A Cefalonia, italiani carne da macello

Una particolare attenzione, tra le vittime militari da ricordare il 4 novembre, giornata simbolo dei Caduti di tutte e guerre, meritano gli uomini della divisione "Aqui" massacrata dai tedeschi nel settembre ’43 a Cefalonia. L’eroismo della "Aqui" rappresenta uno degli episodi più nobili e significativi della resistenza militare italiana ed europea. Non si riscontrano altri esempi di una grande unità, 12.000 uomini, che rifiuta di piegarsi agli uomini di Hitler e di resistere sino al limite delle possibilità umane. Poco più di 1300, caddero in combattimento, mentre circa 5mila, tra ufficiali e soldati vennero passati per le armi dopo la resa. Altre migliaia di prigionieri (la "Aqui" era dislocata a Cefalonia, Corfù, e nelle altre isole ioniche della Grecia) persero la vita nell’affondamento delle navi utilizzate per il trasporto verso i campi d’internamento germanici. I sopravvissuti furono meno di 3.000.

Ad arricchire la conoscenza di questi valorosi soldati che mantennero alto l’onore di fronte al terrorismo ed alla vendetta tedesca è un recentissimo volume di Alfio Caruso, Italiani dovete morire, (Longanesi, pp. 309 £ 30.000). L’autore che ha il merito di aver raccolto la memoria dei superstiti e degli isolani, afferma: "Ancora oggi, quando vedono alzarsi da qualche parte una colonna di fumo, i vecchi dell’isola dicono: "E’ la divisione "Aqui" che sale in cielo". Gli uomini del generale Gandin, comandante di questa divisione, vennero lasciati soli. Ogni speranza di aiuto da parte di Badoglio o degli inglesi si dissolse ed i tedeschi utilizzarono ogni mezzo, ricorrendo alla guerra psicologica (vennero stampati e lanciati sull’isola 50mila volantini) per indurre gli italiani a disertare o a ribellarsi. Dopo la resa si scatenò una vera e propria caccia all’uomo. Feriti e prigionieri vennero uccisi a freddo, con il colpo di grazia, e gettati in fosse comuni. Il generale Gandin e gli altri ufficiali vennero assassinati tra il 24 e il 25 settembre presso una villetta dietro la penisola di san Teodoro, definita "casetta rossa", che fu il "palcoscenico" prescelto per infliggere l’estrema punizione agli eroi della "Aqui". Tre plotoni (che si alternavano), ognuno dei quali costituito da otto soldati portarono a termine una operazione di "bassa macelleria". I tedeschi decisero anche che questi ufficiali, "traditori badogliani", non meritavano sepoltura. Dopo alcuni giorni, il 28 settembre, di notte, fecero prelevare sotto la minaccia delle armi a 17 marinai italiani quei poveri corpi che vennero trasportati con i camion e caricati su una grossa zattera. Il natante ed il carico dei vivi e dei morti finì in fondo al mare.

La situazione nell’isola dello Ionio, negli ultimi giorni del settembre ’43, viene così descritta nel saggio di Caruso:" Al calar del buio sono i roghi a rischiarare Cefalonia. Dalle balze di Kutruli a Divinata, da Prokopata alla piana di Valsamata i tedeschi bruciarono i corpi in decomposizione dei militari italiani…I generali della Wehrmacht che hanno ordinato di non fare prigionieri sono adesso preoccupati che il mondo prenda coscienza di quanto è accaduto sull’isola".

Un cappellano militare, padre Ghilardini, ed "alcune ragazze del casino" faranno di tutto per procurare una fossa ed una croce per i poveri resti. Solo a partire dal ’48 una missione militare cercherà di raccogliere e recuperare i cadaveri. A Bari nel grande sacrario dei Caduti d’Oltremare furono trasferiti a partire dagli anni Cinquanta le spoglie di questi eroi dimenticati".

A Cefalonia come sostiene un autorevole storico militare tedesco, Gerhard Schreiber (La vendetta tedesca 1943/45. Le rappresaglie naziste in Italia - Mondatori), "fu commesso uno dei più orribili crimini della Seconda guerra mondiale, sebbene i tedeschi non vogliano ricordarlo." Ed aggiunge:" la persecuzione dei gravissimi reati commessi dai nazisti non costituisce una pagina di gloria negli annali della giustizia in Germania". Simon Wiesenthal, il più celebre cacciatore di nazisti, in una lettera del ’69 sostenne in relazione alla vicenda di Cefalonia, che "l’archiviazione delle indagini su questi assassini è contraria ad ogni diritto".

In Italia, negli anni Cinquanta, furono sistematicamente disattese, dai ministeri competenti, le richieste avanzate dai tribunali militari di ottenere dalla Germania informazioni sugli alti ufficiali tedeschi (alcuni ricoprivano importanti incarichi nella Nato) responsabili degli assassini di massa non solo nelle isole dello Ionio, dell’Egeo, ma anche nell’Italia meridionale ed in Puglia. A Norimberga si riconosce l’azione criminosa della Wehrmacht nelle isole ioniche, tuttavia non si riuscì a rintracciare testimoni delle stragi. Tutto ciò desta sconcerto, perché solo in Puglia, ancora oggi, si rinvengono diversi sopravvissuti. Nell’archivio dell’Anpi e dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo vengono custoditi molti documenti dei militari scampati alle stragi di Cefalonia, Corfù, Zante e nelle isole del Dodecanneso, consegnati dopo il rientro dai campi di concentramento.

La vicenda di Cefalonia non è dissimile da quella delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, della Risiera di San Saba. I morti ed i vivi della divisione "Aqui", come sostiene Alfio Caruso, "non cercano vendette o rivalse giudiziarie. Forse a loro basterebbe essere ricordati.

Ne hanno tutti i diritti.

Vito Antonio Leuzzi