Direzione didattica di Pavone Canavese

L'educazione interculturale nell'anno del POF.....

[educazione interculturale] [glossario] [home page]

 

(12.02.2003)

Diario di guerra

Mi ero sino ad ora astenuto dall’intervenire con la rubrica educazione Interculturale di Pavonerisorse sulla situazione internazionale e sulla possibile-probabile seconda guerra del Golfo.

Non perché non abbia nulla da dire (in fondo, tantissimi anni fa ormai, mi sono laureato proprio con una tesi sulla nonviolenza) ma perché il dibattito era già presente, e massiccio, su tanti altri siti.

Se oggi lo faccio, quasi un diario, è perché proprio all’interno di quel dibattito, ed in particolare anche tra insegnanti, emergono alcuni elementi che meritano forse maggiore attenzione. E poi per mettere in evidenza un tipico processo di criminalizzazione di chi pensa in modo difforme che funziona come meccanismo di costruzione del nemico sia in ambito multiculturale che nel più generale ambito conflittuale.

Un arcobaleno di colori

In questi giorni in alcune liste e newsgroups di insegnanti (tra queste ad esempio anche la lista intercultura di didaweb.net) si sono accesi dibattiti roventi sulla legittimità o meno di esporre la bandiera della pace sugli edifici scolastici e persino sulla legittimità di parlarne dentro le mailing list.

Il dibattito è interessante per almeno due ordini di fattori.

Il primo: spesso in ambito educativo le tecnologie dell’informazione e della comunicazione vengono sbandierate come ambienti cooperativi e collaborativi. Le parole, a prima vista, sembrerebbero veicolare una dimensione positiva, alta. E invece, leggendo alcuni messaggi di insegnanti che si reputano certamente cooperativi e collaborativi, sorge il sospetto che tale dimensione valga solo in ambito tecnico e non invece anche in quello "culturale-politica". Chi sostiene, ad esempio, l’illegittimità di messaggi che propongono all’interno di una mailing list di docenti l’iniziativa di esporre la bandiera della pace (tesi che viene sostenuta con l’ausilio di una strana concezione di netiquette) è certo cooperativo e collaborativo ma tace il fatto che la cooperazione e la collaborazione assumono significato non a partire da se stesse ma solo in riferimento all’oggetto per cui e su cui cooperano. In fin dei conti si può cooperare e collaborare anche ad una impresa criminale, alla costruzione di una rete mafiosa, ad una guerra.

In secondo luogo la sottolineatura riferita alla violazione della netiquette mi fa venire in mente uno stupendo editoriale di Ernesto Galli Della Loggia che, sul Corriere della Sera, commentava negativamente l’area disciplinare proposta dalla riforma Moratti definita "Educazione alla convivenza civile". Sottolineava infatti Galli Della Loggia che dire convivenza civile ha più a che fare con la buona educazione ed il galateo (la netiquette, appunto) che con l’educazione alla cittadinanza, alla democrazia, al conflitto.

Del resto, come tutti ben sanno, la guerra attuale è e sarà sempre di più una guerra tecnologica dove proprio i computer (collaborativi e cooperativi, ovviamente) svolgono un ruolo fondamentale.

Non per nulla una dei capitoli più importanti del volume "Galassia Internet" di Manuel Castells (uno dei massimi esperti della società informazionale. Il libro è edito da Feltrinelli, 2002) è dedicato proprio alla guerra nel tempo di internet. Interessante, al suo interno, l’analisi di una nuova dottrina chiamata SWARMING.

Il termine (da swarm – sciame) identifica una nuova dottrina strategica degli USA. Si tratta di una dottrina militare che utilizza appieno le tecnologie della comunicazione ed il network internet superando il concetto di grandi concentrazioni di truppe. Lo swarming richiede la formazione di piccole unità autonome, con grande potenza di fuoco, buon addestramento e informazione in tempo reale. Questi gruppetti formano dei "grappoli" (clusters) in grado di concentrarsi su un obiettivo nemico per una piccola frazione di tempo, infliggere gravi danni e poi disperdersi. Si tratta di una guerra non-lineare che elimina la nozione di "prima linea" e rappresenta la versione hight-tech della guerriglia tradizionale. Essa dipende da comunicazioni sicure e connessioni costanti tra tutti gli "sciami" ed il centro di controllo combinando assieme massima autonomia e visione superiore. Per complicare ancora di più le cose si potrebbe ricordare che tale dottrina è frutto di uno studio attento delle tecniche usate dai "terroristi ceceni". Come a dire che tra guerra e terrorismo il confine, nel tempo della globalizzazione, si è fatto labile, molto labile.

Criminalizzare l’altro

Chi non pensa che la guerra sia una soluzione alla crisi irakena (ma si potrà davvero chiamare così?) inizia ad essere "criminalizzato" con le classiche strategie della costruzione del nemico. Si legge infatti sempre più spesso che il movimento per la pace e quanti si dicono contrari alla guerra sono in realtà "amici di Saddam Hussein". Il prossimo passo sarà chiamarli "amici dei terroristi" e infine "traditori della patria". E’ un classico studiato da decine e decine di tomi di sociologia e polemologia (la scienza che studia la guerra, quella polemos che Eraclito ritiene essere "signora e regina di tutte le cose").

Nella situazione italiana il tutto si complica a motivo della presenza del Vaticano. Così, visto che Giovanni Paolo II pare proprio non essersi allineato alla posizione di chi vuole la guerra, alcuni tra quanti ritengono di esserne gli interpreti più profondi hanno dato vita a funamboliche piroette degne dei più astuti sofisti. Ad esempio il ministro Buttiglione ha sostenuto che il papa non è un pacifista (visto che se lo fosse occorrerebbe dire anche di lui che è "amico di Hussein", "filo terrorista" e "traditore della patria") "ma è un uomo di pace". La distinzione è sottile, molto sottile. In sostanza per Buttiglione (disconoscendo una intera tradizione di uomini di pace di matrice nonviolenta) i pacifisti sono degli imbelli che pur di non usare violenza sono disposti ad accettare qualunque sopruso, genocidio, ingiustizia. Mentre gli uomini di pace sono personaggi che sì, cercano la pace ma poi, ad un certo punto, si convincono che anche la guerra è possibile ed in certi casi persino necessaria. Così, con un salto dialettico, il papa rischia di diventare un sostenitore della necessità della guerra all’Irak. Se non è ancora convinto…lo diventerà in seguito…magari andando a lezioni da Buttiglione (…che magari nel frattempo si ripasserà non solo la costituzione italiana ma anche un po’ di filosofia politica oltre che di dottrina sociale della chiesa che vieta sempre e comunque una guerra preventiva che mai e poi mai può essere considerata giusta).

La prima violenza è ridurre la complessità

Un noto studioso di conflitti internazionali (Galtung) sosteneva, durante la prima guerra del Golfo, che la riduzione della complessità è la prima e più terribile forma di violenza. Terribile perché la semplificazione conduce alla logica "o USA o Irak" mentre la realtà è molto più complessa, contiene molti più elementi. Ma se tutti gli elementi di un sistema vengono pian piano eliminati, non resta alcuno spazio per la negoziazione e non rimane altro che la contrapposizione frontale.

E ad aiutare simili riduzione di complessità partecipano spesso anche dei ben intenzionati che, a fin di bene e certo inconsapevoli, favoriscono una simile tendenza. E tra questi ci sta certo anche il settimanale "Famiglia Cristiana" che la settimana scorsa ha lanciato un referendum fra i suoi lettori che faceva leva proprio su tale semplificazione (con il Papa o con Bush?. Per la cronaca …ha vinto il Papa…).

In un suo recente (e stupendo) saggio dedicato al mondo dopo l’11 settembre il filosofo sloveno Slavoj Zizek si chiede: "è mai possibile che la scelta debba essere obbligatoriamente tra democrazia e fondamentalismo?" "Non accade cioè che – entro i termini dell’opzione – è semplicemente impossibile scegliere il fondamentalismo? Quel che risulta problematico, nel modo in cui l’ideologia dominante ci impone questa scelta, non è tanto il fondamentalismo, quanto piuttosto la stessa democrazia, come se l’unica alternativo al fondamentalismo fosse il sistema politica delle democrazia liberali" dove la politica si riduce a semplice tecnica di amministrazione dell’esistente.

Per chi volesse, il testo di Zizek si intitola "Benvenuti nel deserto del reale", Meltemi editore, 2002.

A scuola di pace in tempo di guerra

Sabato pomeriggio ero a Firenze per un dibattito al Centro Missionario Arcidiocesano. La bellissima Firenze a me dà sempre una sensazione di malinconica tristezza. Tristezza che è aumentata terribilmente quando, sul banchetto dei libri a disposizione dei partecipanti, ho visto riapparire un libro che avevo scritto oltre 10 anni fa con alcuni insegnati di Piacenza proprio durante e dopo la guerra del Golfo..

Il titolo dice tutto: A scuola di pace in tempo di guerra.

A volte uno scrive libri nella speranza di non dover scrivere più sullo stesso argomento. Certo, è una illusione, lo so.

Però sono venuto via da Firenze ancora più triste di quando ero arrivato.

Ho sentito addosso il fallimento del mio (del nostro) mestiere. Il fallimento dell’educazione come educazione alla pace nella giustizia.

E mi sono sentito tanto più vecchio.

Mi è risuonata una frase terribile del mio filosofo preferito: "Fratelli, è il tramonto. Scusate, scusate che si sia fatta sera,… presto, troppo presto…"

Aluisi Tosolini

torna indietro