Direzione didattica di Pavone Canavese

Educazione interculturale: interventi, documenti e materiali

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(12.02.2004) 

Sulla legge che in Francia
vieta il chador in classe

E’ legge, in Francia, il divieto di esibire a scuola vistosi simboli religiosi.

Si tratta dell’epilogo, momentaneo, della cosiddetta guerra del velo, se così vogliamo chiamarla, che è cominciata nell’ormai lontano 1989 quando un paio di ragazze entrarono in classe, in un liceo di Creteil, con la testa coperta dal foulard, affermando ed ostentando la loro appartenenza all´Islam.

All’articolo 1 la legge così recita: "Nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici, i segni e gli abiti che manifestino ostensibilmente l´appartenenza religiosa degli alunni, sono vietati". La legge non riguarda dunque solo il velo ma anche le croci di una certa dimensione, la kippah, il turbante dei sikh e, secondo il ministro della pubblica istruzione, persino "una certa pelosità", vale a dire la barba lasciata crescere secondo alcune prescrizioni del diritto musulmano.

Già una volta ci siamo occupati in questa rubrica della problematica del velo e qui non ci rimane che rinviare a quanto scritto nel 1998.

Ma il Corano che dice?

Rispetto a quanto già detto allora credo sia tuttavia utile aggiungere le riflessioni di Khaled Fouad Allam che, in un recente articolo su Repubblica, ha sostenuto che in realtà il velo non è in alcun modo imposto dal Corano.

La parola hijab, nei secoli tradotta come velo, nasce infatti da un’interpretazione dei giuristi islamici del XIV secolo, come segno di distinzione delle donne musulmane da quelle non musulmane.

Nel versetti del Corano in cui compare, la parola hijab (Q. 7:46, 18:45, 19:17, 33:53, 38:32, 41:5, 42:51) non indica un oggetto quale il velo, ma l’azione di velarsi, di tirare una tenda dietro cui pregare e avere la rivelazione divina. In sostanza, non si trova nel Corano alcuna traccia esplicita del hijab o chador (sinonimo persiano) come indumento con cui le donne debbano coprirsi obbligatoriamente il capo o il volto.

Questa osservanza nasce da un versetto del Corano che dice: "O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di chiudere su di esse i loro indumenti! Questo sarà il mezzo più semplice perché esse siano riconosciute e non siano offese" (Q. 33:59).

Ma in questo testo, come in un altro simile, il Corano sembra riferirsi più in generale al senso del pudore.

Un grande esperto di Islam, Francesco Tannini (Ahmed, il mio vicino di casa, Iscos Marche Onlus, 2002) sostiene che in origine, quando l’islamismo era agli albori, le parole del Profeta provocarono una liberazione della donna dalle regole di schiavitù in uso nelle tribù della penisola arabica. Le prime credenti musulmane e le stesse mogli del Profeta non erano per nulla schive e sfuggenti nei confronti dell’ambiente circostante. Al contrario erano donne attive, combattenti e si prodigavano come infermiere nel corso delle battaglie, impegnandosi nella politica e nella vita della comunità.

Le cose cominciarono a cambiare quando dal periodo di conquista si passò a quello medioevale di grande espansione della religione islamica, nel quale la donna era stata relegata a una vita di clausura: non usciva di casa se non con parenti e per motivi eccezionali, ma soprattutto non aveva confronti con donne non musulmane. Su tutto ciò influiva l’inconscio collettivo musulmano che, associando la femminilità al desiderio, persegue la necessità di salvaguardare la purezza e la sacralità riproduttiva della donna.

Un nuovo mutamento avviene nel Novecento, soprattutto durante la seconda metà, quando i processi di modernizzazione, di emancipazione della donna e ultimamente di emigrazione verso l’Occidente, mettono in crisi le strutture delle società musulmane e fanno sentire a esegeti conservatori e integralisti la necessità di prescrivere alle donne un segno che sia distintivo e che contraddistingua in modo culturalmente e politicamente forte l’appartenenza all’Islam.

La posizione delle comunità islamiche

L’UCOII (Unione comunità e organizzazioni islamiche in Italia), in un recente comunicato, sostiene che siamo di fronte ad una forma di fondamentalismo laicista. E continua:

"Dietro l’affermazione di voler tutelare i valori laici della scuola e delle istituzioni c’è in realtà la volontà di voler imporre a tutti quanti, ed in particolare ai musulmani (le musulmane nella fattispecie), il laicismo di Stato che nulla a che fare con il concetto di laicità.

Nell’accezione contemporanea, quasi unanimemente intesa in Occidente, la laicità è l’imparzialità, l’equidistanza degli Stati da ogni forma religiosa.

Lo Stato laico tutela credenti e non credenti ponendosi come garante della libertà religiosa dei suoi cittadini vigilando al contempo affinché nessuna forma dottrinale prevarichi il diritto comune e la libertà di coscienza.

In tal forma esso si assume la responsabilità e l’onere di gestire lo spazio pubblico, sia esso scolastico, sanitario, giudiziario e ovunque si espleta una funzione istituzionale, in modo tale che l’appartenenza o la non appartenenza ad una comunità religiosa non determini discriminazioni, esclusioni, violenze.

In buona sostanza lo Stato deve garantire la sua laicità ma non può imporre il laicismo ai cittadini"

Con che risultato?

Un possibile risultato ed effetto della legislazione francese è ben identificato da Stefano Allevi, sociologo delle religioni che insegna a Padova e grande esperto di islam europeo. Scrive Allevi:

La facile previsione è di un aumento del lavoro di magistrati e avvocati. Ma il risultato immediato sarà che molte ragazze musulmane si iscriveranno semplicemente a scuole private (cattoliche, spesso, come già accade) che non hanno problemi a consentire l'hijab anche in classe: con il contraddittorio risultato, per la scuola repubblicana, di "perdere" le alunne che, a suo dire, più avrebbero bisogno di integrarsi in essa.

C'è infine un altro aspetto: i simboli sono polisemici, e non sempre significano quello che crediamo. La croce, ad esempio, è diventata di moda tra molti ragazzi semplicemente come ninnolo, dopo che Madonna (la cantante) ed altre popstar ne hanno fatto ostentazione, ma non certo religiosa. Se grossa ma non religiosa, la croce si potrà ostentare anche a scuola? Ciò suggerirebbe, al contrario, una soluzione del problema del velo. Che, da sola, mostrerebbe l'insensatezza burocratica e di principio della decisione. Se un po' di ragazze non musulmane portassero il foulard semplicemente come una nuova moda, non sarebbe più ostentazione di simboli religiosi: lo si potrebbe, allora, punire?

C’è soluzione?

Ci sono altre soluzioni?
Per quanto mi riguarda, sia detto in tutta chiarezza, condivido l’opinione di Stefano Allevi che invita, molto semplicemente, al buon senso.

La soluzione giusta sembra piuttosto sdrammatizzare, con semplice buon senso, anziché una legge che fa di un simbolo religioso una bandiera identitaria buona per le opposte barricate ideologiche, e che favorisce gli opposti estremismi: quello islamista e quello laicista.

 Aluisi Tosolini

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