Direzione didattica di Pavone Canavese

Le Istituzioni scolastiche nel contesto delle autonomie


24.10.2011

Il rischio concreto di una ulteriore mazzata
di Antonio Valentino

 

Riflettiamoci un po’ su.
Cominciamo col riconoscere che l’operazione ‘accorpamento dei vari ordini delle scuole del primo ciclo’, prescindendo per un attimo da come si sta svolgendo, ha in sé aspetti positivi difficilmente contestabili.
Rompere con la separatezza tra primarie e secondarie di primo grado non è forse cosa buona e giusta in sè?


Le esperienze dei comprensivi, finora realizzate, pur nella diversità dei casi, pongono certamente problemi, ma  hanno permesso e permettono anche soluzioni interessanti e innovative.
Probabilmente alcune pratiche di questo modello andrebbero sottoposte ad esame più attento, come, ad esempio, la tendenza a sottovalutare la discontinuità come valore che facilita la crescita: infatti,  solo nelle situazioni più avvedute (poche in verità) si prospetta  e favorisce nei ragazzi, attraverso opportune misure didattico-organizzative, quel cambio di passo importante per imparare a misurarsi con i cambiamenti della vita.
(Chiare e stimolanti, in proposito, le riflessioni recenti su ScuolaOggi di Red Rom.)

 

Va aggiunto che finora hanno pesato sul modello organizzativo in verticale, là dove è stato attuato, la difficoltà a mettere in campo occasioni di sviluppo professionale e di riconoscimento delle professionalità più coltivate ed esperte, oltre alla irrilevanza di valutazioni e monitoraggio da cui derivare interventi correttivi. Fattori che hanno opacizzato -  opacizzano - anche questo modello. felicemente innovativo per il nostro sistema, e hanno favorito il permanere della vecchia cultura dei compartimenti stagni.

Comunque, l’opportunità di curricoli verticali, di percorsi formativi più sensati perché più coerenti, costituisce un bene, dove la si coglie. E  percorsi formativi unitari e organici, dalle materne a tutto il primo ciclo, previste dalle disposizioni inserite nelle ultime due manovre economiche, costituiscono una scelta potenzialmente positiva.

Viva il Ministro, Tremonti e Berlusconi, è il caso di dire, almeno questa volta?

 

Purtroppo però, anche in questa occasione, per come si presenta, la decisione di estendere  a tutte le scuole del primo ciclo il modello organizzativo in verticale fa correre il rischio molto concreto di una ulteriore e vera e propria  mazzata per ogni pur debole speranza di rinascita della nostra scuola:  le ultime misure della Legge così detta ‘di stabilità’ sono molto di più della classica ciliegina avvelenata sulla torta al vetriolo della manovra di metà luglio.

 

Consideriamo ad esempio la scelta che da subito ha scatenato discussioni e polemiche.
La Legge 111 (quella del 15 luglio u.s.), come è noto,  prevedeva che alle scuole con meno di 500 alunni non potessero essere assegnati dirigenti scolastici titolari (il tetto è abbassato a 300 per le scuole collocate in comunità montane o in piccole isole o nelle aree a statuto speciale).
Ebbene, una disposizione della recente ‘Legge di stabilità’ porta questi limiti rispettivamente a 600 e 400 unità.
In questo modo, il numero  delle scuole che potrebbero rimanere senza dirigente titolare – e quindi date in reggenza, con quel che ne consegue - aumenta, secondo calcoli attendibili, di un buon 10-15%. A meno di accorparle, gonfiando a dismisura il numero degli studenti dei nuovi Istituti comprensivi.
Consideriamo il caso di Milano: la proposta  dell’amministrazione comunale (per ora soltanto una bozza, per fortuna) prevede che, su 19 nuovi Istituti comprensivi - che aggregano ben 75 scuole tra elementari e medie - ben sette si avvicinino o superino i 1500 (una addirittura i 1773!) e cinque  i 1300: di molto oltre la soglia-capestro dei 1000 allievi, prevista dalla manovra di luglio. 

Questo quadro prospettato, già di per  sé pesante, diventa allucinante ove si consideri che il numero delle scuole aggregate è mediamente di 4 unità (o poco meno).
Ovviamente le scuole sono su sedi diverse e non sempre vicine.
 

Proviamo un po’ a pensare a come, in queste condizioni ipotizzate, il Dirigente Scolastico (DS) potrà esercitare le sue prerogative - che sulla carta rimangono intatte - di coordinamento e di direzione unitaria e farsi garante, attraverso il POF, dell’”identità culturale e progettuale” dell’Istituzione scolastica che gli viene affidata.
 

Tralasciando, per ora, altre questioni istituzionalmente spinose - come l’invasione di un campo che è proprio di Regioni ed Enti locali (che hanno competenze in materia di organizzazione della rete scolastica; competenze messe in discussione  dal 4° comma dell’articolo 19 della già citata Legge 111); o questioni organizzativamente pesanti, per non dire disastrose - come la previsione di DSGA non solo numericamente molto ridotti, ma, addirittura, operanti “a scavalco” di più Istituzioni scolastiche autonome -, i problemi più grossi di fronte ai quali ci troviamo non sono tuttavia  legati solo al numero degli studenti. Pesa, come sappiamo, in modo consistente anche e, per alcuni versi, soprattutto,  il numero delle sedi e la vicinanza o meno tra di loro. È chiaro che avere un'unica sede non è la stessa cosa che avere sette “sezioni staccate”; e avere sedi distanti tra di loro 10 km non equivale ad  averle a 300 metri.

C’è  poi il problema delle storie diverse e delle diverse identità scolastiche delle istituzioni finora autonome, che certamente è destinato a pesare.
C’è ancora la questione della formazione dei docenti per prepararli ad una progettazione diversa dei percorsi formativi e a pratiche didattiche più aperte e integrate.
 

Ma tutti questi problemi, e la conseguente necessità di porvi mano, non potranno in nessun modo essere presi in considerazione per la fretta precipitosa  che segna negativamente l’intera operazione e rende esplicito, se non lo si fosse capito,  l’unico obiettivo governativo del far cassa, a costo di scompaginare l’intero sistema.
Diceva giustamente il preside di una scuola sperimentale storica di Milano, Rinascita (intervista a ‘la Repubblica’ del 21 ottobre): “L’accorpamento non è di per sé un male. Estenderemmo volentieri il nostro metodo sperimentale anche alle scuole elementari, ad esempio. Ma ci vuol tempo; e il ministero con la sua fretta, non permette alcun investimento su questa operazione. Ci chiede solo di diventare manager buoni per la burocrazia”.
In questa frenesia che informa tutta l’operazione, si coglie evidente anche il segno di un pressappochismo che non ammette giustificazione. Non si gioca sulla pelle dei ragazzi; non si fa dell’improvvisazione in un sistema già martoriato da riforme inconcludenti; peggio, disorientanti. Nessuna crisi, per quanto grave può far passare sotto silenzio misure che rischiano di essere un vero killeraggio per la scuola pubblica.  (Le scuole private mai entreranno in questa logica prevedibilmente suicida: pensate che al governo non ci abbiano fatto, al riguardo, un qualche calcolo, secondo intenzioni non difficilmente intuibili?).


Nessuno, né il ministro  - che pure ha affermato, 
prima di varare le ultime misure, che la scuola non avrebbe potuto sopportare altri tagli (ha usato la parola ‘tagli’, sì) - né il suo staff,  ci hanno finora spiegato o hanno dimostrato di interrogarsi sulle conseguenze di ciascuna misura prevista; e in modo particolare

Ci sono, a questo punto, ragionamenti sul ‘che fare’ che hanno carattere di estrema urgenza.
E in primo luogo la questione ‘tempi dell’operazione’: quelli prospettati sono con tutta evidenza dei  ‘tempi capestro’.  

Far slittare tutto di due-tre  mesi (non è stato fatto questo per le iscrizioni di due anni fa e non è morto nessuno?) sarebbe cosa giusta e saggia, per permettere gli approfondimenti necessari (almeno sulle misure più spinose e gravi), attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori, e la messa in campo di interventi opportuni ed equi rispetto alle diverse necessità da fronteggiare.
Sappiamo purtroppo in partenza che nessuna proposta sensata sarà presa in considerazione. E l’Italia, parafrasando Gaber, continuerà, in prevalenza, “a giocare alle carte e a parlare di calcio nei bar”. Facendo finta di niente. 

O, questa volta, no?

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