Direzione didattica di Pavone Canavese

Le Istituzioni scolastiche nel contesto delle autonomie


04.12.2011

Noto e ignoto

Cinzia Mion

 

Non ho motivo alcuno di dubitare che Stefanel riesca a gestire alla perfezione un Istituto Comprensivo di 2000 alunni e non ho motivo di contestare l’ispettore De Anna che gli dà ragione.
Voglio però raccontare cosa ho scoperto frequentando come formatrice diversi Istituti Comprensivi in giro per l’Italia,  parlando con gli insegnanti dei vari ordini di scuola durante i lavori di gruppo e nelle relative pause.
Nella maggioranza dei casi tutti i docenti, o quasi tutti,  lamentano di vivere “separati in casa”.
Per esempio le docenti della scuola dell’infanzia, pur godendo spesso, da parte dei dirigenti scolastici, di molta ammirazione per il tipo di lavoro laboratoriale che svolgono,  ammettono quasi con rassegnazione di non essere molto considerate dagli altri colleghi che talvolta ne criticano la modalità di educare i bambini affidati.
Quelli della scuola primaria infatti a volte vengono colti a  sussurrare che le colleghe non “scolarizzano” sufficientemente i bambini, i quali arrivano senza regole, e quelli della scuola secondaria sembra che invece si limitino ad ignorarle.
Ha un bel dire poi qualche dirigente, a proposito degli insegnanti elementari “vedessi quanto lavorano gli insegnanti della scuola primaria…” ma questi avvertono la svalutazione implicita,  ma costante,  di quelli dell’ordine successivo che non si sono ancora riavuti del tutto dal rischio di essere loro accomunati dalla legge Berlinguer.
Questi ultimi poi hanno lo sguardo rivolto al mondo della scuola secondaria di secondo grado con l’obiettivo di evitare la stigmatizzazione che potrebbe provenire da quel fronte,  esemplificata dalla frase aborrita “Ci hanno mandato dei semianalfabeti…da quale scuola media provengono?”  Il gioco di cercare il responsabile continua con la colpevolizzazione :”Se non ce la facciamo la colpa è di qualcun altro che non fa la sua parte”
Naturalmente sto generalizzando, operazione impropria e scorretta ma, tenendo conto delle debite eccezioni, mi avvicino molto alla realtà.
Ovviamente qualche collega non si riconoscerà in questa superficiale semplificazione ma anch’io quando ero dirigente scolastica avrei giurato che tutto stava andando bene…ed invece ho scoperto, attraverso le voci dei supplenti, che girano come sappiamo di classe in classe, alcune smagliature difficili da scoprire soprattutto se si sta attestati solo all’aspetto organizzativo come accade oggi frequentemente.

Comunque questo preambolo sugli Istituti Comprensivi è utile a sottolineare che una parte del gravoso compito del Dirigente Scolastico, chiamato a far scaturire dalla comprensività un valore aggiunto, è quello di creare occasioni di scambio produttivo tra i docenti dei vari ordini di scuola, per raggiungere un miglioramento del processo di insegnamento-apprendimento.
Ricordo ancora l’insegnamento di uno dei miei formatori all’approccio psicosociale, R. Carli,  che sottolineava spesso che inesorabilmente,  in un qualsiasi conflitto cognitivo, ognuno riporta la propria chiave di lettura al “già noto”.La chiave invece per rielaborare qualsiasi conflitto è quella di esplorare “l’ignoto”. Consiste nel mettersi alla ricerca di ciò che ancora non sappiamo, anche se sgradevole o fonte di sofferenza. Sembra un’affermazione scontata ma non lo è per niente. Ho osservato infatti dirigenti scolastici di Istituti Comprensivi, ex-docenti della scuola secondaria di primo grado oppure di secondaria superiore, stigmatizzare docenti della scuola primaria perché “senza regole strutturali(!)”, soltanto perché non usano i registri delle presenze (il cosiddetto già noto) e non si accorgono di come siano invece autonomi perché in grado di gestire completamente plessi lontani dalla presidenza, a partire dalla cosiddetta disciplina o condotta (ecco l’ignoto, che non viene colto).
D’altronde dirigenti ex-docenti della scuola primaria portano a volte, nel loro ruolo, un po’ di soggezione di vecchia memoria nei confronti dei colleghi dell’ordine successivo che può rivelarsi o come eccesso di zelo finalizzato ad una “captatio benevolentiae” oppure come spiccata difficoltà a rapportarsi. Questa viene esplicitata come rilevazione della loro formazione poco “psicopedagogica” ma l’effetto degli atteggiamenti di critica, al posto di un lavoro di “contaminazione” con quelli che invece lo sono, solleciteranno prima o poi “reciprocità”.
Per il medesimo motivo dirigenti con lauree disciplinari, magari di tipo tecnico-scientifico oppure giuridico-economico si affezioneranno a modelli prettamente organizzativi e sosterranno ipotesi di Istituti governabilissimi,  a prescindere dalla numerosità, perché ciò che conoscono bene sono le teorie dell’organizzazione delle imprese che si reggono su efficacia, efficienza, economicità.
Sono d’accordo con D’Avolio quando sottolinea che la scuola non è assimilabile ad  un’impresa ma è una comunità professionale di docenti. Bisogna però chiederci quali condizioni rendono un gruppo di docenti una “comunità” professionale.
Questa comunità è chiamata a gestire e far crescere nell’apprendimento e nella relazionalità sociale tutte le classi-comunità, all’interno delle quali ogni soggetto deve essere considerato una risorsa da sollecitare; e dove inoltre le dinamiche interpersonali e le interferenze del proprio mondo interno fanno saltare continuamente le previsioni dell’oggettività delle varie teorie dell’organizzazione. Lavorare sulla formazione infatti sollecita sia nel formando che nel formatore fantasmatiche varie che qui non è il caso di spiegare. Per questo motivo spesso i conti non tornano ed allora bisogna rifornirci di altre chiavi di lettura oltre a quelle che già padroneggiamo, chiavi di lettura appunto ancora non note. (Superfluo sottolineare come questa riflessione riguardi i dirigenti ma anche i docenti)

La scuola comunque esiste e realizza la sua ragione di vita all’interno delle aule, non negli uffici del dirigente, che però ha in mano una leva potente se assume innanzitutto l’aspetto psicopedagogico e relazionale, e da cui scaturisce l’aspetto organizzativo, con tutto ciò che questo comporta.
Il nostro dirigente scolastico può indicare e sostenere infatti la vision, contenuta “nell’idea di scuola” nei confronti della  cui realizzazione dovrebbe essere in grado di indicare percorsi, sostenere decisioni, valorizzare risorse, difendere obiettivi e mete difficili, lavorare con passione. Questo è il valore aggiunto della dirigenza specifica “scolastica”.
Anche le cosiddette funzioni strumentali, pur se  delegate dal Dirigente Scolastico, devono far parte dell’universo del noto ed apprezzato, anche se non nei particolari, permettendo interventi significativi in corso d’opera per ricordare la traiettoria corretta.
Questo è il ruolo del dirigente scolastico “facitore di senso” (Weick) anche se oggi conta anche l’aspetto della rendicontazione. Render conto del rapporto costi-benefici non significa però dimenticare l’ efficacia dei benefici, rapportati sempre all’idea di scuola che deve coniugare “inclusione, equità ed eccellenza”.
Troppo comodo gestire una scuola che semplicemente “screma le eccellenze” e facendo questo realizzare la sua economicità…
Sono d’accordo con le domande che pone De Anna dopo aver fatto delle sacrosante considerazioni sulla mancata “intelligenza di pianificazione territoriale” che in certe zone del Paese è avvenuta e che in altre è ancora aldilà da venire ma che comunque avrebbe un bisogno ulteriore di riflessività.
Sono anche d’accordo che il parametro della “ stupidità quantitativa” va comunque coniugata con altre variabili,  insieme a delle serie iniziative di formazione ed elaborazione culturale, formazione che non è di sicuro riconducibile soltanto a delle affrettate dosi di bulimia preconcorsuale, fornita allo scopo di superare la prova.  Questi sono degli sforzi encomiabili ma finalizzati ad una determinata prestazione e non sufficienti a far maturare professionisti riflessivi.
Sottolineo inoltre che la complessificazione non sempre è legata alla quantificazione, come osserva giustamente d’Avolio.
Dall’anno 1974 al 1994  personalmente mi sono trovata infatti a governare un circolo didattico molto complesso ma non numeroso dal punto di vista degli alunni (parametro utilizzato oggigiorno).
Nel territorio di mia competenza (2° circolo di Conegliano) c’erano 5 plessi di scuola elementare, di cui 3 in città e 2 in collina, 1 plesso di 30 docenti specializzati presso l’ Istituto la Nostra Famiglia, (Presidio Sanitario) con 15 classi di scuola speciale statale a tempo pieno,  che accoglievano  bambini con varie disabilità da tutto il territorio del distretto,  bisognosi di varie terapie che forniva l’Istituto.
Presso il medesimo Istituto c’era anche una scuola materna statale di 3 sezioni speciali ed in città sorgeva un’altra scuola materna statale “normale “di 4 sezioni che apparteneva al medesimo circolo.. 
Il collegio docenti della scuola elementare, più quello della materna (che in  qualche occasione riunivo insieme) contava 105 docenti ma gli alunni superavano di poco le 700 unità ( le classi speciali erano ovviamente poco numerose).In piena riforma raggiunse i 125 docenti.
Eppure questa situazione così complessa, ma poco pletorica di alunni rispetto al numero di docenti,  ci ha permesso di realizzare, negli anni ottanta, una sperimentazione di cui vado ancora fiera, in collaborazione con la Direzione dell’Istituto e con l’appoggio dell’ente locale, che ha sovvenzionato le corse dei pullmini che trasportavano i bambini,. Abbiamo infatti effettuato l’integrazione di due classi della scuola speciale che scendevano ogni mattina dalla collina, dov’era ubicata la Nostra Famiglia, con le loro maestre e si inserivano nelle classi normali del primo ciclo del plesso più grande, sede della Direzione. Questo ha costituito un notevole vantaggio non solo per i bambini disabili ma anche per la didattica dei docenti delle classi normali che, avendo aderito all’esperienza , erano disponibili ad apprendere dai colleghi specializzati, con notevole vantaggio per tutti i bambini che hanno potuto fruire di attività diverse come la psicomotricità.
L’aspetto più significativo è stato quello che questa esperienza ha modificato la cultura dell’integrazione della collettività di Conegliano che considerava “la Nostra Famiglia” un fiore all’occhiello purchè mantenesse l’immagine dei disabili lontano dalla vista, in collina appunto.
Non posso dilungarmi in questa sede ; aggiungerò solo che alla scuola materna funzioante presso la Nostra famiglia abbiamo organizzato un inserimento “alla rovescia” : alcuni bambini normodotati sono stati iscritti, da genitori sensibilizzati alla sperimentazione, alla scuola speciale perchè  fornita di molto materiale ludico  strutturato e stimolante, con docenti  brave e disponibili ad attività laboratoriali altrettanto interessanti. Il tutto con la finalità di alleggerire la concentrazione di disabilità, che altrimenti i bambini con handicap sarebbero stati costretti a tollerare ogni giorno, e di appoggiare il progetto di co-evoluzione per tutti, bambini ed adulti, che avviene sempre nell’integrazione.

Risparmio di sottolineare il lavoro di sensibilizzazione che è sotteso ad  una esperienza del genere,  per i docenti di entrambe le scuole, per i  genitori di tutti i bambini,  per il collegio dei docenti che doveva approvare e per l’Istituto che “ideologicamente” era in un certo senso contrario all’integrazione ma che aveva una direttrice locale molto intelligente e sensibile. Per tutti si è trattato di progettare ed effettuare, monitorare e valutare un lavoro, a mio parere,  significativo. Certo erano altri tempi ma non liquidiamo la narrazione dell’esperienza con il “gioco transazionale” che Berne chiama “Sì, ma…”,  trasferendo il focus dell’attenzione dal “Sì” al “ma” , attraverso un’ enfasi eccessiva sulle difficoltà e depotenziando la comprensione dell’evento in questione.

Per farla breve, chiedo a Stefanel e a De Anna, ammesso che l’esperienza possa essere considerata interessante : avrei potuto realizzare tale lavoro con 2.000 o più alunni?

Quale differenza ci può essere tra un dirigente che propone, sostiene,  accompagna e si coinvolge ed uno che invece è costretto a delegare quasi tutto? Non è che a quest’ultimo rimane una funzione quasi notarile?
Io credo che non mi sarebbe nemmeno venuta in mente l’idea che ho appena descritta se fossi stata  occupata  a fare il custode della legge, il semplice funzionario o “il notaio” di una situazione infarcita alla grande di inevitabili deleghe. Ho sempre cercato nelle pieghe della legge le potenzialità per realizzare l’idea di scuola di cui ero, eravamo portatori.
Eppure la responsabilità e la leadership erano anche allora diffuse (e non si sarebbe potuta realizzare di sicuro un’esperienza del genere senza la distribuzione di leadership pedagogica ed organizzativa).
Rivendico però il primato della leadership pedagogica , o meglio psicopedagogica e relazionale, nei confronti della quale il progetto è stato piegato a livello organizzativo.
Per quanto attiene l’utilizzo delle molte risorse fornite di svariate competenze, all’interno dell’Istituto Comprensivo, F. De Anna fa un’affermazione su cui concordo in pieno ma egli potrà convenire con me che prima bisogna rendere fluidi e permeabili i confini tra i vari ordini di scuola. In altre parole si tratta di far accettare i reciproci  limiti per ricavare spazio mentale per le competenze degli “altri” che possono aprire gli orizzonti del “non noto” o del poco padroneggiato, senza per questo far sentire dolorosamente inadeguati. Intendo dire che ogni docente dovrebbe sentirsi appartenente ad una autentica comunità di pratica, possibilmente connotata da diverse appartenenze dei vari ordini di scuola,  dove tutti imparano e tutti insegnano. Se naturalmente il dirigente scolastico ne facilita la creazione.

 A.Tropea, nel suo intervento sullo stesso  tema dice: ”La leadership educativa del D.S. è definita dalla capacità di tradurre in provvedimenti amministrativi ed organizzativi la mediazione culturale necessaria tra la comunità scolastica, le finalità istituzionali e le domande del territorio” Appunto!

torna indietro