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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(31.10.2015)

I dilemmi della pedagogia difensiva
di Raffaele Iosa

 
È in corso nel nostro paese un palese contrasto tra due diverse visioni di cosa sia e come si debba fare il  sostegno per gli alunni con disabilità.  La questione ha attinenza anche con la Legge 107, che rinvia (comma 181 c) in modo generico ad un decreto per la “…ridefinizione del ruolo… con….appositi percorsi di formazione universitaria”.  
 

1.       Sui contrasti attorno al sostegno

 
La querelle non è solo organizzativa,  tocca invece il cuore epistemologico dell’inclusione. 
A grandi spanne, si contrappongono queste due scuole di pensiero.

Gli scolasticisti: sostengono la necessità di andare oltre la separazione tra docenti curricolari e di sostegno, si basano  sul  sostegno partecipato, come ad esempio l’ originale idea dei  docenti bis-abili.
Lo scopo, si dice,   è creare una necessaria speciale normalità in cui tutti fanno inclusione.
Gli scolasticisti mettono al centro la scuola comunità, capace di flessibilità per tutti in ogni momento educativo,  fondata nel sostegno diffuso di  attività individuali e collettive,  riconoscono le abilità  sia residue sia anche “altre”. La proposta sostiene l’ipotesi di  tutors pedagogici speciali di alto livello di aiuto ai docenti. E’ la tendenza più vicina alla storia pedagogica dell’inclusione degli anni 70. Ma è anche una tesi oggi purtroppo minoritaria.

Gli specialistici: sostengono invece necessario l’ irrobustimento specialistico dei docenti di sostegno con lauree separate, che risponderebbe  al bisogno di superare un certo dilettantismo di molti docenti, favorendo quindi didattiche speciali mirate, che a loro dire sono la pre-condizione per l’inclusività.
Gli specialistici partono dalla persona con disabilità e accentuano la necessità di  didattiche speciali riabilitative, adattate alle abilità residue. Il docente di sostegno diventa il prius dell’inclusione: secondo questa scuola di pensiero senza interventi speciali sul “sintomo” non c’è vera integrazione.  

Entrambe le scuole si dichiarano inclusive, ma il contrasto è radicale:  la prima scuola di pensiero critica la seconda per il rischio di medicalizzazione, la seconda critica la prima per il rischio di una confusa inclusione.
Qualcuno, ingenuamente, potrebbe proporre un mix tra le due  modalità secondo i casi e i tempi, ma in Italia non si può:  chi decide?  Chi dà i posti, quanti e come? La pedagogia burocratica italiana non dà credito all’autonomia professionale, la creatività didattica, l’evoluzione stessa della persona. Da qui, guelfi e ghibellini.
La novità dello scontro, però,  sta nel fatto che alla prima scuola di pensiero appartengono  pedagogisti e  insegnanti, mentre la seconda  viene dalle associazioni delle famiglie, spesso (anche giustamente) arrabbiate per una certa cattiva integrazione. Affianca la seconda scuola un non ingenuo milieu accademico  potente e seduttivo, quello di una vasta area psicologica e clinica che io chiamo dei Big Psyco, vicini parenti di Big Pharma

La  storica alleanza tra pedagogisti inclusivi e famiglie sembra incrinarsi, anche con effetti personali dolorosi. 

Su altri aspetti di attualità, invece, le due scuole di pensiero convergono, ad esempio per  aumentare le competenze inclusive dei docenti curriculari, e per mettere in ordine il malfunzionamento della “macchina” (certificazioni, deroghe, organici, posti, integrazione dei servizi, ecc..), contro cui negli anni si sono rincorse  grida manzoniane ministeriali sul dover essere, rimaste quasi sempre pure chiacchiere.
Galleggiano sotto questo confronto, comunque serio,  quelli che pensano che nulla vada cambiato, se non aumentare i posti di sostegno e gli stipendi dei docenti, senza toccare carriere, anni nel sostegno, mobilità, formazione, ecc.. Una visione impiegatizia che qui cito  solo  per il suo diffuso chiasso.
Premetto che sono a favore delle tesi degli scolasticisti, perché più aperte ad un’idea inclusiva a forte connotato pedagogico-sociale. Ma non nego alcune  ragioni degli altri e cerco di comprenderne il senso. Lungi da me cercare una mediazione, ma vorrei provare a fare una riflessione almeno su alcune cautele comuni da osservare tutti.
In discussione non vi sono questioni sindacali, ma  il punto critico di un processo culturale  profondo  sull’idea attuale di normalità,  di specialità,  di inclusione,  di pedagogia.

Vediamo quindi gli elementi a favore e a sfavore delle due scuole di pensiero:

La scuola scolasticistica: pecca certamente di ottimismo verso gli insegnanti, e la sua pedagogia è parente dell’utopia. Infatti obbliga ad un ripensamento radicale del fare scuola ogni giorno e per tutti. Obbliga, ad esempio, ad una visione dell’umano come essere olistico nel suo far-si dinamico. E’ quindi una prospettiva affascinante ma difficile, anche se non impossibile,  che ha il coraggio di proporre  e di osare oltre.

La scuola specialistica, invece, si fonda sulle  giuste lamentele delle famiglie per il dilettantismo di un certo numero di docenti di sostegno e sui docenti curricolari portati alla delega. Da qui l’idea di un docente di sostengo più robusto. Ma questa proposta rischia di esaltare  una certa didattica speciale che può aumentare quell’ isolazione che ho già descritto in precedenti saggi,  in cui prima viene il sintomo da curare e poi la persona. Una visione che risente anche dell’epoca, meno sociale e più individualistica, e di una visione antropologica centrata sul sintomo e non sulla persona. Al centro  l’individuo-problema, appunto la teoria dei Big Psyco.

Capisco bene che a fronte dei dilettantismi educativi, le famiglie rincorrano proposte  terapeutiche para-didattiche alla ricerca del metodo salvifico, e non nego che alcune tecniche (non tutte) abbiano una certa efficacia, ma l’educazione composta da una sommatoria di tecniche terapeutico-didattiche non è un’educazione.
Davanti al balbettio  dei dilettanti, i Big Psyco sono nettamente  più professional ed efficienti,  tra loro e la pedagogia è difficile il dialogo, l’asimmetria si risolve o con  conflittualità  o con la  sottomissione al “metodo”.  
Eppure la necessità di una migliore didattica inclusiva si imporrebbe, perché non si può andare avanti col dilettantismo. Il tema è delicatissimo, va risolto con molto equilibrio scientifico ed etico, che ora mi pare difficile.  
Accompagna il dibattito non solo la dialettica culturale, ma anche scontri fantasiosi tipici di un’epoca  litigiosa.
A me è capitato di scontrarmi con un ispettore  guru à la gauche, che attaccava alcune idee di Dario Ianes, uno dei principali scolasticisti, sostenendo che dietro al superamento del sostegno ci fosse solo una mossa economica per ridurre i posti. Sull’onda di questi attacchi, un gruppo di docenti  ha raccolto firme per boicottare i libri di Ianes, con una bizzarra forma di intolleranza, per fortuna sciolta in poco tempo. Anche perché da Roma giungono  invece molti segnali non solo di  aumento dei posti di sostegno (v. ipotesi di Decreto applicativo  Legge 107 comma 181 voce c) ma anche di una loro fortificazione secondo la seconda scuola di pensiero, la specialistica.
Altri sindacalizzati urlano alla lesa maestà contro gli specialistici perché si vorrebbe obbligare i docenti di sostegno per 10 anni piuttosto che i 5 tradizionali (questione sacrosanta invece la continuità). Un’onda irosa di critiche  arriva agli specialistici non su aspetti pedagogici e culturali, ma per questioni di organico e di posti. Mah!

2.       Sugli insegnanti e sulla scuola inclusiva

Vi sono, per fortuna, due questioni sulle quali le due scuole di pensiero sembrano in generale concordare.

a.      La formazione comune. Le due scuole di pensiero condividono  l’idea che il tema “inclusione” sia base di formazione per tutti i docenti. Entrambe le scuole di pensiero propongono super-crediti accademici  per l’inclusione nella formazione iniziale. Non basterebbe questa per tentare una via  scolasticistica?  Ma su cosa si dovrebbero formare tutti? Conoscere la 104? Imparare una tecnica? Distinguere i sintomi? Essere collaborativi? Non è chiara ancora la natura epistemologica della formazione all’inclusione:  è considerata come strutturale a tutto il corso di laurea  o solo  parte aggiuntiva da sapere col cuore buono perché vogliamo insegnare a tutti?  La questione è dirimente, pena il brulicare di studi deludenti. La ma tesi è vecchia di anni: una cattiva inclusione deriva dall’idea dura di curricolo secondo gli epistemi disciplinari classici, per capirci far studiare Asor Rosa ad un futuro docente di lettere e non (anche) la zona prossimale di sviluppo di Vigotsky in relazione al linguaggio  e alla didattica.  Vigotsky va bene per le aree speciali o non è invece strutturale a un curricolo non separato in discipline e per tutti,  aperto alle connessioni, con  una visione costruttiva e non trasmissiva del sapere?

In questi lunghi anni di lavorio sui curricoli, Edgar Morin va bene per un convegno ma poi si torna al trivio e quadrivio, le competenze sono una  chek list moralistica di “dover essere”. L’attivismo è un relitto sepolto sotto muscolarità neo-cognitive, la scuola come luogo comunitario dell’apprendere libero è sostituita da tecniche per tutte le discipline, non solo quelle speciali. Se l’insegnamento quotidiano è monolineare, anche se si usa la LIM, qualsiasi argomento sull’inclusione è illusorio. Al centro dell’inclusione c’è invece  l’idea strutturale che essa sia la natura in sé dell’educare, perché gli umani sono grazie a Dio tra loro tutti eterogenei, non normali o speciali,  sani o malati, poveri o ricchi.  Solo una didattica attiva,  costruttiva e cooperativa, di per sè   transdisciplinare, darebbe forza ad una scuola per tutti, non una didattica “specialissima” isolazionista.
Va naturalmente bene la formazione obbligatoria in servizio, ma il tema rimane lo stesso: per farne cosa? Per migliorare la scuola da dentro o per saperne qualcosina di più di Pierino, magari insegnato dal guru della lobby  come tecnica salvifica necessaria,  da prendere chiavi in mano?
 

b.      Gli ordinamenti ordinati per ordine. Ho letto le bozze di un possibile Decreto applicativo del comma 181 della Legge 107. Qui le due scuole di pensiero sono d’accordo sulla necessità di registrare  meglio tutta la macchina dell’inclusione. Noto un tono impositivo giustificato su molte cose da fare, tra cui l’obbligo della continuità dei docenti e il dovere dell’integrazione tra servizi. Ma il punto è che questo testo rischia la solita   chiacchiera, la stessa che si fa tra di noi fin da metà degli anni 70. Come si fa a fare in modo che ciò che è previsto accada? Noto che non vi sono riferimenti a sanzioni, ma la solita litania dei premi e della valutazione “de sistema”. Noto con dispiacere  che questo paese continua ad assegnare la sanzione solo alla magistratura (lo jure) e non al professionale (il deos) capace di autogovernare i comportamenti dei professionisti.  Anche se vi sono organi deontologici (es.  medici)  oggi non pilastri dell’etica professionale, qualcosa si dovrà pur dire per svegliare  un sistema incapace di auto-sanarsi dalle patologie professionali interne.

 3.        Sul sostegno specialista

 

Non è un caso che vicino alla scuola specialistica si annidi la seduzione culturale  legata ai  Big Psyco,  e cioè l’esplosione di  ricerche e nuovi miti terapeutico-didattici tecnicistici che offrirebbero  soluzioni ai problemi cognitivi, relazionali, comunicativi. La visione dell’umano è sintomatologica e non olistica, la comunità viene dopo  la  “cura” dei sintomi  e solo con  la  “protezione” attraverso dispense e compense  imposte da modelli clinici e perfino da leggi. Riflettiamo, al proposito, anche sul fatto che il  fronte specialistico  è  composto non solo da normali genitori, ma da un ircocervo di associazioni e lobby cui fanno parte come soci alla pari  gli specialisti  Big Psyco,  centrati sul sintomo e l’evidence nomotetica, nemici della chiave ermeneutica-interpretativa, produttori di tecniche speciali,  cui  segue la fideistica giusta terapia con adepti e fans, cattedre accademiche, leggi ad hoc,  formazioni lineari: io ti insegno il mio metodo e così tu salvi il bambino.  Seduzione  del mito iper-scientista, dimentico della lezione di Khun sui paradigmi scientifici come ideologie. Invece lo sguardo pedagogico conosce bene la complessità, la dinamicità, l’originalità unica di ogni essere umano, l’umana imperfezione come valore,  ma  davanti alla terapia salvifica e alla pillola magica del mito salutista attuale non ha parole, non ha dialogo.

Ho  conosciuto bene Glenn Doman negli anni 70: si fa presto oggi a dire che era un millantatore per gli attuali Big Psyco (ma post-domaniani): era anche lui un seduttore!  Big Psyco e Big Pharma fanno parte entrambi di un  nuovo mercato della salute verso il quale il dibattito italiano è scarso. Ne ho parlato due anni fa con alcuni articoli sulla “Grande Malattia”, raccogliendo simpatie diffuse ma scarsi risultati, perché la Scienza e la Teknè del Super-Educatore in Camice bianco domina oggi sui ragionamenti ragionevoli dei limiti e i rischi dell’iper-scientismo.

A proposito del clima attuale, noto (e non mi sorprende) che la recente notizia sulla pericolosità della paroxetina, un antidepressivo dato a bambini e adolescenti,  pubblicata da poco dal British Medical Journal, non è stata ripresa  né dalla Società italiana di neuropsichiatria infantile  né da quella di pedagogia speciale. Una condanna legata alla scoperta di prove truccate da parte della Glaxo  e da verifiche indipendenti. I nostri che dicono? Niente.
E’ in quest’epoca che si insedia il tema dell’insegnante di sostegno specialista.  Ho già premesso che sono  favorevole alla scuola scolasticistica, ma comprendo la domanda di didattiche più serie, capisco il dolore di molte famiglie per l’incontro con  false inclusioni  dilettanti. Ma a quali guru affideremo la super-formazione?
Qui vengo al cuore culturale dell’attuale fase  della pedagogia speciale. Vedo il rischio di una lotta tra lobby non pedagogiche per addestrare migliaia di docenti alle “tecniche giuste”, cioè di medicalizzare da dentro il processo formativo con l’apologia della terapia  e  l’amnesia della persona olistica da educare. Vedo un rischio  grande a fronte di  iatrogenesi  pervasive e  nuovi mercati del dolore di cui ho già ampiamente trattato in altri saggi. Ho lì ripreso  tesi non solo di Ivan Illich ma anche di clinici attuali che considerano grave il proliferare di diagnosi e tecniche senza una visione ragionevole della normalità come processo relativo e non assoluto, e dell’eterogeneità come logos dell’umano,  contro le separazioni dicotomiche sano-malato, normale-speciale, ecc…
La seduzione della tecnica (la stessa di Big Farma) è  potente, parla “scientifico”. Noi del pedagogico, invece…... Alla faccia dello slogan recitato come  mantra da 20 anni “riprendiamoci la pedagogia”. Non basta dire che la formazione specialistica verrebbe fatta nelle facoltà pedagogiche, si deve  riflettere sulla loro qualità intrinseca, se tratteranno la pedagogia speciale come parte della normale o invece come pedagogia neo-ortofrenica. Saranno capaci di andare oltre la tecnica?  Questi sono i miei grandi dubbi sulla formazione universitaria super-specialista.

Prendiamo ad esempio il caso dell’autismo. Poichè in quel mondo domina oggi una pratica neo-comportamentista che ha anche una relativa efficacia, per quale ragione i sostegni specialisti dovrebbero perdere tempo con  diatribe universitarie quando sono già pronti i curricula americani dei vari autism teacher dei diversi metodi ABA o Teacch? Tanto vale affidare ad una lobby scientifica il monopolio dell’autismo e trattare la scuola come  semplice contenitore para-terapeutico e para-didattico meno costoso di un ospedale. Sarebbe il ritorno alla grande delle ragioni pedagogiche delle scuole speciali. Che cosa nel tempo vieterebbe questo?
Devo però precisare: non ho nulla contro il metodo neo-comportamentale, che è un possibile buon metodo di lavoro, va detto però che  non vi sono ancora riscontri degli effetti nel lungo periodo, e comunque questo metodo non può diventare una meta-pedagogia pervasiva dell’educazione, che è ben altra cosa.
Diffido da sempre dai meta-metodi, un Glenn Doman mi è bastato da giovane, e so che l’educazione è questione mai racchiudibile in un metodo, neppure nell’addestramento degli animali.

4.       I dilemmi della pedagogia difensiva 

Vorrei proporre un altro punto di vista, una riflessione sghemba rispetto a questo dibattito che rischia di fermarsi alla querelle super-sostegni sì/no, per evidenziare una questione sottostante per me chiave dei temi dell’inclusione, come l’idea di normalità, di salute, insomma l’idea antropologica di  persona nel presente.

C’è in giro una nuova antropologia che porta la scuola a vivere una situazione del tutto simile a quella del mondo clinico. Davanti allo sgorgare di nuovi miti salutistici  (non a caso succedanei dell’apologia dell’individualismo) e all’enorme (e caotico) sviluppo di scienze, para-scienze, tecnologie e saperi, davanti al cittadino che con Internet si fa un caotico mondo savant sulla cura  giusta, l’operatore sanitario e l’operatore sociale si trovano coinvolti in un accanimento da super-tutela del cittadino comune come ritorsione per presunti “errori” dell’operatore professionale, che porta a conflitti continui tra cittadini e professioni. E’ noto, ad esempio, come la medicina difensiva costi al paese miliardi di esami inutili fatti solo per tutelarsi da querele, come l’aumento esponenziale di cause di genitori contro le scuole per le più varie ragioni, dalle bocciature  alle ore di sostegno. La Legge 170, tra le altre, ha aumentato a dismisura questi attacchi da parte delle famiglie, e la scuola si trova oggi a doversi difendere sempre di più in cause difficili, in conflitti duri, con reti di tutela debolissime. Sia negli ospedali che nelle scuole parcheggiano avvocati allupati. Per la scuola costa anche il modificato modello genitoriale, che porta babbi e mamme a voler proteggere i figli contro ogni minima critica.  E’ in questa crisi di fiducia tra cittadini e professioni che la questione  disabilità, come quella dei BES, come quella delle bocciature trova la scuola  davanti al dilemma: “Che faccio? E’ meglio rivendicare la mia dignitosa professionalità o lasciar perdere e quindi subire qualsiasi critica, altrimenti devo trovarmi un avvocato?” Cosa pensano i presidi, spesso arrendevoli per non avere rogne? Si dice  spesso agli insegnanti “chi te lo fa fare?” Questo nuovo regime è alimentato anche da leggi, dal tradizionale parlar male dei professionisti pubblici (lavativi, ignoranti, ecc..), dal mito che “il cittadino ha sempre ragione”.

E’ dentro questo clima che la questione inclusione scolastica vive la sua stagione, non quella degli anni 70 della spinta  comunitaria al credere che “insieme è meglio”. No, il clima attuale dice:  “io voglio per me solo i diritti, degli altri non m’importa, anzi gli altri (es. i compagni di classe) sono un pericolo”. Quindi si chiede difesa non solo nella scuola ma anche dalla scuola. Il patto di fiducia adulto genitori-insegnanti è ai minimi, ne hanno colpa naturalmente anche i tanti o pochi docenti  e presidi incapaci, ma non  gran parte degli educatori, che sono esseri normali, con pregi e difetti, spesso con molto buon senso ma sempre più soli. Terribile epoca oggi insegnare.
E’ evidente che una pedagogia solo difensiva potrebbe trovare vantaggio nell’avere insegnanti super-specialisti, cui affidare il prius dell’integrazione, e quindi tutte le responsabilità ma anche tutte le rogne. La delega a questo punto diventerebbe metafisica, una perfetta foglia di fico di una finta inclusione e di una dura isolazione.
Ma il pedagogico deve capire di più il perché di questa neo-antropologia e gli effetti nell’educazione. Per questo mi scuso ma devo aggiungere un’altra pagina di riflessioni.

Parto dal libro di Allen Frances “Primo, non curare chi è normale, contro l’invenzione delle malattie” Bompiani 2013. Frances non è un Raf Iosa qualsiasi, è un importante psichiatra americano, capo del gruppo che ha prodotto il DSM IV, la bibbia diagnostica americana, di cui è amaramente pentito per l’abuso che si é fatto con la nascita di una bolla diagnostica fuori luogo. La sua critica al DSM V è ancora più dura: si inventano malattie fino al ridicolo. Avremo anche in Italia la sindrome da Disturbo da disregolazione distruttiva dell’umore (DDDU) cioè la trasformazione di semplici capricci infantili in disturbo mentale. O  peggio ancora l’Ansia e l’Umore depressi misti (AUDM) così avremo una “rassicurante” spiegazione psichiatrica dei nostri giorni no. Siamo cioè tutti matti.
Per Frances al cuore di questa tendenza alla medicalizzazione della vita umana c’è la filosofia dell’iper salute come descritta improvvidamente dall’OMS  “la salute è uno stato di perfetto benessere fisico, mentale e sociale e non solo l’assenza di malattie”. E’ proprio questo perfetto il busillis: significa spostare l’asticella della normalità molto in alto, ad esempio  nel momento dell’orgasmo, attorniato da champagne e ostriche,  dopo aver vinto la lotteria.

E’ il simbolo della modernità, che ha prodotto il salutismo, l’ansia delle malattie, l’aumento spaventoso delle spese sanitarie e sociali: essere perfetti! Naturalmente non è difficile capire che da questa perfezione deriva una facile proposizione di tante “malattie” (micro o macro che siano) da curare. Si prenda il caso della dislessia. Se ricordassimo la difettologia di Vigotsky potremmo averne una visione evolutiva da riscoprire in chiave didattico pedadogica,  sapendo che è un problema per cui ci vuole attenzione e non critica, cura dei particolari percettivi e cognitivi, a volte anche solo aspettare che il bambino cresca  con un po’ di saggia pazienza da parte dell’adulto, purchè sia accolto come un difetto accettabile, che è in natura, come i nei o gli occhi verdi. Ma se si cerca la perfezione hic et nunc  basta chiamare la dislessia  “disturbo” e diventa una nuova moderna malattia. Il disturbo viene  clinicizzato con scale gaussiane che ignorano le sfumature umane e che esiste nelle persone anche la resilienza. Si allarga così il panorama dei dolori, degli ambulatori, delle terapie. Si crea un’alleanza asimmetrica tra il clinico e la famiglia che ha un problema  indotto dalla modernità, si offrono  soluzioni tecnicistiche, si considera la scuola  ovviamente ostile e ignorante. Poco importa che si assista dopo  ad una svalutazione del sé, il continuo bisogno di cura e di attenuanti (le dispense le compense). Calano le attese: paradossalmente il bisogno indotto di cura e la valutazione del sé come “problema” abbassa (non innalza) i potenziali naturali di molte persone. Si legga  anche  Frank Furedi  nel “Il nuovo conformismo” (Feltrinelli) sull’abuso del counseling psicologico, o Marco Bobbio ne “Il malato immaginato” (Einaudi) sull’invenzioni delle malattie non solo nell’ambito psicologico. E infine si veda anche il libro dello statistico sanitario  Roberto Volpi “L’amara medicina” (Mondadori) che sfata il mito della prevenzione, vedendone i rischi di iatrogenesi. C’è una letteratura vastissima che pochi italiani leggono.

Allen Frances ci allarma sul fatto che l’autismo era negli anni 70 un caso su 1000 bambini, oggi è a un caso su 80, e ci mette in guardia  quando certe sindromi diventano “spettri” cioè contenitori diagnostici entro cui c’è di tutto.
E’ interessante la sua analisi sulle relazione tra esplosione di diagnosi di ADHD parallele alle campagne farmaceutiche a favore del Prozac, e altrettanto l’aumento di diagnosi di autismo con la diffusione di metodi comportamentali, non solo nell’autismo ma ad esempio anche nelle carceri e nella tossicodipendenza. Appunto Big Psyco e Big Pharma dilatatori di malattie perchè produttori di terapie, non l’inverso.

Torniamo alla questione dislessia e alla Legge 170. Io non nego affatto che la dislessia non  sia un problema, lo è in mille forme che i bambini possono avere, anche complesse, ma se oggi arriviamo al 6% di alunni certificati vuol dire che  c’è di tutto,  anche l’improprio. E’ stata la legge ad aumentare le certificazioni, non l’inverso.
Ma questo è il meno: la Legge 170 è proprio il perfetto esempio di come sia facile creare una pedagogia difensiva a fronte dell'attacco compulsivo delle famiglie ad ottenere dispense e compense.  La legge 170 oltre che dannosa è paradossale: dispensare o compensare un alunno non è un diritto astratto del bambino DSA, è invece un dovere dato agli insegnanti in virtù degli art.  4,5,6 del Regolamento autonomia, oggi con la Legge 107 ancora più esaltati. Cioè dispensa e compensa sono strategie didattiche flessibili date agli insegnanti per tutti gli alunni, non solo per i DSA. Per questo è grave la questione dei BES, cui si “concede” l’uso della dispensa e compensa, dimenticando che da sempre (e senza certificazioni) è un dovere di un sano docente senza paturnie cliniche quando in un alunno qualcosa non va. Ma il tormentone della dispensa-compensa crea una continua conflittualità tra insegnanti e genitori, e l’emergere di una pedagogia difensiva sempre più triste. Gli insegnanti di buon senso si accorgono degli eccessi, vedono a volte ragazzi infastiditi dall’eccesso di cure genitoriali, vorrebbero creare un rapporto di “amorevole severità” senza assistenzialismo (alla Makarenko) verso il ragazzo perché è un ragazzo prima che un dislessico, ma grava sul docente la spada di Damocle della Legge, del PDP, degli avvocati. Quindi subiscono la spinta dei genitori verso un  “meglio un po’ malato che bocciato”, che è la fine di ogni ottimismo pedagogico.

Vedo al proposito che la bozza di D.lvo continua a considerare BES ancora i ragazzi affetti da “situazioni sociali e culturali deprivate, ecc..”. Si continua cioè a vederli  con stigmi   assistenziali, magari ragazzi resilienti e capaci di superare i guai della vita molto di più dei nostri grassi e viziati figli. A nome dei poveri del mondo mi ribello a questo pietismo, che mantiene i poveri in debito con la “bontà” di una legge sbagliata  che “concede” di fare meno e non considera invece il diritto di auto-realizzazione accettando la fatica e la sofferenza come “normali”.

Per tutte queste ragioni, pur comprendendo le difficoltà che gli specialistici fanno emergere, credo che una laurea speciale per il sostegno, così come intravedo la forma, aggraverebbe e non migliorerebbe l’inclusione scolastica  di tutti, confermerebbe la deriva iatrogena e lo spostamento della scuola da luogo di educazione a sanatorio.
D’altra parte, anche la scuola di pensiero specialistica in fondo sa da pedagogia difensiva: davanti all’ incapacità di una scuola non comunitaria e inospitale, piuttosto che volerla cambiare mi difendo con soluzioni individuali di trattamento che allevino almeno la mia angoscia di fallimento. Capisco, ma io sognerei ancora un po’ altro.
So che gli scolasticisti sono troppo avanti e troppo pochi, e che quindi (con mio dispiacere) perderanno buona parte della sfida, ma spero che almeno vi sia ragionevolezza sul modo di realizzare qualsiasi intervento inclusivo.
Per me ogni intervento inclusivo deve partire dall’accettazione dell’imperfezione come magnifico modello umano naturale (e perfino gioioso) in cui l’accettazione del sé viene prima di qualsiasi diagnosi di qualsiasi guru.

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