione negoziata (15 febbraio 1995).

6. Si veda l'intervista rilasciata a "La Repubblica" 19.08.95 in cui Etiénne, avanzando seri dubbi sulla matrice islamica degli attentati a Parigi (25 luglio e 17 agosto 1995) dice: "è indubbio che ci sono delle posizioni convergenti sulla crisi algerina e che sia gli integralisti che i militari possono fomentare attacchi contro obiettivi francesi, ma certo il potere militare algerino non può subire passivamente il cambio di passo della politica estera francese sull'Algeria (n.b.: dopo l'elezione di Chirac il premier Juppé aveva iniziato una lenta conversione al dialogo con il FIS abbandonando il sostegno totale ai generali di Algeri che aveva caratterizzato la posizione del governo Balladur, ndr). Non posso escludere che gruppi del GIA che agiscono in Europa possano essere stati infiltrati da agenti dei servizi di sicurezza algerini e da questi pilotati. Credo che i generali di Algeri siano pronti a fare carte false per portare Parigi su posizioni diverse da quelle attuali".

Aluisi Tosolini