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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(21.12.2015)

Banditi dall'Amministrazione
di Franco De Anna

 

Un esimio collega lombardo ( l’ispettore Maviglia) scrive un significativo pezzo sottolineando il massiccio ricorso a “bandi” che il MIUR emana per le scuole chiamate a presentare, per il relativo finanziamento; progetti di diverso tipo, argomento, natura.

In genere i progetti devono essere redatti in format prestabiliti dalla amministrazione “committente”, rispettare alcune indicazioni, per la verità spesso di “maglia larga” e sono sottoposti alla valutazione/approvazione di apposite commissioni costituite in genere presso gli uffici scolastici regionali (ciò non vale per tutti i progetti, ma in genere il MIUR compie la prima suddivisione dei finanziamenti, su base puramente statistica/territoriale, assegnandoli agli uffici periferici).
Naturalmente come ogni bando che si rispetti vi sono scadenze di presentazione, garanzie di firme, impegni alla rendicontazione. Insomma, almeno formalmente l’intera procedura con la quale la Pubblica Amministrazione si fa “committente” per ottenere beni o servizi.
Avevo già interloquito con il collega condividendone le osservazioni e, per la verità, caricando il mio commento di qualche durezza ulteriore: una procedura, astrattamente e formalmente ineccepibile, per “produrre” attività e servizi che sarebbero in realtà “fisiologicamente” legati alla attività di istruzione che a sua volta è la mission fondamentale sia dei “concorrenti al bando” sia del “banditore” (il MIUR).
In altre parole uno “scarico” di responsabilità da parte dell’amministrazione nel regolare/finanziare prestazioni essenziali, e una “molestia amministrativa” nei confronti delle scuole costrette a “concorrere” predisponendo schede, format standardizzati, spesso simulacri di progetto. Ma la regolarità della procedura amministrativa è salva. Non produciamo servizi al cittadino e ai suoi diritti, ma “atti amministrativi” ben conformati.

Sarebbe finita lì la polemica (non nuova per me…) sul primato del paradigma amministrativo rispetto a quello “produttivo” se non mi fossi imbattuto in un paio di “bandi” recenti che considero da un certo punto di vista esilaranti e da un altro esemplari.

Il primo è stato emesso per essere attuato su base regionale, per distribuire un finanziamento alle scuole impegnate, come da protocollo del Sistema Nazionale di Valutazione, nella fase del Miglioramento.
Ho già scritto più volte del rischio di una impropria inversione di logica e di rapporto tra valutazione e miglioramento, della quale occorre, scontando pure le sperimentalità della “prima volta”, tenere conto con attenzione clinica e critica per eventuali verifiche o correzioni future del protocollo valutativo (per tutti vedi F. De Anna “Valutazione e miglioramento: il rischio anestetico” in
http://www.pavonerisorse.it/buonascuola/autovalutazione/valutazione_miglioramento.htm )

Ma nel caso del bando in questione siamo al paradosso: si fa un bando per finanziare il “progetto migliore di miglioramento” A parte il gioco di parole: se una caratteristica deve avere un progetto di miglioramento ha da essere quella del radicamento profondo con la struttura e la cultura della organizzazione che lo decide e lo mette in opera. Un progetto “buono” per una organizzazione potrebbe essere assolutamente improprio per un’altra che pura abbia il medesimo problema…Come fare per giudicare il “miglior miglioramento” e discriminare tra i diversi progetti “concorrenti?
Il secondo esempio è un bando che gli USR son chiamati a lanciare per individuare una “scuola polo” che gestisca organizzativamente e contabilmente le attività di formazione per Dirigenti Scolastici e Nuclei di valutazione interna alle scuole sulla filosofia e sugli impegni e sviluppi del Sistema Nazionale di Valutazione. La cosa più notevole è che la direttiva del MIUR è accompagnata da un modello di intervento di formazione nel quale tutto è predeterminato da Viale Trastevere: durata dell’evento, titoli delle relazioni e loro lunghezza, nomi dei relatori, target di riferimento…
I due esempi precedenti sono sufficienti, insieme alle osservazioni del collega Maviglia, per evidenziare alcune fondamentali ragioni per cogliere gli elementi critici di questa che sta diventando ”procedura normale” della Amministrazione scolastica e che pervade le scuole di adempimenti formali fino al limite della molestia, per accedere a finanziamenti necessari spesso ad attività che una concezione adeguata e pertinente della autonomia scolastica dovrebbe ritenere “istituzionale”. In sintesi

1.      Si usa la procedura formale del “bando”, con l’Amministrazione che si fa committente, e con tutti i formalismi connessi (gara pubblica, presentazione progetti, commissione valutatrice, graduatorie  e scelte), spesso per importi di finanziamento di dimensione assai esigua.
Possibile che non vi sia la capacità/possibilità per la Pubblica Amministrazione, di distinguere gli impegni formali necessari per entità delle commesse, loro tasso di “composizione tecnica”? E’ la medesima cosa dare un incarico di relatore ad un docente o Dirigente Scolastico per un corso di formazione (poche decine di euro..), o l’incarico di curatore fallimentare ad un magistrato, per centinaia di migliaia di euro?

2.      Molte delle attività “bandite”, se analizzate con uno sguardo che abbia dell’istruzione e della formazione una visione complessa ed articolata e della autonomia delle Istituzioni scolastiche (organizzativa, finanziaria, didattica, di ricerca e sviluppo, come recita il Regolamento relativo) una concezione coerente alla norma stessa, dovrebbero essere considerate “istituzionali”.
Nel senso che dovrebbero corrispondere non a “progetti aggiuntivi” ma a “prestazioni essenziali” di un servizio che deve rendere concretamente esercitabile un diritto di cittadinanza come è l’istruzione. Non “bandi” dunque ma attività “normale”

3.      Anche rimanendo entro la logica del bando e della “commessa”, la stessa Amministrazione con quali competenze tecnico-scientifiche affronta l’analisi dei progetti, ne valuta le congruenze, ne ipotizza le prospettive di realizzazione, li discrimina costruendo graduatorie e differenziando finanziamenti?
Nella organizzazione degli Uffici periferici del MIUR, dove si concentrano e manifestano tali competenze tecnico scientifiche, che dovrebbero per altro spaziare dalla musica alla didattica digitale, passando per il recupero e l’integrazione della disabilità?

Il pensiero molesto è però quello che non possiamo accontentarci di registrare una fenomenologia crescente di utilizzazione di tale strumentazione senza chiederci se ad essa non corrisponda non tanto (o non solo) una “deriva pratica” che scarica incombenze gestionali dal centro alla periferia, in una catena di ridistribuzione e frammentazione delle responsabilità, quanto una vera e propria “mutazione” dei compiti e delle responsabilità della Amministrazione.
La questione è assai complessa: ha un riferimento di fondo nella problematica critica che investe natura e caratteri della “ produzione” pubblica di beni e servizi per la cittadinanza nella fase storica dell’esaurirsi del modello storico del welfare state sviluppatosi nella seconda metà del secolo scorso; ha un riferimento più contingente ed immediato nei caratteri permanentemente critici dell’assetto e della Pubblica Amministrazione nel nostro Paese e della storia mai conclusa della sua pluri invocata riforma.
E, infine, un riferimento ancora più determinato nei caratteri specifici di quel segmento di Pubblica Amministrazione che è il MIUR che, si badi, è il maggior aggregato di pubblico impiego per numero di dipendenti, il servizio pubblico di maggiore rilevanza che investe la vita dell’universo delle generazioni, che corrisponde ad uno dei diritti fondamentali di cittadinanza a fruizione universale, ma, proprio per ciò, non può che avere specificità di carattere organizzativo e gestionale, e non meccaniche assimilazioni ad altri segmenti della Pubblica Amministrazione.
La riflessione che propongo utilizza come emblematico richiamo (lasciando al lettore la riflessione determinata) tre modelli di organizzazione e produzione di beni e servizi pubblici, scusandomi delle semplificazioni.
Il primo e più sperimentato storicamente è lo “stato produttore”. L’offerta pubblica alla domanda di beni e servizi per la cittadinanza è prodotta dallo Stato attraverso apparati che da esso dipendono direttamente, o che sono emanazioni della sua stessa organizzazione amministrativa.
E’ il paradigma più antico, legato ad uno Stato in cui prevalgono le funzioni autoritative e limitato è sia il numero di servizi alla cittadinanza, sia il numero di cittadini che ne possono usufruire. Naturalmente a caratterizzare le diverse esperienze storiche nei diversi paesi sono le forme e gli statuti degli “apparati pubblici” che concretamente “producono” i beni e servizi in questione (Nei Paesi anglosassoni, per esempio non esiste un Diritto Amministrativo p.d.).
Nel nostro Paese è storicamente presente (ma gli effetti sono presenti tuttora) una contraddizione di fondo le cui polarità sono le seguenti.
Da un lato la “produzione pubblica” viene assimilata entro i paradigmi della Pubblica Amministrazione in senso stretto, con una estensione impropria del suo “manuale operativo “ (in senso weberiano), ordinato secondo il diritto Amministrativo e il suo formalismo.
Dall’altro, quando l’intervento pubblico si amplia quantitativamente sia per servizi offerti, sia per utenti coinvolti, alla insufficienza produttiva del “manuale operativo” si pone (si pose) rimedio attraverso la moltiplicazione di soggetti pubblici (in genere nella forma di “Ente Pubblico”, quindi comunque soggiacenti ai paradigmi della PA). E’ il processo storico che portò nel nostro Paese a quella che fu chiamata la “jungla degli enti”, assolutamente fuori controllo, sia dal punto di vista gestionale che della spesa pubblica.
Il processo di bonifica è tutt’ora in corso, ma certo non esaurito (e la storia contraddittoria della “spending review” è esemplare e in parte legata anche a questo aspetto). Ma, a proposito di permanenze storiche, si pensi che mentre si procedeva allo sfoltimento degli Enti Pubblici (Legge 59/97 e impegni seguenti), se ne crearono 10 mila nuovi configurando come Enti Pubblici le Istituzioni scolastiche.
Se si guarda oltre l’orizzonte nazionale, si può affermare che il modello dello “stato producer” sia stato messo drasticamente in discussione dalla “crisi fiscale” dello Stato, a partire dalla fine degli anni ’70.
Quanto a dire la contraddizione radicale tra i costi di quel modello, legati sia alla sua relativa inefficienza (grandi apparati, manuale operativo standard versus progressiva qualificazione della domanda di  servizi pubblici) sia alla “universalità” dei servizi offerti, legati alla eguaglianza di diritti di cittadinanza, e al contrario, la disuguaglianza dei redditi  non colmata dalla ridistribuzione fiscale.
Sulla base di tale contraddizione si andò affermando un diverso modello: non più lo stato producer, ma lo “stato provider”. (Uso terminologia cara a quella scuola di pensiero, certo non univoca ed uniforme nelle sue espressioni e proposte, che venne chiamata “New Public Management”).
 

Schematicamente: la funzione dello Stato p.d. si concentra nella definizione “regolatoria” dei contenuti (quantità e qualità) dei servizi pubblici alla cittadinanza. Dunque si finalizza a servizi di garanzia di qualità e di valutazione della pertinenza e congruenza dei servizi prodotti, sia sotto il profilo della qualità effettiva, sia sotto il profilo dei costi ad essa rapportati.
La produzione effettiva è invece affidata ad una pluralità di produttori dotati di gradi diversi di autonomia operativa. Il processo ha assunto configurazioni diverse nelle diverse realtà nazionali condizionato dalle differenti tradizioni di organizzazione della “macchina pubblica”. Ma in generale è stato accompagnato da processi di decentramento amministrativo anche in Paesi (come la Francia) caratterizzati da uno storico (ed efficiente..) centralismo.
La scommessa di fondo è quella che tra il “provider” e il “produttore” si consolidi un rapporto “virtuoso”: da un lato un sistema di definizione di quantità e qualità dei servizi pubblici, un sistema di valutazione dei risultati, e una coerente organizzazione  di “servizi” alla qualità che accompagna il ruolo del “finanziatore” pubblico; dall’altro la pluralità dei produttori “finali” dei servizi che operano in rapporto diretto con la cittadinanza e che sono responsabili autonomi della composizione ottimale delle risorse per ottenere i risultati previsti e valutati. E’ direttamente nel loro interesse e nella loro “padronanza” realizzare la composizione più efficace dei costi e delle risorse, poiché i margini di efficienza ed efficacia realizzati rimangono a loro disposizione come risorse per incrementare ulteriormente la qualità dei servizi (investimenti) e dunque migliorare il rapporto con “gli utenti” ma anche “premiare” il miglior lavoro realizzato.
E’ evidente che in tale modello si prevede una “riconversione” radicale dei tradizionali apparati centrali della Pubblica Amministrazione: dal formalismo  del Diritto Amministrativo, alla assunzione di “regole economiche” di “efficacia, efficienza, produttività”; da “catene di comando” attraverso le quali filtrare le regole del “manuale operativo” alla costruzione di un sistema di allocazione delle risorse vincolato alla definizione qualiquantitativa dei servizi pubblici; dall’algoritmo esecutivo dal centro alla periferia, alla autonomia e responsabilità dei produttori; dalla “autorità centrale” alla costruzione di attività di “service” come la promozione di qualità, la consulenza progettuale, la valutazione, la ricerca “di sistema” (tecnologie, costi, modelli di gestione, ricerca valutativa..).
Aggiungo solo che nella realizzazione di tale “modello pubblico” è essenziale mettere a punto un sistema di determinazione e controllo dei costi (livelli essenziali di prestazione, costi standard, rapporto costi/qualità, benchmark..) e un sistema comune di definizione di qualità e di valutazione di sistema. Il rapporto tra “finanziatore pubblico” e “produttore pubblico” diventa effettivamente “virtuoso” solo se quel sistema (costi, qualità, valutazione, ricerca) funziona effettivamente e rappresenta il vero “primato della dimensione pubblica”.

Infine c’è un  terzo e derivato modello di funzione pubblica che è lo “Stato committente”. Lo Stato  che appalta servizi per la cittadinanza affidandoli a chi a chi li sappia organizzare ed ai costi determinati dall’appalto e dalle sue regole (fondamentale il ribasso…).
In quel modello pur senza sciogliere l’impegno fondamentale dell’appaltante a determinare le caratteristiche del prodotto richiesto, il carico fondamentale della “valutazione” è affidato alla “customer satisfaction”. La selezione del servizio, della sua qualità e corrispondenza alla domanda pubblica è affidato al “successo” ed alla preferenza accordata dagli utenti stessi.
Anche tale modello può avere molte e differenti versioni. Per esempio caratterizza alcuni sistemi di welfare di tipo “assicurativo” o che distribuiscono “previdenze” economiche ai cittadini lasciando a loro la scelta di come e con quale offerta confrontarsi.
Ricordo che tale modello fu, qualche anno fa, proposto da un sottosegretario all’Istruzione (oggi Assessore Regionale della Lombardia), probabilmente tramite qualche ghost writer del suo staff. Non metterebbe conto tornare a tale memoria (ne feci un articolo dal titolo emblematico “Lo Stato secondo Valentina” credo che non ostante il tempo trascorso sia ancora rintracciabile in rete) perché entro tale modello trova collocazione, per esempio, la logica del “vaucher” alle famiglie, “libere” poi di iscrivere i figli alla scuola che desiderano…
Vorrei solo aggiungere che rispetto a tali “modelli” occorre esercitare una analisi critica approfondita sia perché i “modelli” sono, per definizione, descrizioni semplificate della realtà escludendone alcune variabili, sia perché si tratta di modellizzazioni “storiche” che dunque risentono della dinamica stessa della storia.
Il “primato della dimensione pubblica” infatti, non è “categoria ontologica” ma il “risultato concreto” di una forma di organizzazione  e produzione di servizi pubblici che tale primato si conquista sul campo..
Mentre capisco perciò la semplificazione di alcune categorie della polemica politica, come per esempio l’accusa di “privatizzazione”, non posso che rimarcare come l’efficacia contestativa di essa non vada oltre il livello della protesta. Si può essere statalisti e privatisti contemporaneamente. Ricordo che la Thatcher, pur di smontare il rapporto tra la scuola e le autorità locali, tipico del sistema britannico, diede un finanziamento statale alle scuole che si impegnavano nell’adottare il curricolo nazionale…(lei, privatista, fece una scelta stratalista..)
Ma anche la casistica dalla quale siamo partiti (il “bandismo” recente del MIUR) muove proprio dalla una forma di “detenzione” centrale del finanziamento alle scuole, che viene “liberata” attraverso la strumentazione della “committenza” ministeriale. Una forma di “centralismo”.

Naturalmente non so se la fenomenologia dalla cui analisi siamo partiti corrisponda ad una vera e propria strategia di rimodellizzazione della offerta pubblica di beni servizi, più o meno impropriamente trasferita anche sul piano della offerta di istruzione che corrisponde ad un diritto fondamentale di cittadinanza.
Posso solamente osservare che la stagione di impegno politico e amministrativo nel realizzare nel nostro Paese un modello assimilabile allo “Stato provider” ha investito con qualche risultato apprezzabile per esempio il sistema sanitario nazionale, anche attraverso il suo affidamento alle Regioni. Ha investito il sistema di Istruzione attraverso l’autonomia delle istituzioni scolastiche.
Ma quest’ultimo processo ha lasciato inalterato il ruolo “gravitazionale” del Ministero, e in questo quindicennio ha visto in opera processi di “restaurazione” della funzione della catena di comando del MIUR (con buona pace di chi denuncia privatizzazioni..).
Basterebbe una analisi puntuale della struttura del Bilancio del Ministero e, pur nella progressiva penuria delle risorse complessive, verificare quante vanno ad alimentare i trasferimenti diretti e “budgetari” ai “produttori finali” del servizio alla cittadinanza (le scuole autonome) e quanti sono trattenuti nelle diverse Direzioni Generali di Viale Trastevere, anche in nome di scelte politiche selettive (i “progetti”). E questi ultimi arrivano a destinazione, appunto, tramite “committenza” specifica.
La distinzione può essere anche molto sottile: una amministrazione “provider” esprime linee guida, scelte chiare di politica pubblica. Le risorse economiche “proprie” vanno in investimenti in attività di “services”, sistemi di qualità comune, valutazione. A monte sta una definizione dei livelli essenziali di prestazione permanentemente aggiornati alla luce dei progressi tecnico scientifici. Tutto il resto delle risorse va, e  prima di tutto, ai produttori diretti e in forma budgetaria. Ne daranno conto in termini di rispetto delle prestazioni essenziali di sistema (i diritti di cittadinanza) e dei risultati raggiunti (Valutazione).

Naturalmente potrebbe anche non esserci una consapevole rimodellizzazione dell’operare pubblico, alle spalle della fenomenologia del “bandismo”
Se nella struttura del Ministero centrale il ruolo di “potere effettivo” si riconosce anche nella dimensione delle risorse  direttamente gestite da ciascuna Direzione Generale, si contratta tale “primato” in fase di strutturazione e composizione del Bilancio del Ministero; poi, all’avvicinarsi dei termini della chiusura della gestione, si deve operare in fretta per allocare le risorse che altrimenti residuano… e allora i “bandi fioriscono”…
Può darsi naturalmente che la fenomenologia che ci affligge sia un mix di entrambe le cose…
Facciamoci coraggio…

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