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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(05.09.2015)

Stratificazioni. Ovvero gli errori di valutazione che può compiere il d.s.
di Franco De Anna

Un caro e autorevole amico (Maurizio Tiriticco) mi chiede, attraverso una mail personale di “lluminarlo” (!?) con un commento personale su alcune questioni a suo dire cruciali della legge cosiddetta della “buona scuola”; e me le enumera: il livello di “oggettività” dei criteri con i quali un DS potrà conferire incarichi triennali (Comma 79). Testualmente: come fare a incaricare Antonio invece di Filippo che ha un 110 di laurea? E come impedire che la “bella ragazza” sia agevolata in relazione ai criteri estetici (ed altro..) del Preside. E ancora,: come fare, nella valutazione del Dirigente legata ad apprezzamento del suo operato ed alla sua reputazione, a neutralizzare il clima di ”chiacchiere” e pregiudizi che circonda (inevitabilmente?) la scuola…
Ho chiesto a Maurizio il permesso di dare una risposta pubblica, e ne ho ottenuto il consenso. Il motivo della richiesta è implicito negli stessi quesiti sui quali sono stato sfidato: Maurizio è categoricamente e radicalmente contrario alla Legge in questione. E siccome ritiene che il mio approccio sia troppo “tiepido” mi spinge nell’arena, a combattere o morire…

Premessa di merito

Io credo che quella cosiddetta “della buona scuola” sia l’esempio di una Legge pasticciata e confusa nella sua stessa formulazione formale (anche a prescindere dal merito). Non devo dunque né difendere nulla, né “iscrivermi” a qualche reparto di “lanzichenecchi” di quelli che cita con efficacia Stefanel su queste pagine. ( http//www.pavonerisorse.it/buonascuola/senso_stato.htm ).

Ciascuno può avere in mente una immagine, una ipotesi, un “modello” di scuola per come la vorrebbe… Ovviamente la “sua verità” deve fare il conto con il fatto che diventa “doxa” nel confronto democratico, e che dunque ogni “legge” è necessariamente il frutto di un compromesso-dialogo, con “diverse verità” (è la democrazia politica, bellezza…). Ma certamente cosa e come la realtà potrà trasformarsi in applicazione di una norma legislativa, dipende da molte variabili: Tra queste, e non necessariamente in ordine di importanza, l’ispirazione ideale, i valori che si tenta di implementare, la politica pubblica che si definisce per rispondere ai problemi collettivi (in questo caso l’istruzione..), la chiarezza e pertinenza delle norme che si definiscono, la coerenza e la competenza esecutiva di chi deve porle in pratica (l’amministrazione.. e richiamo ancora il pezzo di Stefanel), la cultura (consenso, professionalità, interessi, convenienze) di chi opera sul campo…
Da questo punto di vista quella Legge è davvero sconcertante: affermazioni sovrapposte, ripetute, spesso insignificanti nel loro richiamo a generiche e in qualche caso inutili “novità” (per alcune sarebbe bastato rideclinare il Regolamento sull’Autonomia), in altri casi imprecise e aperte a tutte le applicazioni… Ciò significa che la fase applicativa, sia di carattere normativo secondario (i decreti delegati) sia soprattutto di carattere esecutivo (l’amministrazione) sarà il vero banco di prova: meglio risparmiare energie e fiato con meno urla e scongiuri e qualche ipotesi operativa in più… So che molti colleghi vedono in tutto questo “la congiura della reazione in agguato” (a scelta: i poteri forti, la privatizzazione, l’aziendalizzazione, l’asservimento della scuola all’impresa..) e i loro interventi grondano di indignazione…  (come dico sempre, l’indignazione è come l’orgasmo dei cattivi amanti: dura un  attimo e lascia il posto al sonno…). Datemi retta: non c’è strategia dietro quella norma confusa… o meglio: ci sono le strategie di sempre, ma scontano la loro debolezza e contraddittorietà… Quasi quasi vorrei davvero che le imprese italiane smaniassero per estendere il loro controllo sull’istruzione… meglio avere avversari “rispettabili” che lobbies nascoste residuali e opportuniste.... D’altro canto le scuole paritarie sono alla frutta, economicamente, per utenza e per risultati (vedi rilevazioni OCSE e INVALSI) …. A parte quelle “storiche” come Salesiani e Gesuiti; (ma hanno insegnato ad insegnare a tutti… Altra cosa sono gli esamifici…Ma se la scuola pubblica organizzasse davvero il recupero, non avrebbero più clienti..). Quasi quasi darei loro qualche quattrino in più, approfondendo valutazione e controlli, purchè smettessero di inquinare ideologicamente il dibattito politico e culturale…


Tiriticco e Buñuel

Nella loro evidente provocazione (l’oggettività dei voti di laurea e la venustà della docente come criteri di incarico triennale… come premessa “liquidatoria” della Legge 107), le domande dell’amico Tiriticco mi hanno ricordato, per uno strano parallelismo, un episodio che mi accadde molti ma molti anni fa.
Andai a vedere l’ultimo (allora) film di Buñuel (era “La via lattea”). Con qualche sforzo, per la verità. Ma si sa, in quegli anni (fine ’60 inizio ’70) La deformazione da cineforum era “obbligatoria”. Nelle sedie dietro di me trovò posto un quartetto di ragazzi “di periferia”: sottoproletariato alla “pasolini”, che chissà quale cattivo consiglio aveva condotto in quella sala.
Nel corso della proiezione i commenti del quartetto furono irresistibili… ad alta voce e senza alcuna soggezione culturale, si facevan beffe di tutto il surrealismo dell’autore, delle incomprensibili tirate sulle dottrine e pregiudizi religiosi (il film aveva questo “oggetto” ammesso che un film di quell’autore avesse un “oggetto”). Battute, battutacce, imprecazioni di rara efficacia… ero più coinvolto dalla loro dissacrazione che dai pur rimarchevoli arzigogoli surrealisti di Buñuel…
Nulla resiste ad una ben indirizzata e ben “ornata” ironia. Vale anche nel nostro caso: la migliore legge del mondo se mi pongo ironicamente dal punto di vista del trasgressore, non resiste all’analisi dell’ironia ben diretta.
Qualcuno  del resto sostiene (come derivato della cultura giuridica nazionale) che il modo migliore per produrre norme e regole sia quello di farle costruire dai ladri e trasgressori, da quelli che si sono industriati a trasgredirle, aggirarle, mandarle fuori bersaglio. A volte (è esperienza di chiunque lavori o abbia lavorato nella Pubblica Amministrazione) il carattere “cervellotico e maniacale” di alcune norme regolamentari dà la sensazione che ciò sia vero. L’interlocutore portatore di normale etica e responsabilità, si chiede da dove mai sortiscano certi regolamenti e certe condizioni formali che comunque informano (rallentano, complicano, allontanano dai cittadini normali) la pratica amministrativa. Ma la cosa più grave è il carattere “infettivo” di tale processo: si diffonde il criterio che si debba giudicare della bontà di una legge mettendosi nei panni del trasgressore…(e ciò vale sia per l’istanza del “copiarlo” che per quella opposta del “contrastarlo”, come se fosse il dettato di una codicillo a combattere la corruzione..)
Sarà per tale motivo che i regolamenti e le norme più dettagliati e puntigliosi, carichi di controlli e adempimenti formali, non hanno impedito che il nostro sia il Paese più corrotto
Naturalmente se tale infezione colpisce anche un amico come Tiriticco (che guarda ai DS solo come potenziali trasgressori..), mi si presentano dubbi ed interrogativi pesanti (ci torno in seguito).

Alla domanda relativa al grado di “oggettività” interpretabile nelle decisioni di un Dirigente Scolastico che rinnovi un contratto triennale mi limito qui a rispondere che una intera letteratura sulla “Gestione delle Risorse Umane” in una organizzazione toglie senso alla stessa domanda… Il responsabile finale di una organizzazione interpreterà sempre con un grado più o meno ampio di discrezionalità tale sua responsabilità di individuare “la persona giusta al posto giusto”.
In termini i pregiudiziali nè meglio nè peggio di una graduatoria “quantitativa” stilata fuori e indipendentemente dal contesto organizzativo concreto. Anzi: più la composizione tecnico scientifica della professionalità coinvolta è alta, meno la “graduatoria quantitativa” ha carattere predittivo sulle effettive capacità della persona interessata…
Come un dirigente interpreta quel grado di discrezionalità, come per esempio si dà supporti istruttori adeguati per limitare l’arbitrio o semplicemente l’azzardo della sua decisione, rappresenta il banco di prova sia della sua professionalità, sia della sua cultura organizzativa, sia della interpretazione “etica” del suo ruolo.
Ma se volete discutere davvero di metodologie e strumenti della politica e della gestione del personale, si può fare, ma certo non a partire dall’elenco interessato e caricaturale degli abusi ed errori che può compiere un cattivo dirigente.

Una stratificazione di sintomi

La pessima configurazione della legge 107, la sua più che difettosa struttura “letteraria” è ovviamente un “sintomo”, una conseguenza del suo stesso iter legislativo. La valanga di emendamenti, con il conseguente spezzettamento della materia disciplinata è ovviamente la conseguenza della applicazione degli strumenti dell’ostruzionismo parlamentare. Forme legittime di espressione democratica. Ma l’ostruzionismo è una “tattica” di opposizione, se diventa una “strategia” cambia significato politico e cambia di conseguenza il giudizio politico, soprattutto quando la strumentale moltiplicazione delle istanze emendative, spesso contraddittorie tra loro, occulta completamente la possibilità di identificare una strategia alternativa. Che non sia quelle di “lasciare le cose come stanno”.
Ma non mi interessa qui il giudizio politico specifico (a suo tempo, all’inizio di questa vicenda dissi e scrissi che si trattava di una caccia alla volpe: liberazione di una preda “di immagine” per far galoppare i cavalieri, mentre la preda reale era altrove…).
Mi interessa invece sottolineare come la vicenda parlamentare della legge cosiddetta “buona scuola” sia un sintomo di quella complessa e stratificata patologia che affligge storicamente il nostro sistema.

Altri “sintomi” (ripeto, al di là del merito delle opinioni espresse), riguardano per esempio la disinvoltura del richiamo alla Costituzione: come se ogni opinione diversa dalla propria diventasse anticostituzionale. Una Carta giocata per tutte le partite, e che in tal modo smentisce i suoi difensori. Ancora: la congiunzione immediata tra battaglia politica e ricorso alla magistratura (amministrativa, per lo più), con il suo contorno di “diritti particolari e individuali” trasferiti sull’universale, in una discussione nella quale centrale dovrebbe essere il diritto di cittadinanza all’istruzione, e in seconda battuta quello degli aspiranti addetti al servizio…. Ancora: una assoluta indifferenza/lontananza dalle problematiche della dirigenza pubblica, del cosa debba e sappia fare, a chi rendere conto, delle responsabilità e della autonomia necessarie a tale esercizio…Si è preferito il fiorir di metafore, ciascuna carica di volute ambiguità, per qualificare la figura del Preside: lo sceriffo, il Sindaco, finanche il “parroco”, il boss che gestisce clientele, il manutengolo delle imprese… Condimento curioso: in tale esercizio si sono misurati sia governanti (massime un sottosegretario) sia oppositori, sia “mediatori” (il “parroco” è una figura alimentata da Cerini che per la verità parla di “costruttore di comunità”).
Potrei continuare l’elenco, ma ripeto, non voglio discutere le singole e specifiche opinioni, bensì il fatto che a me paiono (per la maggior parte dei casi indipendentemente dal merito espresso) più una raccolta stratificata di sintomi che si rifà a patologie sottostanti, che non il segno di distinzioni e scelte alternative.

Una stratificazione che riguarda molti aspetto delle debolezze nostro “essere pubblico”. Ne enumero solo i più rilevanti, per ovvi limiti di questo articolo.

L’assetto costituzionale (perfetta la prima parte, carente e storicamente contingente la seconda). La “costituzione materiale” conformatasi su quella base che spesso contraddice i principi generali. La ripetutamente, e da più scuole di pensiero, riconosciuta, necessità di provvedere a sensate modifiche della seconda parte accompagna senza esiti la contraddittoria storia politica degli ultimi vent’anni. Il riconoscimento di quelle necessità ha sempre lasciato il posto alla occhiuta verifica del “cosa conviene” agli apparati politici di turno… ( vedi storia delle leggi elettorali.. e sempre al galoppo i partecipanti alla caccia alla volpe)

La storica debolezza politica dell’Esecutivo: nella nostra storia l’autorità del Governo fu legata o alla dittatura (e si ricordi che il fascismo non ebbe bisogno di modificare lo Statuto), o, nel dopoguerra, alla permanente e defatigante  mediazione (spesso non limpida) tra le forze politiche e gli interessi rappresentati nel Parlamento. 150 anni di storia unitaria e 121 compagini governative: questi i dati più che indicativi di una questione “strutturale” e generale di portata storica; scomparsi i grandi partiti di massa, la mediazione parlamentare diventa ancora più opaca nel suo rapporto con la debolezza strutturale dell’esecutivo.
Un diverso equilibrio tra potere legislativo ed esecutivo la cui urgenza è più che evidente, ma anche qui quasi un  ventennio di richiami generali e di spezzettamento di interessi contingenti. Con fall out sulla stessa opinione pubblica e partecipazione di massa… Un referendum popolare limitò la funzione delle preferenze nei meccanismi elettorali; oggi l’assenza di preferenze viene denunciata come sintomo di autoritarismo…Il superamento del bicameralismo perfetto fu all’ordine del giorno nelle ultime quattro legislature… Oggi si traduce in un “bilancino di emendamenti” di valore contingente. Al dibattito politico insulti e grida..
E intanto la legislazione per decreto si incarica di smentire nella prassi sia i parlamentarismi puri che i cultori del “buon governo”. (Il testo ingarbugliato de “la buona scuola” è uno dei risultati “pratici” di tali contraddizioni profonde)

La “giuridicità” debole (come direbbe Sabino Cassese), con una normazione spesso a carattere derogatorio, emergenziale (Giolitti diceva che la legge si applica per i nemici, si “interpreta” per gli amici; senza andare così lontano, si guardi alle messi di ricorsi che accompagnano l’applicazione normativa: in essi si ricongiungono contraddittoriamente supposte  rivendicazioni di “diritti individuali” e, con la medesima filosofia, esigenze che venga applicata una interpretazione più favorevole). La stessa azione sindacale sembra confidare più nei TAR che nella contrattazione.

La deformazione storica di un confronto tra “centralismo” e “decentramento” che ha assunto configurazione patologica con le suggestioni del cosiddetto federalismo, ma che ha storia di lunga durata nel nostro Stato unitario, da Minghetti all’istituzione delle Regioni (con quasi un trentennio di ritardo sul dettato costituzionale). La deformazione consiste nel fatto che le opposte scuole di pensiero (centralismo e decentramento) sembrano tralasciare la considerazione che il “centro è vuoto” e che anche gli assetti centralistici hanno dovuto scontare tale assenza riempiendo quel vuoto di autorevolezza statale con la permanente mediazione localistica o degli interessi più o meno corporativi. (Pensate alla formazione delle classi politiche e amministrative locali, ed alle loro prestazioni quando arricchite da competenze autonome,  o al peso politico delle “professioni protette”). Le stesse interpretazioni dell’autonomia scolastica risentono del “vuoto del centro”.

L’assenza di una consolidata tradizione culturale, professionale, etica della dirigenza pubblica, paragonabile a quella che i francesi chiamano “noblesse d’etait” (cito ancora Cassese).
E qui l’esempio del dibattito anche extrascuola sulle funzioni del Dirigente Scolastico è più che emblematico della “cultura sociale” delle funzioni e ruoli della dirigenza pubblica.
Vi siete mai chiesti il motivo per il quale quando si fanno iniziative di orientamento scolastico e professionale per esempio per i futuri diplomati della secondaria superiore, il lavoro nella Pubblica Amministrazione e nei suoi segmenti specialistici non viene mai indicato come possibile prospettiva? Eppure la PA alimenta una gran parte del mercato del lavoro intellettuale… L’impegno e l’impiego pubblico non sono “campo di valori” nella cultura del nostro Paese… e le conseguenze si vedono… Le volgarizzazioni de il preside sceriffo, piuttosto che il preside sindaco, chiunque le operi rinforzano tale deficit di cultura pubblica.

Se si esaminano con il distacco necessario le diverse motivazioni (per i si, per i no e per i non so, spesso taciuti questi ultimi) che in questi mesi si sono confrontate sul tema della cosiddetta “buona scuola” e se si resiste alla tentazione di “innamorarsi” dei propri argomenti (cosa assolutamente legittima e necessaria, ovviamente, ma che non esaurisce l’analisi) non è difficile riscontrare nella loro trama complessa l’ordito degli elementi di debolezza della dimensione pubblica del nostro Paese, richiamati più sopra.

Una debolezza cui non si mette rimedio con qualche dispositivo di Diritto Amministrativo o qualche “garanzia formale” di “neutralità”. 
Si tratta di nodi profondi che aggrovigliano la questione fondamentale della Pubblica Amministrazione nel nostro Paese. Il problema è che si son fatti sempre più stretti in oltre cinquanta anni di storia irrisolti,  e che nella fase attuale che investe il ruolo dello Stato, l’organizzazione del welfare, il rapporto tra Stato e società civile, il rapporto tra Stato e sviluppo economico, con una portata storica sia nazionale che internazionale, tali nodi si son fatti soffocanti: siamo alla asfissia di ogni prospettiva e futuro se non si provvede a sciogliere.

C’è per la verità, in questa vicenda un elemento di novità di cui forse il “popolo della scuola” non si è reso conto pienamente: è la prima volta che tale complessa sintomatica della patologia della nostra dimensione pubblica emerge con tale evidenza nella scuola.

Nella nostra tradizione la legislazione scolastica è sempre stata oggetto di accurata, attenta, defatigante mediazione politica. Commissioni di esperti a composizione mista e calibrata, accuratezza di formulazioni spesso aperte ad interpretazioni le più diverse, tempi e cadenze “storiche”. 
Si consideri che anche provvedimenti di ispirazione certo non condivisa integralmente dal popolo della scuola, come quelli assunti nel ministero Moratti, pur non avendo il conforto delle “commissioni di esperti di tutte le scuole di pensiero”, assunse comunque la veste di una “norma generale” fatta di affermazioni di principi, di definizioni complessive, di deleghe specifiche … e trovò in Parlamento una approvazione che non ebbe bisogno di un maxiemendamento nel quale si sommassero e sovrapponessero commi e materie più diverse. Per evitare equivoci: si poteva e si può dissentire profondamente con quella legge, ma è indubbio che la sua lettura consente di individuare principi e valori (dalla personalizzazione del curricolo, al concetto di diritto-dovere invece che di obbligo, alla ipotesi di “licealizzazione” della secondaria superiore..). Fu l’ultimo esempio di una produzione legislativa appropriata. In seguito si riuscì persino a elevare l’obbligo scolastico con una legge finanziaria… (e dunque non è un problema di questo o quello schieramento).

Molti rimpiangono tale costume politico, e certamente vi sono ragioni per quel rimpianto. Mi si consentirà però la malizia di ricordare che gran parte di quella storia della legislazione scolastica è fatta da provvedimenti che davano veste innovativa  a processi reali “già accaduti”.
La media dell’obbligo (esaltata tappa storica) arriva 15 anni dopo il dettato costituzionale e, con tutta l’importanza che comunque ha, certo ne interpreta solo una parte.
I programmi che avrebbero dovuto adeguare l’obbligo scolastico alla idea di una formazione unitaria e sufficientemente completa arrivarono il ventennio successivo, e la massificazione della scuola aveva già investito la superiore (e sulla legislazione di quest’ultima il tacere è bello…una gestazione quarantennale per generare un bambino già vecchio)..… La legislazione sulla gestione della scuola data quasi trent’anni dalla Costituzione, introduce la “gestione collegiale” (ma non la “gestione sociale”) in un periodo storico nel quale la dinamica sociale accentuata investiva anche la scuola ponendo la questione del superamento della sua separatezza…Adeguamento corporativo e opportunistico a quella stagione sociale. E ce la portiamo appresso come una rete a strascico..

In realtà la legislazione scolastica con il suo carattere condiviso, intermediato, sottoposto a consultazioni plurime e mediazioni attente, è sempre stata caratterizzata da provvedimenti che “prendevano atto” e al limite davano qualche “sistemazione coerente” a processi reali già affermati. La politica scolastica si è adeguata; i comportamenti della Pubblica Amministrazione hanno fatto di tale adeguamento uno stile operativo (alla faccia delle responsabilità dei Dirigenti amministrativi: certamente in quegli anni ancor meno avremmo fatto se non ci fossero stati due o tre Direttori Generali del Ministero capaci di prendere per le corna il toro dell’innovazione…ma siamo sulle dita di una mano… e le centinaia di Provveditori? Di Dirigenti locali? Forse usiamo le altre dita rimanenti, ma non di più…). Si possono affidare processi di riforma a chi, al massimo ne dà versioni di “adeguamento” e di “queta non movere”?

Non c’è nulla da rimpiangere, se non ovviamente la giovinezza… la politica scolastica nazionale è stata complessivamente incapace di governare e guidare lo sviluppo… Se dovessi indicare una eccezione direi che  il regolamento dell’autonomia è tra i pochi provvedimenti le cui potenzialità andavano oltre alla realtà e potevano trasformarla e non solo prenderne atto,  e che, se applicati con attenzione, cura e coerenza, avrebbero potuto innescare un processo realmente innovativo … Non  a caso il quindicennio successivo è segnato da interventi diretti a limitare, mortificare, comunque non espandere tali potenzialità…

Oggi, per la prima volta, anche il popolo della scuola viene duramente chiamato a misurarsi con la sintomatologia complessa della patologia della nostra dimensione pubblica.

Ovviamente so e comprendo che nel crogiuolo di una discussione come questa si mescolano interessi, frazioni di interessi, punti di vista, esperienze parziali e locali, modelli ideali, in un meltig pot la cui disomogeneità è stata incentivata dai caratteri sconnessi dello stesso provvedimento in discussione.

Ma ciò che non posso non rimarcare è che il popolo della scuola non sappia cogliere entro tale confuso dibattito e confronto proprio quella sintomatologia complessa dei mali del nostro essere pubblico. Anzi, in qualche caso finisca per fare appello proprio a quei mali (Per esempio, la politica scolastica fatta dai TAR?). Ne emerge un profilo inevitabilmente “conservativo”.
E, su altro versante, chi dovrebbe avere e riprodurre tale consapevolezza dei limiti profondi del nostro essere pubblico, se non le migliaia di intellettuali che dovrebbero costruire “senso e cultura sociale” attraverso il lavoro scolastico? Si tratta di migliaia di persone che hanno avuto il “privilegio di studiare” (ebbene sì, il privilegio: i laureati sono intorno al 20% della popolazione di riferimento…). Non credo sia improprio fare leva su categorie come l’etica e la responsabilità.

Il Governo e il Parlamento da un lato, l’Amministrazione dall’altro, il “popolo della scuola” dall’altro ancora stanno “triangolando” qualche cosa che non rappresenta certo il “meglio di loro stessi”.

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