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I problemi della valutazione dopo la legge 169

26.02.2015

Dai voti alla competenze? Forse occorre un’altra campagna…
di Franco De Anna

So che non si dovrebbe essere impazienti. Il dibattito culturale e scientifico sul tema “competenze” (valutazione, certificazione, descrizione delle…) si è sviluppato in questi anni (pubblico ristretto), e vi ho partecipato per quanto so e penso (articoli on line su pavonerisorse.it, su Scuolaoggi.Org, su Edcationduepuntozero.it, un  numero di Scuola Democratica e… altro).
So che il pubblico si allargherà prossimamente vista l’iniziativa ministeriale relativa alle schede intitolate alla “certificazione” delle competenze, a partire dalla Primaria. Non voglio partecipare ad un confronto “puntiforme”, di sì e di no, di semantiche “corrette” e correzioni semantiche.
Provo perciò ad elencare una sorta di “scaletta” di riflessione cui propongo di attenermi per trovare elementi di discussione e di formulazione di confronto tra opinioni fondate, quali che siano alla fine le conclusioni (diverse) che ciascuno potrà trarre.

Il costrutto di “competenza”, nelle procedure di valutazione delle persone nasce in contesto di impresa, e informa di sé metodologie e strumenti di lavoro degli uffici del personale o delle procedure di reclutamento e scelta delle assunzioni, in particolare per posizioni di responsabilità e direzione. La descrizione e la valutazione delle competenze rappresentano in particolare il cuore della attività più evoluta della ricerca del personale e di Assesment Center.
La definizione di competenza adottata in tale contesto è la seguente La competenza è una caratteristica intrinseca di una persona legata causalmente ad una prestazione eccellente in una mansione definita. Si esprime in termini di conoscenze, esperienze, capacità, abilità, attitudini esercitate con autonomia e responsabilità”.
Se si confronta tale definizione con quella assunta a livello europeo e trasferita al contesto di formazione si rintracciano sovrapposizioni e differenze, ma un nucleo forte di identità.

“La competenza è la capacità dimostrata di utilizzare le conoscenze, le abilità, le attitudini personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio nello sviluppo professionale e/o personale. Tali competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” (Dal quadro europeo delle qualifiche)


Osservazioni sulla definizione “aziendale”

1.    La competenza è identificata come un carattere “personale”, iscritto dunque sul substrato psico-antropologico di ciascun soggetto, componente essenziale della sua identità. E’ la sintesi “originale” per ciascun individuo, tra conoscenze, abilità, esperienze, attitudini.

2.   Per l’impresa la competenza che interessa valutare è legata (causalmente, non casualmente) ad una “prestazione eccellente”. Appare ovvio: all’impresa non interessa ciò che non sai fare, ma ciò che sai fare meglio. Un aforisma spesso ripetuto in tale contesto suona così: “si può sempre insegnare ad un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma è meglio assumere uno scoiattolo”. Inaccettabile per chi opera nella scuola, che invece deve comunque insegnare al tacchino ad arrampicarsi, pur sapendo che non diventerà mai uno scoiattolo.
Ma si osservi che l’aforisma non introduce alcuna gerarchia tra il tacchino e lo scoiattolo (e invece: quali gerarchie implicite presiedono alla assegnazione di valore nella scuola?). Semplicemente attesta che hanno competenze diverse: il primo si arrampica sugli alberi, il secondo no, ma sa allontanare le vipere dall’aia.

3.    La competenza non si pone direttamente come oggetto “identificabile” all’osservazione, ma è legata ad un “comportamento”, ad una performance. Dunque per descriverla (o valutarla) occorre rintracciarla, inferirla, desumerla dalla osservazione mirata del comportamento. Il comportamento della persona sul lavoro e nella organizzazione, ma anche il comportamento “indotto”, simulato, sollecitato da prove adeguate (dai test psicodiagnostici, ai giochi di ruolo, alle simulazioni di situazione, al problem solving complesso, a interviste e colloqui finalizzati. Si veda l’estensione della strumentazione utilizzata negli Assesment Center più evoluti) ([1])
L’impresa scientifica della valutazione delle competenze sta proprio nell’uso di una strumentazione complessa e con carattere spiccatamente psicodiagnostico. In realtà, proprio perchè utilizzata per le figure professionali di alto livello, l’impresa è certo interessata a rilevare ciò che “sai fare?”, ma prima di tutti “chi sei?” (A proposito: e se ci si provasse ad imparare qualche cosa di utile nel reclutamento di docenti e dirigenti scolastici? Mah!!… il “concorso” dà più “certezze del diritto” e meno pericoli di subalternità alla cultura “aziendale”, che, come si sa per molti accusatori, equivale ad un peccato senza assoluzione).

Lo scarto con la definizione “scolastica” ( o meglio adattata alla formazione).

1.      Come si comprende, in contesto di impresa, non si tratta di valutazione propriamente detta, ma di “descrizione della migliore performance”:
Nel trasferimento di tale costrutto nella formazione, occorre invece tenere conto di una “graduatoria” che va dalle “buone prestazioni” a quelle meno buone, a quelle insoddisfacenti…
Il che significa che nella scuola si parte da una sorta di ”idealtipo”, da un profilo complessivo che ha pre-stabilito i valori, le gerarchie, le scale di valutazione. Io credo che ciò costituisca un primo ed essenziale terreno problematico che si offre alla riflessione di chi consideri i termini, le condizioni, le avvertenze che occorre attentamente analizzare nel trasferimento di un costrutto come “competenza” (elaborato originariamente sul piano del “valore di scambio” del rapporto di lavoro) in contesto formativo. A quali condizioni il trasferimento di contesto è possibile, assennato, arricchente la cultura della valutazione?
La prima fondamentale differenza è proprio questa: andare alla ricerca della tua prestazione migliore è cosa assai diversa che fornire una “classificazione” delle tue prestazioni. Un poco paradossalmente la “visione aziendale” sembra più “comprensiva” di quella scolastica. (Ma qui è in discussione l’impianto culturale della nostra scuola…non le metodologie di valutazione, che sono invece un derivato).

2.      Togliendo il riferimento alla “prestazione eccellente”, nella definizione scolastica assume rilevanza fondamentale l’analisi, la identificazione, la diagnostica sulle “componenti” costitutive della “sintesi” individuale rappresentata dalle competenze: conoscenze, esperienze, attitudini, abilità diventano oggetto fondamentale di una analisi diagnostica estesa, e, ovviamente, personalizzata.
Il compito della scuola si presenta dunque assai più ampio, proprio perché non finalizzato alla individuazione della prestazione eccellente. In merito si osservi che

a.   Le “conoscenze” sono “oggetti” propri della scuola, almeno nella sua tradizione (oggi gli studenti rielaborano sempre più spesso conoscenze apprese “altrove”) e sono, soprattutto, un elemento “plasmabile”. Aumentano e migliorano con l’insegnamento, lo studio, l’esercizio appropriati.

b.   Le “abilità” sono certamente “tratti personali” distintivi, ma sono anch’esse plasmabili attraverso l’esercizio e l’esperienza. Probabilmente hanno una base individuale legata a fattori non plasmabili, almeno in sede di formazione scolastica. Ma certamente l’esercizio e l’esperienza alimentano, migliorano, affinano le abilità. Ma la scuola è luogo di esperienza e affinamento di abilità? E quali? Quelle contemplate nel “modello idealtipico”, pre-costituito, o quelle rielaborate con attenzione clinica al soggetto?

c.   Le “esperienze”  sono, per la scuola italiana, un problema di cultura e prassi professionale. La nostra scuola misura una distanza storica (ma è anche politica e culturale) con la “scuola dell’esperienza”.
Dewey è lontano, e Maria Montessori, pure “fisicamente” vicina, lo è altrettanto. La nostra è scuola dell’enciclopedia, non della esperienza. Pure, il fattore esperienza è un fattore plasmabile, tra quelli che concorrono alla sintesi delle competenze,  malleabile, sottoposto a misure e iniziative di crescita, di miglioramento, di incremento condizionato.

d.  Le “attitudini” sono, per i livelli di intervento della scuola, da considerare come “date”, non plasmabili. A prescindere da ogni accertamento effettivamente scientifico (quali attitudini? Iscritte in quale supporto? Congenito? Genetico? Di apprendimento/condizionamento precoce?…) potremmo ascrivere le attitudini ad una sorta di “innatismo convenzionale”. Costituiscono cosa sulla quale la scuola non può intervenire. O meglio: deve intervenire “scoprendole”. Faccio sempre l’esempio dell’orecchio assoluto (la capacità “naturale” di distinguere semitoni). Da dove provenga non saprei (congenita, forse genetica, o forse di apprendimento prenatale), ma certo non la si acquisisce a scuola. Non ha funzione deterministica: non tutti i musicisti hanno l’orecchio assoluto, né tutti coloro che hanno tale attitudine saranno i musicisti. Costituisce una “potenzialità” del soggetto. La scuola può solo “scoprirla” (alcuni non si accorgono per tutta la vita di tale fortunata attitudine)  e valorizzarla come “potenzialità” del soggetto, senza alcuna opzione deterministica di orientamento futuro. Ma quante “attitudini” dei nostri studenti siamo capaci di “scoprire” (anche se non previste nelle Indicazioni Nazionali…si veda su queste pagine un mio articolo “Apollo, Dioniso e le nuove indicazioni”)? Eppure sarà indispensabile farlo se si vuole valutare le competenze…

3.   L’estensione del campo analitico sottoposto alla valutazione delle competenze in sede di formazione e di istruzione (attitudini, abilità, esperienze, conoscenze) rispetto alla applicazione del paradigma delle competenze in ambito di impresa (le performances di eccellenza) assimila l’oggetto da valutare alla complessità stessa del soggetto. E dunque carica di responsabilità e di attenzione clinica l’espressione stessa della valutazione.
Un 4 in matematica (per crudele o sommario che sia il giudizio) indica certamente un fallimento, (esattamente come l’esito negativo di un colloquio di lavoro) ma ne dà una testimonianza circoscritta all’oggetto. “Non capisco nulla di matematica… ma i miei occhi hanno visto cose che gli umani….”. Una scheda di valutazione delle competenze che indichi alla fine, che lo studente non ha alcuna competenza (per edulcorato che sia il linguaggio usato, ciò attesta la scheda proposta per i livello D) costituisce una sorta di dichiarazione di fallimento del soggetto stesso, e di chi si è occupato di lui fino a quel momento.

Problemi

Il cambiamento dell’oggetto da valutare (le competenze piuttosto che gli apprendimenti) non muta le considerazioni metodologiche che ho già espresso in un contributo precedente, riferito ai voti numerici (vedi articolo si questo sito).
Occorre identificare con precisione sia ciò che va misurato che gli strumenti appropriati per misurarlo; ma poi occorre esplorare assennatamente l’altro fondamentale aspetto della valutazione “dalla diagnosi alla elaborazione del giudizio”
La catena inferenziale (meglio: il pensiero complesso) che è necessario declinare per pervenire ad una sensata elaborazione del giudizio, non è sostituibile con la complicazione o la standardizzazione formalizzata degli strumenti utilizzati per l’espressione del giudizio.
Né il voto numerico, né la scheda di valutazione, né la scheda di indicazione delle competenze, per complicate che siano, sostituiscono la complessità del percorso inferenziale che è necessario affrontare  per l’elaborazione del giudizio; ne rappresentano solamente il repertorio finale e lo strumento più o meno sintetico di espressione del giudizio valutativo.
La valutazione è tutto ciò che “precede” la compilazione delle schede e che accompagna passo passo i processi formativi (non solo apprendimenti…).
Semmai occorre essere consapevoli che lo spostamento dell’attenzione valutativa dagli apprendimenti e comportamenti che costituisce il focus tradizionale della scuola, al complesso delle variabili (tutte di carattere soggettivo e personale) elencate pure sommariamente nei punti precedenti, complessifica il compito.
I documenti che accompagnano le schede proposte dal Ministero (le linee guida..) hanno, non a caso, un livello di complessità notevole e mostrano di comprendere la portata e l’articolazione del compito e la sua connotazione fortemente innovativa del modo di fare ed intendere la didattica ed il lavoro scolastico, e, ovviamente la strumentazione professionale effettivamente disponibile al corpo docente ed alle scuole autonome.
L’apprezzamento complessivo  che mi sento di esprimere verso tali elaborazioni mi esenta da una esegesi puntale di essi; ma mi spinge ad indicare quali siano i “punti critici” che occorre affrontare e risolvere per procedere in un lavoro culturale, scientifico e professionale di quella portata.

1.   Il riconoscimento pieno ed analiticamente espresso dell’essere “le competenze” effetto di una sintesi sul substrato personale di una varietà di elementi, diversamente disponibili alla funzione trasformativa della formazione, (dalle conoscenze alle attitudini…), implica l’attivazione di un complesso di strumenti di osservazione diagnostica e di elaborazione del giudizio, che non sono usuali nel lavoro scolastico e nella formazione stessa dei docenti.
Si tratta in particolare di una formazione di carattere psicologico e psicodiagnostica che si esercita nell’utilizzare strumenti inusuali alla pratica didattica corrente, e di utilizzarli come tali in rapporto al soggetto e non frantumati nel repertorio disciplinare. Le stesse Linee Guida citano la strumentazione dei colloqui, dei test attitudinali, delle prove di problem solving reale, ecc… (si veda la nota a piè pagina precedente) Così come richiamano la capacità di analisi delle auto narrazioni dei discenti.
Dire che si tratta di strumentazione non usuale è forse un eufemismo: nella cultura scolastica prevalente vi è un diffuso atteggiamento di diffidenza critica verso questi approcci di carattere psicodiagnostico. Un poco paradossalmente una organizzazione/istituzione che si occupa della mente e dei suoi sviluppi diffida di ogni “scienza della mente”.
Se si vuole che quella della osservazione e valutazione delle competenze sia una svolta profonda nel modo di fare scuola, occorre che ci si muova con decisione verso una tras-formazione dei Docenti e verso una finalizzazione coerente del lavoro della Ricerca educativa (INVALSI, INDIRE). Decisione e pazienza: i risultati non sono immediati.

2.   Molte delle indicazioni analitiche dei punti precedenti, e con buona corrispondenza nelle Linee Guida ministeriali, che indicano la sintesi di caratteri personali e di elementi diversamente modificabili dalla formazione, come componenti delle competenze, abilitano la deduzione che tale costrutto sia assennatamente applicabile in particolare a livelli di età nei quali tale sintesi si presenti relativamente consolidata.
Personalmente guardo con preoccupazione e diffidenza alla estensione del paradigma della competenza (nato lo ricordo ancora in contesto di “valore di scambio” del lavoro  nell’impresa) alle fasi precoci del percorso formativo. Ricordo che nella prassi prevalente la valutazione delle competenze, oltre che nel contesto di selezione dell’occupazione nell’impresa, è ed stata oggetto  di sperimentazione efficace nelle fasi conclusive della formazione sia scolastica che, soprattutto, professionale.
Tanto più se si tratta di “certificazione” (si veda oltre), una scheda di descrizione delle competenze alla fine della scuola primaria mi pare scavalcare il processo di sviluppo del soggetto, ancora largamente diretto ad esplorare potenzialità non consolidate, e vincolarlo in una rappresentazione formale che potrebbe essere smentita nell’arco di qualche mese (tale è la dinamica personale in quell’età). Si pensi ad un livello D “lo studente, se opportunamente guidato, svolge compiti semplici in situazioni note”.
A parte l’effetto di tale giudizio sul livello di autostima, lo sconforto che si genera rispetto alle potenzialità di prosecuzione degli studi, il sottacere le “performances migliori” dell’alunno stesso, cosa potremmo dire se il medesimo alunno dopo le vacanze estive passate nel suo primo campeggio da scout tornasse con la medaglia di chi “misurandosi con situazioni reali nuove si è affermato come  guida e riferimento dei compagni della sua squadra…”? A quell’età, per fortuna, succede e purtroppo spesso e “non ostante” la scuola. Meglio esplorare e rielaborare ipotesi, diagnosi e  dubbi che compilare schede.
Per quelle età preferirei che invece che alla “certificazione delle competenze” l’insieme delle osservazioni e dell’impegno diagnostico della scuola (varrebbero comunque le osservazioni precedenti) fosse diretto alla descrizione dei diversi stili cognitivi e affettivi espressi dallo studente, salvaguardandone il potenziale di sviluppo che la scuola può sostenere e ausiliare, ma spesso non determinare.

3.   Poste tutte le osservazioni relative alla complessità degli oggetti e dei compiti proposti, più che adeguatamente rappresentati nelle stesse linee guida, trovo personalmente che il termine “certificazione” sia utilizzato con troppa disinvoltura e forse non adeguata semantica.
Vero è che per la Pubblica Amministrazione nazionale “certificare” significa, nella sua corrente attività, “rilasciare un certificato”. Ma qui occorre superare tale banalizzazione.
Siamo abituati a considerare la “certificazione” come attività assicurata da un soggetto “terzo” e indipendente (si pensi alle certificazioni di qualità cui molte scuole accedono)
Nelle stesse Linee Guida (si veda l’allegato che presenta un ”glossario”) alla voce “certificazione” si dice “procedura di formale riconoscimento da parte di un ente titolato in base alle norme generali ai livelli essenziali delle prestazioni e agli standard fissati dalla legislazione vigente…”  e si richiama il Dlgs n. 13 del 2013, non la normativa scolastica relativa alla valutazione.
Vorrei che tutti i docenti si misurassero con quel dispositivo normativo. Esso disegna efficacemente la portata di ciò che viene richiesto alla scuola come “ente titolato”. Riporto qui solamente parte del primo articolo, che riassume la portata di quel Decereto legislativo ( che non riguarda solamente la scuola, ovviamente. Le evidenziazioni sono mie)
“La Repubblica, nell'ambito delle politiche pubbliche di istruzione, formazione, lavoro, competitività, cittadinanza attiva e del welfare, promuove l'apprendimento permanente quale diritto della persona e assicura a tutti pari opportunità di riconoscimento e valorizzazione delle competenze comunque acquisite in accordo con le attitudini e le scelte individuali e in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale.
Al fine di promuovere la crescita e la valorizzazione del patrimonio culturale e professionale acquisito dalla persona nella sua storia di vita, di studio e di lavoro, garantendone il riconoscimento, la trasparenza e la spendibilità, il presente decreto legislativo definisce le norme generali e i livelli essenziali delle prestazioni per l'individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e gli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, riferiti agli ambiti di rispettiva competenza dello Stato, delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, anche in funzione del riconoscimento in termini di crediti formativi in chiave europea.”
E’ pur vero che lo stesso decreto, enumera le scuole tra gli “enti titolati”, ma a me pare che proprio la considerazione del perimetro e dello spessore della questione ”certificazione delle competenze” delineata dalla legge (si pensi al riferimento ai livelli essenziali di prestazione), avvalori le preoccupazioni che sono disseminate in queste righe.

Ripeto ciò che dissi in un intervento di appoggio alla campagna di abolizione del voto numerico.

Anche in questa prospettiva, apprezzandone la portata innovativa, affrontiamola come occasione non tanto di implementare “nuove schede” e strumenti, quanto per decostruire e ricostruire la cultura e la prassi valutativa della nostra scuola, possibilmente senza “ideologismi” prigionieri di speranze salvifiche negli strumenti o di denuncie di “congiure” aziendaliste e meritocratiche.
Perché una cosa è certa: la cultura e la prassi valutativa della nostra scola non vanno bene, non funzionano. Producono una enorme quantità di “scarti” come se avessero dei traguardi di qualità altissimi. Ma gli scarti sono accompagnati invece da livelli di qualità inaccettabili in qualunque analisi di comparazione. Dunque non va bene, e da qui partiamo.

 


[1] Chiedo scusa della autocitazione. Una disamina sintetica di tali tecniche si può trovare in Franco De Anna “Valutare i dirigenti della scuola”, Spaggiari Casa Editrice, Parma, 2006, pagg 196-231.

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