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Democrazia WEB e ragazzi

“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber

(01.02.2014)


La democrazia, l’assemblea, gli oratori e il web
di Franco De Anna

 

Da dove cominciare? L’uomo è “animale politico”.
Aristotele dice ““L’uomo per natura è un animale politico (politikon zôion ….)” (Aristotele, Politica, I, 2). Al solito la traduzione di zôion con il nostro “animale” che contiene la radice di “anima” non rende adeguata semantica.
Esattamente come “animale razionale” (traduzione della Scolastica) non rende semantica al “l’uomo è un animale dotato di parola (zôion logon ekhon)” (Aristotele Metafisica I,1). Provvisoriamente si potrebbe meglio dire “l’uomo è un animale semantico”, capace di “assegnare significati”.
La capacità di assegnare significati è la prima e fondamentale espressione specie-specifica di questa particolare “entità zoologica”. (Si veda analoga argomentazione nel mio contributo “Apollo, Caino, Prometeo e le nuove indicazioni” in questo sito)
La seconda fondamentale caratteristica specie-specifica è la mai raggiunta maturità adulta. L’uomo è caratterizzato da un lunghissimo processo di costruzione adulta che è caratterizzato da “sconnessioni” interne che lo distinguono da tutte la altre specie: la maturità e autonomia individuale che in altre specie coincide con la capacità riproduttiva, nell’uomo è ricomposta in termini contraddittori. La capacità riproduttiva non coincide con l’adultità e i processi di apprendimento sono prolungati per gran parte della vita individuale, sia pure usufruendo di condizioni di plasticità apprenditiva differenziate.
E’ indubbio che questo particolare “animale significante” sia dotato di un livello di plasticità di apprendimento assolutamente unico a confronto con altre specie, combinando, in tale confronto, elementi di “ritardo” e immaturità con elementi di “precocità”. Il percorso verso l’adultità è dunque contemporaneamente “mai compiuto” e “sempre potenziale”. E’ capace di risultati sempre nuovi e progressivi e contemporaneamente segnato da una “mancanza” costitutiva
La terza caratteristica è in qualche modo legata alle prime due: il basso livello di “specializzazione” biologica presentato da Homo Sapiens. I sensi dell’uomo sono assai poco specializzati: la vista è senz’altro meno acuta di quella di tanti volatili, l’odorato e l’udito sono meno sviluppati di quelli del suo cane o comunque di quelli dei mammiferi. Non ha artigli specializzati per afferrare e dilaniare, arti per correre, denti per combattere e lacerare…
Il basso livello di specializzazione di sensi e arti si lega però funzionalmente con la “plasticità” neuronale, la capacità quasi permanente di apprendimento e dunque di adattamento. La “civiltà dell’uomo” è la combinazione “strana” di un arto rudimentale e adattabile (la mano) e di un cervello “ridondante” e mai compiuto. Combinazione ovviamente a sua volta interrelata con le condizioni ambientali.
Tale strana combinazione sortisce una grande “variabilità” di risultati combinatori: nessuno di essi è perfettamente uguale ad un altro. Potremmo dire, con linguaggio di oggi: l’uomo è un animale “costitutivamente” non standard. L’uomo è “io”, contrapposto a un “noi”.

Una lunga premessa ma per quanto attiene la discussione presente serve sottolineare la connessione intima tra logos e polis

La “podestà” di significazione, propria dell’uomo connette intrinsecamente allo “scambio” ed al rapporto con “l’altro”, alla dimensione collettiva, al confronto.
Il logos è immediatamente dia-logo.
La podestà di significazione in quanto tale rielabora doppiezza, “ambiguità” e incertezza; necessita di sforzo di “unificazione”, di “mediazione”, in un processo faticoso, a volte conflittuale, mai “determinato”.

E’ considerazione che affonda le radici nel mito. Si pensi ai tanti passi della Bibbia nei quali il rapporto tra l’uomo ed il suo creatore sono contraddistinti dall’incertezza, dalla sfida, dalla contraddizione. Un passo di un saggio del Talmud recita “Il Signore ha parlato, e io ho sentito due voci..”.
L’intera tragedia greca è segnata proprio dalla contraddizione intima della “significazione”, dal conflitto, dalla incertezza della “ragione” e “delle ragioni” degli umani e del loro rapporto con gli dei.
“L’altro” che dà fondamento al logos è, contemporaneamente, l’origine dell’incertezza, del rischio, della irresolutezza della significazione. “Gli altri sono la peste”.
Questo “altro” non voluto, non chiamato, è dunque l’intruso, ma al tempo stesso è la condizione per il “mio” significato. Tale contraddizione è la tragedia dell’umano, ma è il motore della sua storia e del rapporto “produttivo” tra l’io e il mondo.
Una contraddizione che dunque, volta a volta, cerca e rintraccia la sua ricomposizione dialettica.
Ma per tale ricomposizione occorre un terzo interprete: “io l’altro e la buona istituzione”.
La mediazione sempre faticosa e impegnativa del logos è “la buona istituzione”. Il luogo dove il dia-logo si ricompone e trova sia pure provvisoria riunificazione è la polis.

Dobbiamo ai greci tanto la scoperta (invenzione?) dell’io, della separazione tra il soggetto ed il mondo (e della tragedia), quanto la rielaborazione fondamentale del pensiero della polis
Luogo della ricerca di risposte provvisorie e necessariamente “relativistiche” tra eudemonia e isonomia, tra aspirazione alla felicità e regole e diritti uguali.
Naturalmente ne parlo qui con un approccio che guarda al substrato psico-antropologico e in particolare al riflesso della “formazione” dell’uomo, non con un approccio ai “sistemi politici”. Perciò non parlo di “democrazia”.
Sotto questo profilo mi è sufficiente, per brevità, rubare a un interprete come Luciano Canfora (non certo sospettabile di conservatorismo politico) un richiamo: “la democrazia come storia di una ideologia” è elaborazione diversa da quella proposta in queste righe. Il richiamo vale semplicemente a ricordare che sotto il profilo delle “forme storiche” assunte dalla polis l’argomentazione richiede approcci di “falsificazione” storica (appunto). Di una “critica alla democrazia” vi sarebbe grande bisogno, proprio in un contesto “formativo” che spesso si limita a considerare l’educazione civica come un compendio di “buone intenzioni e comportamenti” (Ne accennavo, di suggita, in altro contributo “..Sentiti gli oratori..” sempre in questo sito).
Il “riduzionismo razionalistico”, a partire dal pensiero (vario) degli illuministi, ha connotato quella ricomposizione instabile, provvisoria, relativistica, tra isonomia e eudemonia (il substrato psico antropologico della polis) in termini di “contratto sociale”.
E da lì parte la storia moderna della democrazia.
Ma per l’approccio che sto seguendo non è inutile ricordare come, lungo tale evoluzione, sia stato più o meno agevole (sempre nel dramma della Storia)  trovare regole della polis ( la “buona istituzione” che media tra io e l’altro) capaci di interpretare (in provvisorie “sistemazioni”) due delle parole chiave della Rivoluzione francese. Libertà ed uguaglianza trovano espressione “contrattuale” nelle regole della polis moderna. La terza, la “fratellanza” è sempre il “luogo specifico” della ambiguità e irresolutezza e di tentativi drammatici di trovare risposta, della mediazione tra l’io e l’altro. E ciò testimonia proprio l’iscrizione della questione non tanto e solo nel “contratto” e nelle regole, quanto nell’assetto profondo dell’uomo.
Per continuare ad utilizzare una metafora precedente: in chiave di “formazione dell’uomo” (che qui ci interessa) la questione è quella del misurarsi con le “regole” che presidiano il luogo nel quale se “dio parla” si odono “due voci”.

Sotto tale profilo risulteranno perciò evidenti due implicazioni, che sottendono a questa lunghissima premessa, quando si voglia affrontare la questione di ciò che cambia e come rispetto alla diffusione, presenza continua nel vivere quotidiano delle tecnologie della comunicazione e nel loro operare attraverso “strumenti” domestici, personali, “facili”, pervasivi.

La prima: il carattere eternamente provvisorio, problematico, mancante, relativistico, della ricomposizione del logos, della “significazione”, dà luogo sempre a tentativi, pluralità di strumenti, azzardi, ipotesi di sviluppo da falsificare… così è stato nella storia dell’uomo e così deve essere. Per ciò che è e per ciò che deve essere. Nessun “contratto” sostituisce la verità.
Se la storia ci offre strumenti nuovi e diversi, non c’è modo di sottrarsi alla loro sfida ed al loro uso, se non scegliendo la cecità, la rinuncia all’esercizio di significazione, al logos.

La seconda: nulla di più estraneo all’esercizio della significazione, alla padronanza del logos, che la riduzione al paradigma del “risultato”. La significazione è processo, incertezza, tentativo… Il “logos” è, per dirla diversamente, il “participio passato” del legein. E’ il consolidarsi, provvisorio, del “processamento”, della enumerazione, della sequenzializzazione.
Dunque: apertura a tutti gli strumenti e “misura” ravvicinata e critica del loro consistere e del loro uso.
Il web, con la sua “potenza”, non fa eccezione. Anzi, per le sue caratteristiche implica maggiore attenzione critica e sforzo falsificativi.
Sotto (almeno) due profili: contiene una modalità specifica di processamento del pensiero; e implementa tale modalità su strumenti accessibili, diffusi, di facile uso, pervasivi; protesi potenti e disponibili al pensiero stesso.
Si pensi alla ambiguità semantica del termine rete e alla sua storia: in un recente passato “rete” era metafora di “cattura”, intralcio, vincolo obbligante e da cui fosse difficile liberarsi…Oppure era metafora di “congiura occulta”. Oggi la semantica è esattamente capovolta: simbolo di liberazione, di moltiplicazione di rapporti e connessioni, di potenzialità espanse.
Anche solamente constatare tale inversione semantica reclama la nostra attenzione critica: come, perché, a carico di chi, si sviluppa tale inversione semantica e cosa implica?

Anche per le notazioni che seguono richiamo il contesto “pedagogico”, o meglio di “formazione dell’uomo” e delle sue problematiche, nelle quali si collocano. Altre notazioni richiamerei se si trattasse di contesti adulti e/o professionali, o tecnici.
Il processamento “naturale” del sapere, l’approccio immediato al mondo da parte dell’uomo è di tipo “analogico”. Un ragazzino che immerge obliquamente un bastone in una pozzanghera lo “vedrà” spezzarsi, esattamente “come” conosce un ramo spezzato tra le dita. Dovrà ricorrere ad altra forma di processamento del pensiero, per “fasificare” quella naturale conoscenza: sia che si tratti di “ripetere” più volte l’esperienza, accorgendosi che il bastone riemerge ogni volta intero dalla pozzanghera, o che gli effetti mutano cambiandone l’inclinazione (ma non è sufficiente per “spiegare”, per assegnare significato); sia, più tardi a scuola, misurandosi con le “leggi” dell’ottica.
Ma, più in generale, la “significazione” è processo di “connessione”, di metaforizzazione dell’esperienza, di costruzione di rapporti tra il noto e il mistero. In questo senso il conoscere umano procede analogicamente, o meglio declinando una dialettica mutevole e a diversa composizione, tra congiunzione analogica e disgiunzione analitica.
La storia delle scoperte scientifiche è densa di esempi in tal senso: dall’atomo di Bohr che “metaforizza” il sistema solare, agli anelli di fuoco sognati da Kekulè, addormentatosi davanti al becco Bunsen che, al risveglio, gli suggerirono l’ipotesi della struttura del benzene. Ma che dire di Mozart che in una lettera scrive, di una sua composizione “l’ho tutta nella testa… devo solamente metter giù le note..”.

Vero è che l’istanza analitica, fin dall’antico (da Democrito a Cartesio, alla quantistica) innesca la procedura alla “scomposizione”, alla suddivisione, sulla duplice esigenza di reperire gli “elementari” costituenti dell’intera realtà, e di definire, sulla base degli elementi semplici, la possibilità di un linguaggio univoco e in equivoco (dalla logica aristotelica al neopositivismo logico), per ricostruire “l’uno”.
Tale è la dinamica sempre irrisolta del logos tra analisi, scomposizione, metafora e ricongiunzione.
In ciascuno di noi, sul proprio sostrato psico-antropologico, le due modalità di approccio al sapere, alla significazione, si combinano in modo specifico, con variabilità sia individuale ( a scuola si dice: diversi stili di apprendimento) sia determinata storicamente dalle diverse “egemonie” culturali e scientifiche che si affermano nelle diverse culture e/o fasi di sviluppo. (Nella nostra tradizione, soprattutto interpretata nei sistemi scolastici, l’approccio sequenziale ed analitico occupa lo scranno dell’autorità).
Da adulti la combinazione specifica di tale dialettica ci farà essere ingegneri o artisti, in relazione al primato dell’una o dell’altra modalità. Da soggetti in formazione sarà necessario cimentarsi con la sfida di rielaborare entrambe.
Sullo sfondo di tale affermazione sta la consapevolezza della incertezza, incompiutezza, irrisolutezza del logos, il suo configurarsi come dia-logo nel rapporto tra gli umani.
La consapevolezza che cercando la parola di dio dobbiamo sempre muovere dal riconoscere di udire “due voci”.

Le tecnologie dell’informazione contengono, rispetto a tutto ciò, una grande sfida: propongono l’egemonia dell’approccio simultaneo e sintetico, un agire “metaforico”, che privilegia per esempio l’approccio visuale, delegando l’analisi all’automatismo dello strumento tecnologico.
La ricombinazione tra digitale e analogico avviene infatti attraverso l’automa.
La microelettronica procede, a monte, con efficacia mai sperimentata prima, attraverso la scomposizione in elementi semplici e privi di significazione (il digitale) e attraverso la loro ricombinazione, sempre più raffinata, a valle, fino a ricostruire la realtà che diviene perciò , a tutti gli effetti, “realtà virtuale”.
E la potenza dell’automa sequestra l’intera procedura di scomposizione e ricomposizione, restituendoci un approccio analogico come prodotto (virtuale) di un processo analitico condotto “altrove” (nella “mente  e nelle memorie” dell’automa).
Nel lavoro, nella vita quotidiana, nella varia “produttività” richiesta a ciascuno, tutto ciò moltiplica la potenza e semplifica le procedure.
Ma nell’apprendimento, nella “formazione”, così come nella vita della polis (intesa come in precedenza nella ricombinazione di isonomia ed eudemonia) possiamo affermare con tranquillit6à altrettanto?
Si è detto che la polis è il luogo della ricombinazione incerta e irrisolta, ridiscutibile, caratterizzata dal relativismo delle soluzioni e delle regole, del dia-logo in logos.
Qui sta il punto problematico che viene prima e sta alla radice della domanda del rapporto tra democrazia e web.
Non abbiamo a che fare semplicemente con strumenti nuovi che richiedono regole nuove. Abbiamo a che fare con processamenti del logos inediti, e dunque con il problema di identificare luoghi diversi di ricombinazione della “mediazione” tra l’io e l’altro cui deve presiedere (per tornare a più sopra) la “buona istituzione”.
L’emergenza è certamente rappresentata dalle logiche “binarie” della rete: dall’”uno conta uno” mediato in realtà dall’automa universale, alla “mediazione” ridotta al “mi piace, non mi piace”, al dia-logo ridotto al “si, no” della digitalizzazione, occultato dalla potenza dell’automa che sembra restituirci la dimensione analogica attraverso la ricostruzione di una “realtà virtuale” indistinguibile e “data”.
Ma al fondo, per chi si occupa di “formazione” sta la necessità di recuperare sempre, anche attraverso “l’esercizio e l’ammaestramento” (il ruolo dei “maestri” e la loro “ortopedia”) l’esercizio della significazione, la padronanza del logos e del suo processamento.

Non ci sono “ricette” (almeno: non ne ho).
Mi limito a due indicazioni/proposte (educazione civica?).
La prima. Recuperare una antica strumentazione che ci hanno lasciato in eredità i Collegi dei Gesuiti (si veda la “Ratio Studiorum”, antica e modernissima), come la “disputatio”. L’esercizio concreto della dialettica, dell’argomentazione, della “padronanza” della parola (del logos?), nel lavoro degli studenti. Assegnare le posizioni e le opinioni, sfidare ad argomentare a difenderle, a combatterle…. Simulare, certo, per rendere capaci di affrontare la simulazione potente della “realtà virtuale”.
La seconda. Propongo una esperienza didattica (una Unità di Apprendimento si dice oggi?) inter o trans disciplinare (storia, religione, attività alternative alla religione, educazione civica, letteratura… a scegliere..) su quel capitolo dei “Fratelli Karamazov” intitolato “Il grande Inquisitore”.
Dopo, parleremo di “democrazia”.

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