24.02.2013
La
valutazione delle scuole e lo sterco del diavolo.
Risorse economiche e “risultato”
di Franco De Anna
In altri interventi sul tema della valutazione delle scuole (su questo ed
altri siti on line) ho cercato di dipanare una riflessione critica che si
misurasse con il problema, e non con le reazioni più o meno polemiche che
alcune prospettive di soluzione di esso proponevano al dibattito sulla e
nella scuola, scontando inevitabili semplificazioni e riduzionismi.
In un mio recente contributo (“La valutazione delle scuole: una voce di
agenda o un impegno?”,
www.educationduepuntozero.it) ho proposto un approccio critico ad una
di queste semplificazioni contenuta nella legge di stabilità che connette
meccanicisticamente finanziamento alle scuole e loro “risultati”. Provo ora,
a sviluppare ulteriormente, anche al di là del contesto polemico verso la
legge citata.
Il nesso “deterministico”
risorse-risultati ha una forza argomentativa che proviene interamente dalla
semplicità del costrutto, fino ad alimentare una rudimentalità del
ragionamento che, come sempre accade, costituisce il terreno comune che
abilita tesi anche diametralmente opposte (l’assenza di pensiero è purtroppo
spesso un elemento unificante).
Sulla base di tale semplificato assunto, infatti, si riesce ad affermare da
un lato “basta finanziamenti a pioggia… incentiviamo i migliori” e
dall’altro ”bisogna investire (spendere) di più nell’istruzione se si
vogliono ottenere risultati”.
L’apparente forza argomentativa del costrutto risorse-risultati è in realtà
fondato sul criterio della “scatola nera”. Risorse in ingresso, risultati in
uscita, e semmai un (problematico) meccanismo di sensato feed-back tra input
e output.
L’approccio meccanico (funzionalismo) sembra esentare tutti (vedi le
posizioni contrapposte citate) dal chiedersi (e a misurarsi con la fatica
scientifica di tale interrogazione) cosa ci sia nella black box, quale
sistema di variabili interagiscano nel produrre i risultati, e quale
dinamica di sviluppo presieda a quella combinazione di variabili.
Commentando la bozza di regolamento per il sistema nazionale di valutazione
(vedi qui) proponevo un approccio alla valutazione di sistema per la scuola,
che tenesse conto della sua “complessità” e esplorasse i cinque livelli
gerarchicamente (concettualmente e operativamente) connessi per valutare una
“politica pubblica”. Rimando a quel contributo.
Ma facciamo una sorta di esperimento
ideale. Poniamoci dal punto di vista di un finanziatore pubblico che
distribuisce le risorse necessarie ad un “produttore autonomo” per produrre
un servizio “universale” come la fruizione di un diritto fondamentale di
cittadinanza come l’istruzione. Collegare finanziamento a risultati è un
“dovere” del finanziatore pubblico: le risorse provengono dai cittadini
stessi (fiscalità) e il loro rendimento costituisce (dovrebbe costituire) un
criterio di valutazione differenziale nei confronti del decisore pubblico e
della sua capacità di rispondere del bene pubblico (esercizio fondamentale
della deliberazione di cittadinanza: il feed back democratico).
Ma, proprio per questo, il protocollo di valutazione che il decisore
pubblico applica (dovrebbe), deve misurarsi con la “composizione specifica”
che l’input di risorse realizza con l’insieme delle variabili che operano
nella black box. Insomma il protocollo valutativo “ deve” aprire la scatola
se vuole misurare davvero i rapporto tra risorse e risultati. Non sono
ammessi, proprio per le responsabilità della politica pubblica, semplicismi,
approssimazioni rudimentali, o al peggio, opportunismi e indebite
connivenze, rispetto alla complessità delle variabili che presiedono alla
“combinazione” specifica delle risorse e dunque ai risultati.
Nel nostro “esperimento ideale” prescindiamo qui da altre importanti considerazioni problematiche (prima tra tutte: come misurare e valutare i risultati; ma anche: quale padronanza dei fattori di produzione come il personale, lo sviluppo organizzativo, le regole di funzionamento, ha il produttore). Potremmo tornarci in altri contributi, se la pazienza ci sorregge. Qui ci esercitiamo sulla variabile “risorse” finanziarie. (Da qui il titolo provocatorio).
Una scuola è una organizzazione
complessa. E’ certo descrivibile in termini di organigrammi, distribuzione
di incarichi, ruoli assegnati, progetti formalizzati e dichiarati. Ma anche
(o sopratutto secondo alcune scuole di pensiero) in termini di significati
comuni scambiati nel collettivo, attese speranze e ansie comuni, linguaggi e
forme della comunicazione, leadership formali e informali, riconosciute e
non.
Non sono gli organigrammi (le forme esterne di un architettura) a reggere
l’edificio organizzativo; sono gli impliciti, le latenze (lateres… mattoni).
Guai se la valutazione si fermasse al livello della forma dell’edificio:
darebbe esiti assolutamente inconsistenti. Deve al contrario misurarsi con
quell’insieme di variabili che, per sintetizzare, indico con il termine
“cultura organizzativa” (l’insieme dei significati assegnati e scambiati
collettivamente)
La complessità reale, esplicita e latente, di una organizzazione si “rivela” in particolare sulla superficie di separazione con il mondo (il contesto) esterno. La composizione specifica delle variabili che presiedono alla vita reale di una organizzazione (quelle evidenti e quelle latenti) influisce direttamente sulla “permeabilità specifica” della membrana di confine interno/esterno.
Le risorse economiche (lo sterco del
diavolo) sono uno degli oggetti (essenziali) di tale scambio attraverso la
membrana.
Il significato che ad esse viene assegnato dalla “cultura organizzativa”
della singola e specifica scuola ne determina grandemente sia l’uso che i
risultati del loro uso.
Per esemplificare ricorro a due (tra le tante) esperienze sul campo.
Primo esempio.
Progetto cl@ssi 2.0 nella scuola Media. Il finanziatore pubblico eroga
30mila euro a scuola da destinarsi all’investimento in strumentazione
digitale in una classe selezionata. Le risorse sono distribuite secondo
specifiche esplicite per selezionare le scuole candidate. La distribuzione
reale è affidata alle strutture territoriali dell’amministrazione (USR).
Ho monitorato un campione di scuole (40 dal Friuli alla Sicilia)
visitandole direttamente, osservando le attività in classe e interloquendo
con i protagonisti. L’esito dell’osservazione mi consente di individuare
almeno tre gruppi di significati diversi assegnati al finanziamento ottenuto
e impegnato: per alcune scuole si tratta di uno “start up” (l’innesco di un
progetto innovativo); per un altro gruppo si tratta di un contributo in
termini di “ricerca e sviluppo” di quanto già hanno autonomamente
sperimentato da tempo con autonome scelte di investimento; per un terzo
gruppo si tratta di “remunerazione” di uno “stereotipo progettale” (lo
sviluppo di una “retorica progettuale” è stato un sottoprodotto, certo non
desiderato in partenza, di alcune interpretazioni dell’autonomia).
Non cito la distribuzione tra i tre gruppi, ma sono sostanzialmente
equivalenti. Si tratta evidentemente di una “valutazione” qualitativa (esito
dell’osservazione diretta e della interpretazione dell’osservatore) ma ha
riscontri quantitativi. Nel campione osservato quel finanziamento uguale
(30mila euro) corrispondeva per alcune scuole a meno del 5% delle entrate,
per altre arrivava a rappresentare oltre il 20%. (qui il dato è desunto
direttamente dalla analisi del Bilancio effettuata dall’osservatore). Non
occorre grande fantasia interpretativa per considerare che il “significato”
assegnato a quelle risorse finanziarie sia non solo soggettivamente diverso,
ma che tale diversità abbia anche un fondamento “oggettivo”.
Il riflesso di tali differenze sulle interpretazioni reali assegnate all’uso
di quelle risorse e sui risultati perseguiti e raggiunti è altrettanto
evidente: dai livelli di coinvolgimento del collettivo attorno al progetto,
al rapporto dentro/fuori con il territorio e l’utenza, al livello di
“saturazione” raggiunto rispetto alle attrezzature tecniche, fino alle
condizioni di “riproducibilità” dell’innovazione a regime. Come sostenuto in
termini generali: il rapporto tra investimento e sua redditività è
profondamente condizionato dalla cultura organizzativa e dai significati
assegnati alle risorse economiche fruite.
Secondo esempio. Scuola Media di una regione PON. Con finanziamento europeo
un docente di grande professionalità ed inventiva progettuale ha acquistato
una piccola fresa a controllo numerico (di quelle usate da odontotecnici o
da orafi). In laboratorio di informatica gli studenti (scuola media!)
progettano “pezzi”, geometrie, ma anche sculture, bassorilievi, utilizzando
applicazioni software. Esercitano capacità di calcolo, disegno, fantasia
creativa. Comandano da PC la fresa che trasforma i loro progetti in oggetti.
Bellissimo.
Ma il docente è l’unico che sappia fare tutto ciò con la sua classe. Il
laboratorio è una sorta di sanctasantorum cui si accede attraverso cancelli
di ferro scrupolosamente controllati. La scuola è al confine tra un
quartiere di ceto medio ed un quartiere di sottoproletariato presidiato da
famiglie mafiose. Poche settimane prima della mia visita, alla scuola
(edificio nuovo) sono stati rubati gli infissi. Operazione notturna ma
avvenuta evidentemente sotto gli occhi di tutti (entrambi i quartieri di
riferimento): ci vuole un camion per trasferire gli infissi e qualche lavoro
non silenzioso e non rapido per estrarli dai loro alloggiamenti senza
deteriorarli.
L’investimento di risorse europee (che altre scuole invidierebbero),
aggiunto a quello del MIUR per lo sviluppo digitale, è servito in questo
caso per costruire “una cattedrale nel deserto”. Il risultato immediato è di
altissima qualità. La sua redditività “di sistema” e la riproducibilità del
risultato sono quasi nulle. Come dovrei valutare, secondo il paradigma
semplificato del rapporto meccanico tra risorse e risultati?
Ho scelto volutamente esempi di
impiego delle risorse in strumentazione tecnica. Ma anni di impegno nella
valutazione di progetti PON hanno messo gli osservatori (almeno chi si è
misurato con l’analisi delle risorse economiche in un protocollo valutativo
dell’INVALSI che su questo è particolarmente debole e insufficiente. E il
motivo è istruttivo: il Ministero arrogò a sé questo oggetto di analisi) di
fronte a destinazioni di risorse prevalentemente indirizzate a remunerare
lavoro, quello interno dei docenti e quello esterno di consulenti e figure
specialistiche.
Nulla di riprovevole, ovviamente. Ma un evidente rischio di
autoreferenzialità tra chi progetta, il motivo per cui lo fa, la
distribuzione delle risorse ed i risultati. Autoreferenzialità (e qualche
tentazione di opportunismo) che deformano sia le strategie di investimento
(la scelta tra diverse alternative) sia gli esiti, sia la pertinenza di
protocolli valutativi “esterni”. Qui davvero “lo sterco del diavolo”.
Naturalmente vi è una sorta di
“retropensiero” che giustifica, sul fronte ministeriale, il paradigma della
black box. Non si pensa necessario ”aprire la scatola” perchè si ritiene, o
si auspica, che il suo contenuto sia sempre il medesimo e corrisponda al
“modello ministeriale” presidiato da circolari, regolamenti, direttive e
quant’altro animi (?!) la linea di comando che parte da Viale Trastevere.
L’autonomia non è mai stata (tranne che a parole e per scaricare
responsabilità) un must per il Ministero. A ciascuno le sue ipotesi
politiche; ma il problema è, in questo caso, la perdita di realtà (grave
difetto per un valutatore).
Al di là dei due esempi concreti, come utilizzarli per estrarne argomentazioni di carattere generale, circa la determinazione di sensati protocolli di valutazione di sistema, sia pure sull’oggetto parziale assunto nel nostro “esperimento ideale”, come il nesso risorse-risultati?
Un assennato protocollo di
valutazione che sappia rintracciare il senso del rapporto risorse-risultati,
non accontentandosi del paradigma della black box, guardando cioè “dentro”
la scatola, dovrebbe prima di tutto misurarsi con l’apprezzamento della
autonoma “propensione all’investimento” della organizzazione specifica
sottoposta a valutazione.
La domanda è semplicissima “Cosa farebbe l’organizzazione se avesse a
disposizione 30mila euro (ma la quantità potrebbe essere diversa) da
impiegare senza vincoli?” (si diverta il lettore a qualificare meglio la
domanda arricchendola di specificazioni, ma senza esagerare. Ci importa
l’interpretazione “autonoma” dell’organizzazione).
Le risposte, la loro distribuzione, unità, diversificazione, costituirebbero
un repertorio sintomatico rivelatore sia della “cultura organizzativa”
specifica, sia dei modelli interpretativi delle strategie, delle priorità,
sia delle consapevolezze dei ruoli, della missione, delle funzioni pubbliche
esercitate.
Ma tale esplorazione preliminare della “propensione all’investimento”
dovrebbe esercitarsi sia sul “dichiarato” (le significazioni esplicite che
corredano la cultura organizzativa) sia sulla struttura.
E dunque dovrebbe accompagnarsi anche con una analisi (questa tutta
quantitativa) condotta su una indicizzazione opportuna dei Bilanci delle
scuole. La destinazione e composizione della spesa, sia sui grandi
aggregati, sia sulle singole attività.
Ma anche tale compito quantitativo non è risolto dalla semplice compilazione
di tabelle o questionari. E’ sempre necessaria la lettura analitica dell’
osservatore ed la sua responsabilità interpretativa e diagnostica per
affrontare il compito di ricostruire le correlazioni sensate tra il livello
delle dichiarazioni e la struttura delle politiche di spesa.
La considerazione della funzione di
“mediazione” che la cultura organizzativa elaborata da una organizzazione
esercita sul rapporto risorse-risultati è particolarmente rilevante
(decisiva per la valutazione e per i suoi effetti) quando si eserciti sulla
“membrana” di confine tra l’organizzazione stessa ed il contesto di azione.
Sul confine dentro-fuori si determinano infatti le condizioni di redditività
nel tempo degli investimenti e di riproducibilità dei risultati (la
possibilità di evitare le “cattedrali nel deserto” dell’esempio riportato).
La ricerca in altri campi (per esempio la salute) dimostra ampiamente che la
correlazione tra investimenti intensivi e risultati è tutt’altro che
lineare. L’indice medio di salute di una popolazione cresce, per esempio, al
crescere di risorse impegnate in dispositivi diagnostici o in farmaci. Ma
oltre un certo limite la curva si appiattisce (potete moltiplicare le
apparecchiature di risonanza magnetica, ma l’indice di salute non muta).
Diviene più “redditizio” l’investimento diffuso e a bassa intensità in
“cultura della salute”, per esempio in cultura della prevenzione. I
risultati non sono immediati e immediatamente misurabili, la correlazione si
fa più lasca, ma gli effetti si rivelano e consolidano nel tempo.
In una “impresa” ad alta intensità di lavoro e a mercato diffuso (il
“mercato” di riferimento è l’intero contesto sociale), come è la scuola, la
“composizione” delle risorse investite è fondamentale per determinarne la
redditività e dunque i risultati. Occorre cioè calibrare un doppio
obiettivo: aumentare la “composizione tecnica” dell’offerta (strumentazioni,
impianti) e fare leva sulla composizione della domanda (cultura,
professionalità, domanda sociale). Vedi il secondo esempio commentato più
sopra.
L’appropriatezza della “cultura
organizzativa” dell’organizzazione scolastica che si vorrebbe valutare, nel
determinare il rapporto risorse risultati, è a sua volta correlata ad alcune
variabili di inevitabile portata “soggettiva”.
Innanzi tutto le caratteristiche della direzione. Sotto il duplice (e
distinto) profilo del management e della leadership (troppo
semplicisticamente rese “sinonimi” in molte elaborazioni, spesso “di
comodo”). Un dirigente, se è un buon organizzatore, potrebbe non avere nulla
da fare materialmente lungo la sua giornata (è ovviamente un paradosso) se
non “presiedere” con accuratezza e costanza alla costruzione ed allo scambio
di significati collettivi che formano la “cultura organizzativa”, non
“determinandone” i contenuti, ma presidiando discretamente gli scambi e gli
incroci comunicativi. La “conversazione” organizzativa, in altre parole.
Sia detto per inciso, sotto tale profilo, molte elaborazioni su “leadership
pedagogica”, leadership diffusa, “collegialità” ecc… meriterebbero qualche
falsificazione critica (fino alla “giustizia sommaria”. Ma questa è una
impertinenza personale).
Sul fronte della docenza la mediazione operativa tra esperienza,
motivazioni, professionalità individuali nel determinare il rapporto
risorse-risultati è più che evidente.
L’aggregato complesso che ho chiamato “cultura organizzativa” sembra essere
il fattore determinante nel produrre la variabilità inaccettabile che
caratterizza le condizioni operative (e i risultati nelle rilevazioni sui
livelli di apprendimento) del nostro sistema di istruzione nelle diverse
aree del Paese. (A meno di ipotizzare improponibili differenze
antropologiche).
Il suo effetto è ancora più significativo di quello dei differenziali di
risorse economiche messi in campo per superare le differenze di contesto
sociale (la storia delle risorse dei PON ma anche quella degli impegni per
lo sviluppo del Meridione lo sta a dimostrare).
Dunque le “risorse umane” (orribile allocuzione) e la loro assennata
combinazione sono un fattore determinante di risultato.
E la “cultura organizzativa” elaborata e messa in opera costituisce un
insieme di variabili che, in correlazione complessa, operano la
diversificazione dei risultati a parità di ogni altra misura amministrativa,
compresa la politica di spesa, quali sono misurabili nel confronto tra le
diverse arre del Paese.
Investire in “risorse umane” (lo stereotipo usuale della “formazione”)?
Certo.
Ma perché non incentivarne lo scambio e la mobilità? Favorire una
“migrazione” di dirigenti e docenti in senso opposto. O una migrazione ed un
ritorno finalizzato? Perché non “copiare” nella scuola il progetto “Angels”
del Ministro Barca destinato all’Università? (Migrazione incentivata di
giovani ricercatori in prestigiosi centri di ricerca internazionali con
l’impegno al ritorno ed al trasferimento in patria dei modelli organizzativi
appresi..) Investimento a bassa intensità come quelli ricordati in campo
sanitario.. Che poco si sia discusso di quel progetto, è tristemente
significativo della rudimentalità del confronto sull’investimento in
istruzione, anche quando venga invocato come salvifico del nostro futuro.
Se occorre aprire la black box e
guardarci dentro, un protocollo valutativo che si basi su strumentazione “a
distanza” come report, questionari, fascicoli rielaborati dal Ministero,
interrogazioni e risposte date dal valutato al valutatore sono del tutto
insufficienti.
Sono strumenti di ricerca da utilizzare appropriatamente, ma tutt’altro che
esaurienti e esaustivi. Anzi contengono sempre un doppio rischio.
In primo luogo la “stereotipia” delle risposte e la deformazione del
materiale diagnostico. In secondo luogo l’effetto della tentazione di
moltiplicare gli strumenti di rilevazione formale, i report richiesti, i
questionari da compilare. Una vera e propria “molestia documentaria” che le
scuole già conoscono, e che cercano di neutralizzare.
Può sembrare che fondare un protocollo valutativo su tali strumenti
garantisca “oggettività” e comparabilità della rilevazione. E anche
semplificazione e minori costi. Ma a prezzo della insignificanza
diagnostica.
Nulla di tutto ciò sostituisce l’osservazione diretta sul campo (neppure
nell’analisi di un bilancio) e l’assunzione critica di tutti i rischi che
ciò comporta (i difetti intrinseci dell’osservazione, la clinica della
elaborazione del rapporto asimmetrico tra valutato e valutatore).
Ma, delle tre colonne che dovrebbero fondare il sistema nazionale di
valutazione (autovalutazione, miglioramento, valutazione esterna),
quest’ultima è lasciata in completa assenza di sperimentazione. (e
l’andamento dell’ultimo concorso ispettivo sembra convalidare tale
insignificanza).
Le proposte in gioco (vedi anche VALES) sembrano esentare dall’impegno in
ricerca e formazione dei valutatori che sarebbero ancor più necessari per un
protocollo di osservazione sul campo.
E invece proprio il sistema della ricerca educativa è stato smontato. (Vedi
l’ormai decennale processo di “riorganizzazione”, in realtà
destrutturazione, del sistema della ricerca educativa )
Ma allora, meno enfasi innovativa, per favore.