Direzione didattica di Pavone Canavese

Controcorrente - a cura di Andrea Muni

(24.05.2009)

Gli antichi greci a scuola.
Dalla ripetizione, la copia e l’imitazione allo specchio, che è altra cosa

 

Ci sono tanti pregiudizi sulla storia. Uno di questi è che gli antichi greci siano un modello da imitare. Mi capita spesso di leggere, o di sentir dire, che l’Atene classica è un esempio universale di cultura da ripetere e continuare. È una opinione che ci viene da lontano. Isocrate pensa che la cultura ateniese sia la più alta espressione della cultura greca (4.50). Tucidide definisce Atene “la scuola dell’Ellade” o “l’Ellade dell’Ellade” (2.41.1; Anthologia Palatina, 7.45). E questa è una cosa. Ma altri, come il von Humboldt (1767-1835), per esempio, lo stesso che aveva fondato l’università di Berlino, hanno parlato della “superiorità su di noi” degli antichi greci, per cui non aveva avuto dubbi che fosse “utile imitare le loro opere”. E questa è tutt’altra cosa. A me idee come queste fanno ridere, ma anche mi spaventano. Mi fanno paura, perché è estremamente rischioso pensare davvero cose simili. Sono sirene, belle quanto pericolose, come quelle di Ulisse. Guai ad ascoltarle senza una qualche corda che ci tenga legati, a una qualche strategia difensiva.

Quell’Atene classica che si addita come modello sempre attuale di pensiero filosofico, politico, letterario, artistico è un modello morto. Finito. Quel piccolo mondo è morto per sua stessa volontà, finito per sua stessa mano. La sua stessa cultura ha provocato la sua fine. Era una cultura competitiva. Le singole città-stato, i singoli gruppi e le singole persone, gli uni contro gli altri, si sono stancati a vicenda, indebolendosi e permettendo in questo modo ad altri di conquistarli, di farli fuori. Erano tanto bravi in tutto, tanto geniali ma non sono stati capaci della cosa più importante per fare tutto il resto, cioè sopravvivere. Si sono lasciati superare dai “barbari” macedoni, come loro stessi li consideravano. Scrivo queste cose pensando alla guerra del Peloponneso, che è così ben raccontata da Tucidide, che in poche decine di anni ha visto l’Atene classica passare dal suo massimo sviluppo alla sua massima decadenza, al suo tramonto, al suo tracollo.

Le date ci parlano.

 431: invasione dell’Attica da parte di Archidamno e inizio della guerra del Peloponneso. Dei riferimenti a questa data leggiamo in Th. 2.19.1; Arist. AP 27.2; Eratosth., 241 F I; Hier. A.A. 1585; Africanus, fr. 45 Routh; ma anche D.S. 12.38.1, 12.42.6; Eus. A.A. 1584; Hier. A.A. 1586 (N).

 404: Pace tra Atene e Sparta e fine della guerra del Peloponneso. Fine della gloria di Atene. Delle notizie su quest’altra data troviamo notizie in Th. 5.26.1, 5.26.3; X. Hell. 2.2.20-23; Arist. AP 34.2-3; D.S. 13.107.4; Plu. Lys. 15.1; ma anche D.S. 14.3.2.

Cosa succede fra queste due date? Cosa ha portato alla prima data? Cosa ha portato alla seconda? Se non la volontà stessa degli ateniesi? Se non la cultura stessa degli ateniesi? Che era quella stessa cultura, filosofica, razionale e democratica, di cui oggi qualcuno non ha vergogna di avere il coraggio di avere nostalgia?
Come possiamo avere la sfrontatezza di prendere a esempio una cultura di questo tipo, per sua stessa natura agonistica, competitiva, distruttiva e autodistruttiva? Mi si dice che è la culla della democrazia. Già. Tucidide, che non era democratico, che ben conosceva questa democrazia e ne era vittima, una delle tante vittime, ha scritto le sue pagine proprio per parlarne male, perché in futuro mai più si ripeta nella storia quella democrazia che ha portato a quella tragedia. I comici, i satiri, per esempio Aristofane, se ne ridevano dei democratici. Quella democrazia è stata un disastro, soprattutto nelle conseguenze del suo governo, che in definitiva hanno comportato l’autodistruzione di Atene.

Questa parola, “democrazia”, è una parola usata spesso, nella manualistica scolastica, in modo del tutto destoricizzato. Anche ai bambini di scuola elementare di solito si insegna qualcosa sulla democrazia. Questo insegnamento è solitamente inteso come educazione civica. Però si trovano informazioni anche nei libri di storia per l’infanzia, sia quelli scolastici che quelli divulgativi. Quello che in genere viene trasmesso è un concetto molto annacquato. Oggi, nelle scuole, si parla molto di scuola democratica, insegnamento democratico, educazione ai valori democratici. In effetti, è nel dopoguerra che gli insegnanti hanno rivendicato, in contrapposizione a una scuola che era stata fascistizzata, valori democratici. Spesso, però, la democrazia è intesa come un valore civico vago, generico e destoricizzato.

La lettura di Tucidide potrebbe far riflettere su questo punto. Nella bozza del preambolo alla Costituzione europea del 28 maggio 2003 si è fatto riferimento a un epitafio attribuito a Pericle da Tucidide (cf. Tuc. II 37), come a indicare in quel passo un modello di democrazia per l’Europa. L’Atene classica viene quasi sempre indicata, nella manualistica scolastica, come modello universale di democrazia. Ma, è stato osservato, per Pericle il concetto di democrazia era contrapposto a quello di libertà; la democrazia aveva per Pericle un carattere di violenza (kràtos) liberticida. Inoltre Pericle era visto da Tucidide come un princeps (pròtos anèr) (cf. Tuc. II, 65). Pericle piaceva a Tucidide perché guidava e non si faceva guidare, perché sapeva “andare contro corrente in contrasto con gli impulsi, o gli istinti, popolari” (cf. Tuc., II, 65) e perché sotto di lui solo a parole c’era ad Atene la “democrazia”.

Prima della democrazia ad Atene c’era la tirannide, ma ad abbatterla erano stati gli spartani. Thomas Hobbes nel 1628 aveva esordito con una traduzione di Tucidide, e aveva interpretato che Pericle non doveva essere poi tanto diverso dai monarchi e dai tiranni. Si era accorto che Tucidide non era un democratico, come non lo era nemmeno Pericle, se usiamo le categorie attuali. È qui il problema: la democrazia di cui si parla oggi nelle scuole è la stessa di quella di cui si parlava ad Atene in epoca classica? Evidentemente no. Quella guerra è nata dalla lotta tra fazioni politiche e per la ribellione di alcune città alla volontà di Atene di esportare la democrazia dove non c’era. Tucidide si sente motivato a scrivere su quella guerra da antidemocratico, scaricando la responsabilità della fine di Atene sui democratici. Inoltre alcuni (p. es. Canfora) hanno recentemente osservato che è falso dire che la democrazia sia stata inventata in Grecia. Se non altro perché era stata inventata in Persia (cf. Erodoto, III, 80; VI, 43).  Isocrate vede nell’oligarchica Sparta una “perfetta democrazia”. Demostene dice che gli avversari politici vanno bastonati, trattati come traditori e agenti del nemico. Non esistono testi di autori di Atene che parlino bene della democrazia. Al contrario. Gli storici, i filosofi, gli oratori, i poeti di Atene hanno costantemente criticato la democrazia. Erodoto forse no. Oggi ci sono i Musti a ripetercelo. Mi ricordo bene come lo stesso Filippo Càssola, che ho avuto la fortuna di averlo come professore di storia greca a Trieste il suo ultimo anno di insegnamento, pochi anni prima di morire, amasse difendere sia Erodoto che la sua democrazia. Però Erodoto non era nato ad Atene. E, quando parla bene della democrazia, è perché in democrazia i greci si erano dimostrati più forti in guerra, mentre sotto la tirannide non erano stati superiori a nessuno in guerra (cf. 3.80-82; 5.78); cioè la presunta bontà della democrazia è ricollegata alla presunta bontà della guerra.

La parola demokratìa è stata usata per indicare uno scontro fra gruppi sociali. D’altra parte, quei cittadini che potevano partecipare alla vita democratica di Atene erano solo i maschi adulti liberi di nascita, figli di madre e padre ateniese. Ad Atene nel V e IV secolo il rapporto tra liberi e schiavi è di uno a quattro, dove quel quattro rappresenta le non-persone, indispensabili al funzionamento del sistema, la base dell’economia.

Aspetti come questi, per noi contraddittori, contraddittori cioè per i nostri schemi mentali che ci siamo costruiti, o che più semplicemente ci siamo ritrovati, sulla democrazia nei nostri apprendimenti scolastici. Che dire poi sull’identificazione del cittadino col guerriero? Tutti i cittadini erano guerrieri. In un contesto politico democratico, in cui tutti i cittadini devono essere democratici, altrimenti vengono esclusi, espulsi, mandati in esilio, questo equivale a dire: tutti i democratici erano guerrieri. Ed avevano schiavi, come forma di proprietà privata o collettiva. Quando un oratore antidemocratico propone di liberare gli schiavi agricoli e minerari presenti in Attica, viene immediatamente processato per illegalità, la peggiore delle accuse che potessero esistere ad Atene. I cittadini, che erano democratici, guerrieri e schiavisti, sono gli stessi che nel 399 a.C. hanno condannato a morte l’antidemocratico Socrate, vittima delle opinioni della maggioranza, ma anche di una democrazia fondamentalista. Resta ancora da dire che anche agli altri, cioè ai non ateniesi, in genere l’Atene democratica non piaceva: tanto è vero che nel 404 a.C., quando sono state abbattute le mura di Atene, cioè con la fine della guerra del Peloponneso, molti hanno pensato “che in quel giorno incominciasse la libertà per i greci”, (Senofonte, Elleniche, II, 2, 23), libertà dalla democratica Atene, dalla sua democratica egemonia. Ora, non si tratta di fare discorsi antidemocratici a scuola, come una sorta di antipropaganda politica. Il problema è di tipo didattico, e non di propaganda politica. Si tratta di vedere in che modo si può evitare di fare trasmissione nozionistica o propaganda politica, sia essa di un tipo o di un altro tipo. L’unico modo per uscire da un modello trasmissivo, da una parte, propagandistico, dall’altra, sembra sia quello della problematizzazione.

Fin qui ho fatto finta di accettare l’idea di una qualche “cultura dell’Atene classica”: Questa idea sta a presupposto di alcune fantasiose e divertenti contrapposizioni fra Atene e un’altra città anch’essa troppo complessa per poter essere ricondotta ad una qualche unità in cui tutte le identità e le differenze possano scomparire, omologate e appiattite: Gerusalemme. Per fare solo qualche esempio, perché se ne potrebbero fare molti altri, penso a Lev Sestov (1866-1938), Atene e Gerusalemme , (1938), tr. it. Bompiani 2005; ma anche a libri più recenti, come quello di Leo Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, tr. it. Einaudi 1998 o a quello di Sergej S. Averincev,  Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due principi creativi, tr. it. 1999, Donzelli, ma anche a quello di Francesco Paolo Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il “nuovo pensiero” di Franz Rosenzweig, Marietti 2009.

Però questa idea della “cultura di Atene classica”, così pure come quell’altra, per certi aspetti speculare, della “cultura di Gerusalemme”, non la accetto proprio per niente, perché questa immaginaria e desiderata “cultura dell’Atene classica”, in realtà non esiste, è un’invenzione, costruita e divulgata soprattutto dai moderni (rinascimento, umanesimo, illuminismo, romanticismo). Atene era una città-stato piccola, ma varia, estremamente varia, divisa in diversi gruppi politici e sociali. Una cultura totale condivisa da tutti, al di là, se proprio volessimo concederlo, del sangue, della lingua, della religione e di alcuni costumi, e di qualche altro elemento culturale, non c’era. Per non parlare delle altre poleis, che erano centinaia, ognuna con differenti istituzioni politiche, dialetti, alfabeti, calendari, feste, divinità preferiti.

Che senso ha parlare di questo qualcosa che non è mai esistito, non so. A meno di riconoscere che il senso è il senso che qualcuno vuole creare, e dopo averlo creato vuole vedere e fare vedere. Cioè di voler far pensare questi immaginati, desiderati antichi greci a nostra immagine e somiglianza, adeguati a ciò che ci piace pensare che loro abbiano pensato, a ciò che ci piace credere che loro abbiano creduto, fatto, vissuto, sperimentato, dimostrato. Mi capita di osservare che quelle stesse persone che si dicono, per vari motivi, innamorate degli antichi greci, sono innamorate di se stessi, e vanitose si guardano in quello specchio che loro stessi si sono ritrovati fra le mani e che loro dicono essere “il mondo degli antichi greci”. Uno specchio falso, che dà un’immagine falsa. Noi ci siamo costruiti dei bellissimi specchi in cui questi “antichi greci”, o questi “ateniesi del periodo classico”, che sarebbero persone straordinarie da prendere a esempio, a modello, da imitare a da desiderare come nostri iniziatori, nostri fondatori, nostri padri, alla fin fine siamo noi, naturalmente bellissimi ai nostri stessi occhi. Attenzione ai giochi degli specchi.

Anche ciascuno di questi antichi greci avrà sicuramente avuto qualche specchio. D’altra parte, i Greci si sono sentiti diversi dai barbari, e superiori a loro, solo dopo le vittorie delle guerre persiane. E, nonostante questo, fino alla fine, molti greci sono stati indegni, mentre molti barbari sono stati civili (Eratostene, citato da Strabone, I.4.9.66). Qualcuno, come Martin Bernal nella Londra tra il 1987 e il 1991, ha scritto che in realtà ciascuno di loro era debitore della cultura degli antichi egizi. La cultura greca antica e, in particolare, classica avrebbe imparato tutto o quasi dalla cultura egizia. Magari tranne qualcosa come una certa filosofia e una certa democrazia, ma sia questa filosofia che questa democrazia non sarebbero da interpretare come cose buone. Il discorso più importante però è un altro: essere sinceri con noi stessi. Chi vogliamo ascoltare, tra questi antichi greci, in che modo lo vogliamo far parlare, cosa gli vogliamo sentir dire? Vogliamo veramente metterci in ascolto o preferiamo sentirci dire quello che già abbiamo deciso di volerci sentir dire? Vogliamo ascoltare altri o noi stessi? Vogliamo stare a guardare, o preferiamo guardarci allo specchio? E, quando ci guardiamo allo specchio, preferiamo uno specchio fedele, capace di farci accorgere anche di qualche difetto nel nostro volto, di qualcosa che magari non ci piace e che vorremmo diversa, oppure uno specchio magico, che ci rimanda la nostra immagine migliorata, trasformata, magari divinizzata, in modo corrispondente ai nostri desideri?

Un grecista, di recente, esattamente nell’anno in cui ho iniziato il mio mestiere di maestro di scuola elementare,  ha scritto un commento che ho fatto mio: “questi greci davvero meglio sarebbe non si fossero mai conosciuti, o, se conosciuti, li si dimenticasse al più presto” (Diego Lanza, Dimenticare i greci, in Salvatore Settis, a cura di, I Greci. Storia, cultura, arte, società, vol. III: I Greci oltre la Grecia, Einaudi, Torino 2001, p. 1464). Cioè, se dobbiamo continuare a credere e a far credere in questi greci immaginari mai esistiti, meglio lasciar stare. Se, invece, vogliamo veramente metterci in discussione, noi insieme a ciascuno di questi antichi, e ascoltare anche cose che non ci piace sentire, vedere anche cose che può non farci piacere vedere, allora può continuare ad avere senso il metterci in dialogo con loro, un dialogo in cui non spariscano né le reciproche identità né le reciproche differenze, che, a ben vedere, sono identità e differenze che, con l’aiuto di un certo tipo di specchio, possiamo trovare all’interno di noi stessi, anche senza andare a cercare lontano, chissà dove e chissà come. Allora, in questo senso, ha tutt’altro significato riproporre ancora oggi lo studio degli antichi nelle nostre scuole, da quelle elementari alle superiori e alle università. È in questa direzione che mi pare possa essere reinterpretato qualche tentativo recente di rilanciare la questione dell’attualità dell’antico, qui per noi oggi (as es. Luciano Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Rizzoli, Milano 2002).

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