Direzione didattica di Pavone Canavese

Controcorrente - a cura di Andrea Muni

(01.06.2009)

Bambini e insegnanti di fronte all’ortopedia del pensiero
Come mettere a tacere chi la pensa controcorrente

   

“Sono moltissimi i bambini che vivono a psicofarmaci. […] Alla faticosa e avventurosa esperienza didattica e sociale si preferiscono farmaci miracolosi o tecnologie illuministiche” (Raffaele Iosa, L’educazione contro il declino. Frammenti di ottimismo sulla scuola e dintorni, Erickson, Trento 2006, p. 27). Questa è l’annotazione amareggiata di uno che conosce bene le nostre scuole, dopo esser stato maestro di scuola elementare, poi direttore didattico, poi ispettore scolastico ministeriale.
E in effetti la psichiatria, insieme alle neuroscienze, sta rovinando molti. Si sa, la professione di medico oggi è di élite. L’unico corso di laurea che dura sei anni è quello di medicina (lasciamo da parte ingegneria, che in effetti è un altro corso di laurea di classi che si vogliono distinte e superiori), gli altri durano cinque, quattro, tre. Ai medici è accordato prestigio, autorità, potere. Da quando la psichiatria e le neuroscienze sono entrate a far parte degli ambiti di ricerca e di azione dei medici, si sono imposte all’opinione comune come forme di sapere vero e salvifico, mentre ad altri, piccoli gruppetti di minoranza che qualcuno fa passare per antiprogressisti, sono apparsi come forme di sapere falso e demoniaco. Certo, non tutti si sono lasciati convincere dalle molte sirene delle neuroscienze e della psichiatria. Già Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche del 1953, aveva giustamente annotato che “un cervello non è abbastanza simile a un essere umano”. Dagli anni Settanta i vari Goffman, Szasz, Laing, Cooper, Guattari, Foucault, Basaglia hanno avuto molto da ridire.
Quello che è stato detto, dai più non è stato ascoltato, compreso o creduto. Non si trattava di cose complicate o astruse. Non è stato ascoltato perché non lo si è voluto ascoltare, non è stato compreso perché sarebbe stato scomodo comprenderlo, non è stato creduto perché c’erano di mezzo dei forti interessi economici e sociali. A me qui basta riproporre, a chi ancora crede nelle teorie e nelle pratiche mediche di cura della mente, della persona o della società, una domanda. Siete sicuri che la malattia mentale sia espressione di se stessa e non sia piuttosto conseguenza di altro? Se la malattia venisse da altro, la cura non dovrebbe essere cura della malattia, ma cura di quell’altro che ha dato luogo alla malattia.
Altra domanda. Chi decide cosa è malattia mentale e cosa non lo è? Chi decide il confine tra una mente sana e una malata, tra una mente normale e una diversa, tra una mente giusta e una ingiusta, tra una buona e una cattiva, tra una che possiamo accettare e una che non possiamo tollerare e che, dunque, ci possiamo dare tutto il diritto di correggere, con le buone o le cattive, con questa o quella medicina? Siete sicuri che questa malattia mentale non sia soltanto un’invenzione, un’illusione? Magari sarà strategica ai fini del conseguimento di un qualche scopo, economico o sociale, utile a qualcosa –le industrie farmaceutiche chiedono soldi- o a qualcuno –i medici si fanno pagare-. Tuttavia, per me, sarà comunque un imbroglio, una messa in scena, che non si prende cura della persona che si dice essere malata, ma fa altro, soltanto altro.

Altra domanda. Chi siamo, noi? Credete veramente che noi siamo il nostro cervello? Credete davvero che noi siamo il nostro corpo, anzi, una parte del nostro corpo, cioè il cervello? Che tutto, per ciascuno di noi, inizia quando il cervello comincia a esistere e a funzionare secondo oltre un qualche criterio di sufficienza, e finisce quando questo cervello finisce di esistere e di funzionare secondo lo stesso criterio di sufficienza? La mia vita inizia con le conseguenze di un atto biologico, e finisce con la morte del mio corpo? Senza fare giri troppo lunghi, la questione è: chi è questo o quel bambino, chi è questo o quell’insegnante, e come è possibile avere cura di ciascuna di queste persone, delle loro situazioni, delle loro storie, senza usare violenza, prevaricazione, imposizione, ingiustizia? Dal nostro modo di interpretare la persona e la sua storia dipende il nostro modo di fare scuola e di vivere la scuola. Ne va del nostro modo di essere a scuola. Il nostro modo di interpretare la scuola è strettamente collegato al nostro modo di interpretare la persona umana e la sua storia.

Certo, una psicologia che ammette solo il visibile, l’osservabile e lo affida al controllo medico, è una psicologia insufficiente. Una storia dei gruppi e dei popoli che esclude il trascendente, l’invisibile, è una storia insufficiente. Insufficiente a chi? Insufficiente a cosa? Insufficiente perché? Insufficiente per tanti motivi. Ma soprattutto insufficiente a dare un senso, un significato alla nostra vita, alla nostra storia. Insufficiente se vogliamo continuare a credere in parole come amore, libertà, bellezza, bontà. Insufficiente a darci la forza e la speranza nelle miserie e nelle tragedie, che ci sono sempre state e sempre stanno continuando ad esserci. Insufficiente ad essere felici. Sì, perché possiamo chiederci: siamo felici? In che modo possiamo essere felici? Sono le cose visibili a renderci felici? L’amore si riduce al visibile? Potremmo sentirci felici di un amore così limitato, ossificato, cosificato? Insufficiente a spiegarci il nostro bisogno di infinito. Non è possibile avere bisogno di qualcosa che non esiste. È possibile desiderarlo, ma non averne bisogno. Se io ho bisogno di acqua, è perché è possibile bere acqua. Se io ho bisogno di amare e di essere amato, è perché questo è possibile. Se io ho bisogno di infinito, è perché è possibile partecipare dell’infinito. Infinito amore, infinita libertà, o semplicemente infinito, senza delimitazioni, infinito e basta. Se io sento il bisogno di poter partecipare di un amore infinito, è perché questo è possibile.

Per me è importante dire agli ortopedici della mente: lasciate stare i bambini e i loro insegnanti. Non trasformateli in vostre copie a vostra immagine e somiglianza. Non usateli come vostri burattini. Non approfittatevene per il vostro utile, economico e sociale. Toglietevi la maschera di persone che si prendono cura di loro. Mostrate il vostro vero volto. Che è bruttissimo, orrendo, fa paura. Giù le mani dalla scuola. Fuori gli psichiatri, le loro medicine e loro cure, dalle nostre scuole. Possibile che non ci accorgiamo che, a voler trovare malattie da curare, ne possiamo trovare dappertutto? Possibile che non ci accorgiamo che le farmacie e gli ospedali, più clienti hanno, più fanno soldi e più se ne stanno contenti? Possibile non capire che ai medici e ai farmacisti fa proprio comodo vendere medicine e cure?

Prendete un qualunque manuale di psichiatria, e ditemi se conoscete qualcuno che non possa essere sospettato di qualche malattia mentale. Se la vostra risposta sarà “sì”, ditemi se quel qualcuno vi piace, vi sta simpatico, se vi piacerebbe averlo come amico, come moglie o come marito. Se, invece, la vostra risposta sarà “no”, ditemi se vi starebbe simpatico, se vi piacerebbe conoscerlo, cosa provereste ad averlo come amico, come moglie o come marito. A me viene il sospetto che per “malattia mentale” oggi si finisca per individuare tutti quei comportamenti non adattivi, ovvero disadattavi, quei comportamenti non del tutto funzionali al soddisfacimento dei bisogni biologici o sociali o quei comportamenti semplicemente dubbi, non chiari, non lineari, non ottimali al conseguimento di scopi materiali che si vorrebbero uguali per tutti e sufficienti alla felicità di tutti.

Io dico: se un bambino proprio non vuole saperne di starsene seduto a scuola, di ascoltare questo o quell’insegnante, non è detto che sia malato e che vada curato a psicofarmaci. Se un bambino è violento e non riesce a contenersi, non è detto che il suo problema sia un problema biologico del suo cervello: magari c’è davvero qualcosa che non va fuori di lui, fuori del suo cervello. Magari bisognerebbe prendersi cura non del suo cervello, ma della sua situazione di vita, della sua storia. E non disperarsi di fronte ai problemi, alle difficoltà, ai mali, anche quando ci sembrano tragici. Anche nelle tragedie ci può essere altro che noi non vediamo in nessun modo. Non pensiamo che dietro alle cose e alle situazioni, anzi dentro alle cose e alle situazioni, non ci sia nient’altro. Non limitiamoci a vedere e a interessarci di ciò che si vede, ma spingiamoci un po’ più in là, accorgiamoci di ciò che traspare in ciascun momento in ogni frammento di mondo. Se un bambino non riesce a mangiare o a dormire, o non riesce a trattenersi dal mangiare e dal dormire, forse è perché non vuole mangiare o dormire, o non vuole smettere di farlo, e forse questo è un modo che lui trova per manifestare un suo profondo dissenso rispetto a qualcuno o a qualcosa, una modalità di protestare, di ribellarsi, di esprimere il suo disgusto. Se noi togliamo a questo bambino anche questa possibilità di comunicazione e di linguaggio, e lo mettiamo a tacere con qualche facile psicofarmaco, gli togliamo una libertà di pensiero e di parola. Perché anche il silenzio, anche il comportamento, anche il gesto, anche l’atteggiamento parlano, eccome. Ma il comportamento si può correggere. E, correggendolo, si può mettere a tacere il pensiero che dà luogo a quel comportamento. Perché, semplicemente, si crede che non sia funzionale a sé o agli altri, non sia funzionale all’adattamento del malato ai nostri schemi mentali, al nostro mondo mentale che vogliamo giusto, corretto. La questione, che qualunque bambino in cura potrebbe rinfacciarci, è: “chi sei tu per decidere chi, o cosa, devo essere io?”. C’è in gioco tutto il pensiero sulla condizione umana e tutta l’etica delle relazioni tra le persone, perché la relazione tra questo bambino e questo insegnante è una relazione tra due persone che condividono la medesima condizione umana. La questione si gioca tutta non solo all’interno di questo “io” e di questo “tu”, ma anche all’interno del “tra” che separa, e unisce, questo “io” e questo “tu”.

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