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LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(22.06.2016)

L’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’ornitorinco
di Franco De Anna

L’ornitorinco

L’identità problematica, contraddittoria, plurima e sovrapposta (l’ornitorinco, appunto) della autonomia scolastica è stato il motivo conduttore (certo non “lieto”) di questi quasi vent’anni di storia della politica scolastica nazionale. Se volessimo semplificare la descrizione di tale ambiguità potremmo incentrarla su due “sguardi” in contraddizione

1.      Le scuole autonome come “filiali” del Ministero dell’Istruzione, accumunate dalla medesima “ragione sociale” ma dotate di margini di autonomia gestionale e operativa, entro il quadro delle politiche generali della casa madre (come le filiali delle Poste o anche di certe banche di livello nazionale). Dunque come anelli (più o meno “laschi” ma comunque terminali) di una catena di comando, di un algoritmo amministrativo che presiede alla gestione di un “sistema nazionale”

2.      Le scuole autonome come soggetti pubblici con la responsabilità “finale” di “produzione” di un servizio pubblico ad un diritto di cittadinanza come quello dell’istruzione, collocate operativamente in rapporto con comunità locali/territoriali, e dunque in riferimento sia diretto con i cittadini, sia con i presidii della organizzazione politico-amministrativa del territorio (sistema delle autonomie, organizzazione di altri servizi pubblici connessi).
In questa veste, dunque, afferenti ai valori della sussidiarietà, della responsabilità diretta nella gestione (programmazione, integrazione, efficienza, efficacia, appropriatezza) delle risorse pubbliche e della rendicontazione del loro uso nei confronti della comunità locale.

La “dialettica materiale” sviluppata a partire da tale contraddizione è stata segnata, in questi anni, da avanzamenti ed arretramenti delle due concezioni, trasferite nella politica pubblica dell’istruzione (con un progressivo riguadagnar terreno della prima, dopo la cesura della fine anni ’90 con il Regolamento dell’autonomia), e con sovrapposizioni e intersecazioni di diverso segno.
Sempre per semplificare: la seconda interpretazione (le scuole autonome responsabili come “produttori finali”) ha consentito in certi frangenti una “via di uscita” alle insufficienze della politica di sistema (prima interpretazione), scaricando sulle scuole tali insufficienze (vedi per esempio la politica delle risorse economiche). E d’altro canto “l’algoritmo amministrativo” della catena di comando insediata in Viale Trastevere e nutrita dalla “bibbia” del Diritto Amministrativo ha alimentato la permanenza di un sistema di “protezione e sicurezza” anche semplicemente attenuando l’impegno di rendicontazione del “produttore finale” rispetto ai cittadini portatori dei diritti (basti pensare alla gestione del personale o alle rigidità “protetta” dei formalismi organizzativi).
Trascuro qui (ma è stato oggetto di tanti altri miei contributi anche su queste pagine) ogni accenno a processi “isomorfi” che hanno animato la politica nazionale, sempre mettendo in questione il rapporto tra scelte di politica pubblica e assetti dello Stato e della Pubblica Amministrazione: la stagione del “cosiddetto federalismo” (ahimè), dei ripetuti interventi sulla organizzazione della Pubblica Amministrazione, delle “riforme epocali”… Oggi al dunque (ma è un dunque provvisorio per chi sappia guardare alla storia e non solo alle sue “simpatie” politiche) con la “riforma della Costituzione”.

Ma è indubbio che ogni ipotesi “riformatrice della scuola” (e non solo..) non può che misurarsi con la dialettica che caratterizza la fase “realizzativa”; nulla favorisce la pressione selettiva da cui scaturiscono gli ornitorinchi, quanto l’affidare la realizzazione delle riforme (o sedicenti…) a chi le “reinterpreta” entro il proprio “primato riproduttivo”.
I difetti della Legge 107/2015 sono tanti ed inutile ricordarli; ma una sua affermazione di principio, cui sono particolarmente sensibile, come quella di voler valorizzare l’autonomia delle scuole andrebbe verificata nella materialità delle sue realizzazioni, proprio entro la “griglia” costituita dal “paradigma” dell’ornitorinco.

Ambiti e reti di scuole

Una lunga premessa per indicare uno (il più recente) dei banchi di prova che si offrono a chi voglia “davvero” interpretare lo sviluppo dell’autonomia scolastica. Come è noto la Legge 107/2015 prevede (comma 66 e seguenti) l’articolazione del territorio regionale in ambiti di dimensione sub provinciale e di città metropolitana “quale fattore determinante per raccogliere e incontrare le esigenze delle scuole che ne fanno parte, per la più efficiente distribuzione delle risorse…”  (Cito testualmente dal modello di accordo di rete di ambito proposto dal MIUR nelle “Linee guida per la formazione di reti di scuole” Nota n.2151 del 7 Giugno 2016 del MIUR Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione).
L’ipotesi ha una illustre premessa nella Legge di riforma delle Province (Legge 56 dell’aprile 2014) che afferma “… le Pubbliche Amministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di esercizio delle funzioni non obbligatoriamente corrispondenti al livello provinciale o della città metropolitana… La riorganizzazione avviene secondo piani adottati dalle pubbliche amministrazioni entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge… I piani sono comunicati al Ministero dell’Interno per il coordinamento della logistica sul territorio, al commissario per la spesa ed alle Commissioni parlamentari competenti…. I piani indicano i risparmi attesi… nel successivo triennio…”.
Stando alla norma, entro Ottobre 2014 i piani di riorganizzazione territoriale delle pubbliche amministrazioni avrebbero dovuto essere formulati e valutati sia sotto il profilo dei miglioramenti di efficienza di erogazione dei rispettivi servizi, sia sotto il profilo dei risparmi di spesa connessi.
Non vi è per ora traccia evidente di assolvimento di tale impegno da parte di molte amministrazioni compresa quella scolastica che ha, lo si ricordi sempre, un peso specifico di primo piano nella consistenza della macchina pubblica, sia per personale che per risorse. (La catena di comando da Viale Trastevere ai Provveditorati è sostanzialmente in piedi, sia pure zoppicante per organici e con cambiamenti di nome…Non ho bisogno di ricordare che le architetture formali  di certi uffici sono le medesime, o sempre in “medesima transizione”, per regioni come la Lombardia o per il Molise, fuori da ogni sensata interpretazione di “economie di scala”)
Se si legge la proposta relativa agli ambiti territoriali per la scuola entro il quadro più complesso della riforma della architettura territoriale di tutte le Amministrazioni Pubbliche, dovremmo essere consapevoli che, anche al di là dei limiti o dei difetti di qualche circolare o nota ministeriale, si tratterebbe di un appuntamento politico-istituzionale di primaria importanza. Certo coinvolgente questioni “calde” di interessi immediati (gestione della mobilità del personale, in fall out della operazione precariato..), ma di portata prospettica assai più ampia e di più ampia scadenza temporale. (vedi intervento di Stefano Stefanel).

Un poco di memoria e storia


Non è inutile ricordare, per comprendere la effettiva potenziale portata dell’operazione, che l’esigenza di destrutturare e ristrutturare l’architettura territoriale del sistema di istruzione è antica: si alimentò, nei primi anni ’70 in connessione alla creazione (attesa di 25 anni dalla Costituzione) delle Regioni e dalla quasi parallela revisione degli organismi di governo della scuola (Organi Collegiali).
In quegli anni tale esigenza si concentrò esemplarmente nella creazione dei “distretti scolastici” con l’ambizione di configurare ambiti di programmazione territoriale del servizio scolastico in dimensione sub provinciale e con la leva della partecipazione sia dei cittadini sia dei soggetti della politica territoriale.
Le Regioni più attente (penso alla mia di allora: la Lombardia) procedettero al ridisegno di “ambiti territoriali” della scuola, coinvolgendo anche la ricerca delle Università (Architettura, Politecnico di Milano, ricerche di pianificazione del territorio) nella ipotesi di definire “bacini ottimali” che tenessero conto di plurime variabili: dalla distribuzione della popolazione scolastica, ai bacini di trasporto locale, al dimensionamento di servizi collegati (assistenza, sanità..), alle previsioni di flussi di popolazione. Allora negli uffici studi della Regione Lombardia, già qualcuno parlava di “Bilanci Sociali di Area”.
Come sia finita quella stagione sappiamo (per esempio i Distretti andarono via via scomparendo anche se, credo, nessuno li abolì formalmente… in Italia succede..). Le cause son molte e non è il caso qui di riprenderle analiticamente, perché si va da una radicale difformità di interpretazione dei ruoli e delle responsabilità delle autonomie locali (basterebbe, come lente di ingrandimento,  confrontare tra loro le diverse Regioni a Statuto speciale per evidenziare le responsabilità delle classi dirigenti locali); alle resistenze della catena di comando del “sistema nazionale” di istruzione (si ricordi che in quella stagione di grande impegno nella programmazione territoriale mancava però l’ingrediente fondamentale della autonomia delle istituzioni scolastiche, che arrivò oltre vent’anni dopo e in diverso contesto); alla permanenza del monopolio di padronanza ministeriale della risorsa fondamentale del sistema di istruzione (il personale…elemento di irresolutezza radicale nei lavori della Conferenza Unificata lungo tutti questi anni..); alle contraddizioni profonde e laceranti della politica nazionale.
Ma qualche cosa andrebbe pure imparato: per esempio che la destrutturazione/ristrutturazione territoriale di un servizio come l’istruzione che coinvolge la totalità delle generazioni in fasce di età, che è distribuito “orizzontalmente” sul territorio, che è intimamente legato a “specificità” locali di culture, tradizioni, addirittura “linguistiche” (il nostro non è un paese di “grandi città” ma di “tante città”), che dovrebbe tenere conto di una integrazione sensata di sistema di servizi (dai trasporti alla assistenza alla sanità) è cosa che non può essere risolta da una “determinazione” di un Direttore Regionale del MIUR… Rispetto a quel passato, oggi vi è l’ingrediente mancante: l’autonomia scolastica.

La corta veduta

Comprendo che, nel dibattito culturale e politico sulla scuola e nella stessa sensibilità del “popolo” della scuola e delle sue organizzazioni (sindacali e associative) il problema “ambiti” sia stato affrontato prevalentemente guardando alle istanze relative alla politica degli organici e del personale (precari, nomine, contratti, mobilità..).
Ma se il problema è quello dichiarato nella stessa 107 (valorizzare l’autonomia delle scuole e ri territorializzare i servizi del sistema di istruzione..) all’intera operazione andrebbe riconosciuta una portata sociale ed istituzionale di grande rilevanza.
Clemenceau, facendo occhiolino a Von Klausevitz, diceva che la guerra è cosa troppo seria per lasciarla ai generali… ebbene la questione del disegnare l’architettura territoriale dell’istruzione è cosa troppo seria ed importante per lasciarla al Ministero e ai suoi uffici.
Il richiamo è rivolto soprattutto ai soggetti che interpretano (o ne hanno l’ambizione..) la rappresentazione collettiva delle problematiche dell’istruzione sia in termini politici, che sociali (Sindacati) che culturali (associazionismo). Mi pare invece che non si discostino da letture contingenti e da interessi immediati.
A un anno dalla Legge 107 temo che poco o nulla sia stato fatto per dare supporto tecnico/scientifico/politico coinvolgendo ricerca sociale e demografica, ricerca educativa e di “economie di scala” per la qualità dei servizi, ad una scelta “realizzativa” di un impegno “riformatore” (o sedicente tale).
Si rischia così di produrre un processo attuativo non solo “sotto tono” (ridotto ad adempimenti che le scuole sentono come ulteriore impegno in un momento già denso di appuntamenti. Vedi proteste quasi unicamente indirizzate a tali considerazioni) ma anche denso di equivoci: per tornare alla metafora iniziale, si rischia di riprodurre l’ornitorinco.
Il vuoto lasciato dalla “veduta corta” è sempre riempito – le noiose ripetizioni della storia – da più meno giudiziose compilazioni del “manuale operativo” di qualche ufficio amministrativo che trasforma quelle che dovrebbero essere scelte strategiche in “adempimenti”.
Per essere più espliciti: se la realizzazione di un disegno di destrutturazione/ristrutturazione territoriale dell’organizzazione del sistema di istruzione rimane affidata al monopolio della amministrazione che presiede a tale organizzazione l’esito non potrà che avere, al meglio, i caratteri contradditori del piccolo mammifero acquatico che però depone le uova.
Possiamo ragionevolmente pensare che il top e middle management amministrativi (dai Direttori Generali ai Provveditori, comunque oggi si chiamino..) provveda a produrre atti coerenti diretti al proprio superamento e/o riconversione?
Vi è penuria di giacobini nel settore, e non solo nella P.A. (ricordo che i giacobini non sono, o non solo, quelli che “taglian teste”. Bensì quelli disposti a farsela tagliare, ma a cambiare la realtà prima e dopo la decapitazione). In assenza di giacobini si vorrebbero volontà e strategie collettive…

Ambiti, Reti Territoriali, e monopoli amministrativi

Un esempio di “ornitorinco” amministrativo è rappresentato proprio dal provvedimento che il MIUR ha messo in campo per tradurre in opera l’indicazione degli “ambiti territoriali” e delle “reti di scuole” previsti dalla Legge 107. (Vedi nota del Dipartimento citata)
Da un lato, infatti, in quella nota si rammentano fedelmente tutti i “motivi ideali” che almeno nelle enunciazioni presiedono alla idea degli ambiti e delle reti (dal miglioramento della efficienza, alla “vicinanza” operativa delle funzioni amministrative, al lunghissimo elenco degli impegni di miglioramento del servizio di istruzione che dovrebbe caratterizzare l’autonomia, dalla digitalizzazione al nesso scuola-lavoro); dall’altro si trasferisce tale impegno in adempimenti cui le scuole dovrebbero ottemperare creando tra loro degli “accordi di rete”. Di queste si fornisce anche opportuno “schema di accordo”.
Del “retroscena” di modifica anche radicale della organizzazione territoriale della amministrazione (per esempio della “razionale” fine degli uffici provinciali..) nulla vien detto. Poco male (si può provvedere in altro momento) se proprio tale aspetto con costituisse elemento fondante della “coerenza riformatrice”, la cui esplicitazione consentirebbe di collocare quelle scelte entro una strategia di “politica pubblica” che va oltre la contingenza.
Intendiamoci: si tratta comunque di una occasione da non perdere. (sono d’accordo con Stafanel). Possibilmente non cedendo al medesimo difetto del decisore amministrativo e dunque recuperando visione strategica, impegno politico e culturale non mortificato dalla dimensione contingente, capacità analitica e previsionale che vada oltre alla ristretta dinamica degli interessi immediatamente coinvolti.
Superare la “corta veduta” è la condizione per non perdere l’occasione: la ri territorializzazione dell’organizzazione del sistema e la costituzione di reti territoriali coerenti, investe questioni strategiche: dalle politiche di gestione del personale, alle questioni del dimensionamento delle istituzioni scolastiche, della loro distribuzione territoriale di indirizzo, del rapporto organizzato con i soggetti titolari della programmazione territoriale (dalle Regioni ai Comuni), del dimensionamento e distribuzione dei servizi (dai trasporti alla assistenza). C’è da lavorare per i prossimi anni.
La reazione immediata al provvedimento che lamenta il carico di impegni gravati sulle scuole in questo momento è ovviamente comprensibile e condivisibile, ma rischia di riprodurre la medesima “angustia strategica” dell’amministratore. Come spesso accade i due contendenti si sovrappongono costretti nel medesimo calco: l’uno è il “negativo” dell’altro.
Intanto vi sarebbe da condurre una sensata distinzione tra “reti di ambito” e “reti di scopo” che la nota ministeriale sovrappone (un uovo dell’ornitorinco?).
Si tratta infatti di cose assai diverse che non possono trovare equivalenza nel semplice ricorrere al medesimo costrutto verbale “rete”.
Le “reti di ambito” interpretano più direttamente la strategia di ristrutturazione dell’organizzazione territoriale del sistema e introducono un potenziale innovativo di grande spessore: l’organizzazione ed erogazione di una serie di funzioni gestionali e amministrative “passano” da “competenze separate” esercitate da uffici amministrativi, a competenze delle stesse istituzioni scolastiche autonome in collaborazione tra loro.
Tale considerazione si offre immediatamente all’impegno di ridefinire modalità organizzative di erogazione di tali servizi, modelli filiera e di economie di scala, soppressione di duplicazioni, ricerca di modelli “di flusso di valore” e non di “lotti di pratiche”, razionalizzazione nell’uso delle risorse sia economiche che di personale.
Si apre un “campo strategico” di effettivo sviluppo dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, letta con quello che in introduzione ho indicato come il secondo sguardo.

Esplorare tale campo significa misurarsi con problematiche anche molto complesse che impegnano futuro. Ne cito solo alcune.
Innanzi tutto una rigorosa e progressiva definizione delle competenze messe in rete e della divisione conseguente del lavoro. La nota del MIUR “cita” alcuni esempi e rimanda alla rete stessa: ebbene occorre lavorare con decisione per scongiurare con nettezza il fatto che, nella indeterminatezza di tali attribuzioni si finisca per promuovere sovrapposizioni (per esempio permanenza degli uffici provinciali).
In secondo luogo gli effetti che tale riassetto comporta nella struttura e dinamica di organizzazione delle stesse scuole. E’ del tutto evidente infatti che strutture reticolari di questo tipo combinino da elementi di semplificazione da un lato e di complessificazione dall’altro (si pensi a fenomeni di possibile “sovra ordinazione” delle scuole capofila..). Ma, se tali processi riorganizzativi sono davvero “strutturali”, lo stesso “organigramma” interno alle scuole va incontro a possibili modificazioni (si pensi a problematiche che sempre più spesso si sintetizzano usando i termini di middle management interno)
In terzo luogo è sensato collocare tali reti come soggetti e oggetti di modificazioni anche radicali nei flussi territoriali delle risorse (economiche, umane, e nella combinazione di esse entro lo sviluppo organizzativo) e delle diverse provenienze: da quelle pubbliche (Ministero e Enti territoriali) a quelle di privati o del “privato sociale”.
Inutile nascondersi che il banco di prova di tale modello alternativo di gestione delle risorse è costituito dalla risorsa fondamentale di un settore ad alta intensità di lavoro e a bassa intensità di capitale come la scuola: come ci si  misura con la gestione del personale e con la destrutturazione del “monopolio” storico esercitato dal Ministero su tale risorsa.
Infine: oggi la nota MIUR citata contempla la condizione-mantra di “senza oneri aggiuntivi” (ci siamo abituati). Ma poiché il tutto si fa(-rebbe) anche nella ipotesi di razionalizzazione della spesa, occorrerebbe disporre di condizioni rigorose circa la disponibilità dei risparmi realizzati…”restituire” a Viale Trastevere o investire localmente in qualità?

Un modello di governance

Questa è la sfida: un insieme di processi intrecciati (dalla lunga e irrisolta transizione dell’autonomia, ai provvedimenti non sempre coerenti della Legge 107, alla cesura (si spera) nella vicenda del precariato…) concorre a ri-proporre la questione della governance territoriale del sistema di istruzione.
Preferirei utilizzare il termine italiano di “governo misto” piuttosto che quello abusato di governance, ma basta intendersi: il sistema di istruzione, come tutti i sistemi fortemente territorializzati ed integrati nell’organizzazione dei servizi, mette capo ad una pluralità di soggetti titolari, diretti ed indiretti,  della “produzione” del servizio erogato ai cittadini.
Allo stato attuale (Costituzione..) i soggetti sono tre, principali e attraverso le loro emanazioni territoriali: lo Stato (MIUR, USR..); le Regioni (Comuni, Aree metropolitane, deleghe regionali..); le Istituzioni Scolastiche Autonome (reti territoriali e di scopo?).
Bisogna “inventarsi” un modello di governo misto e provarsi a metterlo in opera… Non ci sono ricette, ma un terreno di confronto, esperienza e verifica attenta, per qualche anno di impegno.
Provo però ad anticipare alcuni criteri fondamentali per la gestione di sistemi di “governo misto” (non riguardano specificamente la scuola, ma tutti i modelli sperimentati, anche e soprattutto in altri paesi, di governance di sistemi di servizi). Il loro buon funzionamento è condizionato dalla compresenza di cinque fattori

1.      Un livello essenziale di condivisione, tra tutti i soggetti coinvolti, della politica pubblica corrispondente al servizio. Non è detto che la condivisione debba essere totale, ma essere esplicitata e dichiarata almeno sui punti fondamentali (quelli meno contingenti e che caratterizzano a fondo il servizio pubblico in questione)

2.      Compiti e responsabilità operative di ciascun soggetto del governo misto definiti in modo esaustivo, condiviso e senza sovrapposizioni e conflitti. (Niente doppioni..)

3.      Un sistema informativo totalmente inter portabile. Condizione sia di gestione razionale, sia di trasparenza e pubblicità (non è così tra sistema informativo MIUR e sistemi regionali)

4.      Una tecnostruttura comune (al servizio di tutti i soggetti) con compiti tecnico scientifici (valutazione, manutenzione delle prestazioni, ricerca e sviluppo correlata al servizio..). Nel caso dell’istruzione tale questione è davvero problematica: come si esprime in dimensione territoriale, la “ricerca educativa”? (Valutazione, protocolli di qualità, innovazione didattica…) Qui potrebbe aprirsi la questione delle “reti di scopo”, ma anche quella del funzionamento degli enti nazionali della Ricerca Educativa (INVALSI  e INDIRE) e del loro contributo alla governance (non all’esclusiva del MIUR)

5.      Un sistema di qualità impegnativo per tutti i titolari del sistema misto, cui essi devono uniformarsi. I differenziali di qualità, quando non colmati tendenzialmente, operano come elementi di “costo aggiuntivo” scaricato sui soggetti di più elevata qualità, dunque come “azzardo morale”. (basterebbero gli esempi del Sistema Sanitario…)

Se il richiamo al ruolo fondamentale dell’istruzione e alla valorizzazione dell’istruzione pubblica non è semplice flatus vocis che accompagna tutte le possibili micro rivendicazioni spesso dirette a “mantenere”, tutto ciò disegna un campo di effettiva innovazione. Certo fondamentale è la condizione di non lasciare il campo alla sola azione di chi abbia della autonomia scolastica la concezione che riproduce l’ornitorinco.

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