Pagare gli
insegnanti secondo
il merito? E’ questa
la parola d’ordine
che un po’ sotto
tutte le latitudini
sembra campeggiare
nelle intenzioni dei
vari ministeri
dell’istruzione. In
Italia con la legge
107, la cosiddetta
Buona Scuola, che
però la maggioranza
degli insegnanti
sembra considerare
una pessima scuola,
si è presa
addirittura una
scorciatoia: chi
merita lo deciderà
direttamente il capo
di istituto con
l’ausilio di un
comitato di
valutazione il quale
nonostante il nome
non valuterà , ma si
limiterà a fornire
criteri per la
valutazione. La cosa
ha trovato una forte
opposizione in
Italia, dove non
esisteva finora
nessuna valutazione
individuale degli
insegnanti (se non
“piccole”
valutazioni
dell’anno di prova,
o all’atto di una
riabilitazione da
una punizione,
ovvero in passato le
storiche note di
qualifica che una
volta davano i capi
di istituto e che
furono soppresse nel
1974). Ma per la
verità ha trovato
una forte
opposizione anche in
altri paesi come la
Francia e la Gran
Bretagna dove le
carriere degli
insegnanti sono in
parte o in toto
dipendenti da
valutazioni. Anche
in questi casi la
cosa non è gradita
perché
sostanzialmente
finisce con
l’approdare alla
valutazione delle
“performances” e di
qui a quella dei
risultati degli
alunni, facendo
corrispondere la
qualità
dell’insegnante a
quella dell’alunno
la quale invece
dipende da
molteplici fattori
su cui l’insegnante
ha un potere sempre
più piccolo. In
Italia invece le due
cose sono
paradossalmente, per
ora, separate: dopo
aver speso capitali
nell’istituzione di
un istituto di
valutazione
(INVALSI) e nelle
sue “ricerche” e
valutazioni degli
apprendimenti degli
alunni nel
macrosistema, nel
microsistema, cioè
nelle singole
scuole, il tutto è
affidato de facto
all’arbitrio del
dirigente
scolastico.
Tutto ciò tuttavia
non ha preso il via
né dalla Francia, né
dalla Gran Bretagna
(che pure per
ragioni di
omogeneità nazionale
valutava già gli
apprendimenti degli
alunni), né
dall’Italia, ma
dagli Stati Uniti
nel corso degli anni
settanta soprattutto
in virtù della
trasposizione nel
sistema scolastico
di logiche afferenti
l’organizzazione
aziendale, secondo
uno schema mentale
tipicamente
americano. E
tuttavia anche lì si
tratta di un
fenomeno tutt’altro
che consolidato e
per niente diffuso a
tappeto.
Uno dei motivi della
sua mancata
diffusione è
rintracciabile nella
struttura stessa
della scuola
americana assai
diversa da quella
europea. Il sistema
scolastico è formato
da circa 94.500
scuole pubbliche che
scolarizzano circa
50.000.000 di alunni
su circa 55.000.000
(contrariamente a
quel che si pensa il
privato scolastico
negli USA è poco
frequentato, diverso
è per le
università). E’
decentrato in 13.500
distretti scolastici
corrispondenti o a
una grande città o a
una contea, di
dimensioni e
popolazione
scolastica perciò
molto diverse.
Questi distretti
sono governati da un
“board”, per lo più
eletto nelle
elezioni locali, che
designa un
sovrintendente. Ogni
distretto è
autonomo, non solo
rispetto al potere
federale (che
contribuisce appena
al 9% delle spese
scolastiche), ma
anche in buona parte
rispetto allo stato
di appartenenza. Le
principali decisioni
in materia di
educazione quindi si
prendono o a livello
del distretto o a
livello dello stato,
anche per quel che
riguarda
reclutamento e
salari degli
insegnanti,
definizione dei
programmi e modalità
di valutazione degli
alunni. Non esistono
quindi né programmi
né esami nazionali.
Esiste solo un test
campionario (sic!)
nazionale (NAEP=National
Assessment of
Educational
Progress) a cui le
scuole si
sottopongono di anno
in anno a rotazione,
che permette di
avere una vaga idea
generale dello stato
di preparazione
degli alunni
americani.
In un tale sistema
il ruolo dei
genitori e della
“comunità educativa
locale” è
determinante de
facto e de jure,
attraverso numerose
istituzioni alcune
elette nelle
elezioni
amministrative
locali che
dispongono di poteri
molto estesi. Un
sistema sicuramente
democratico e che
porta molto
dibattito locale
sull’educazione ma
che, come si sa, può
approdare anche a
derive sconcertanti,
quali quelle che in
passato hanno
riguardato la
segregazione
razziale o quelle
odierne che
riguardano spesso
l’insegnamento di
teorie creazioniste
contrapposte a
quelle
evoluzioniste.
Inoltre il sistema
americano, a
differenza di quello
enciclopedista
europeo centrato
sulle conoscenze,
insiste molto sullo
sviluppo della
creatività e
dell’espressione
personale con
l’obiettivo di
un’integrazione
sociale che sia
anche
un’integrazione
rapida. Un terzo
elemento che
caratterizza il
modello educativo
americano e che da
una ventina d’anni
preme sul sistema
scolastico è un
rapporto tipo
venditore-consumatore,
per cui la scelta
della famiglie
diventa un elemento
condizionante. Di
qui la scelta della
scuola migliore
piuttosto che lo
sforzo di
cambiamento delle
situazioni critiche.
Questo elemento ha
da un lato dato
luogo a fenomeni
fortemente (ed anche
erroneamente) troppo
enfatizzati in
Europa quali le
charter school, le
virtual school e
l’home schooling:
tutte scuole a
regime derogatorio.
Le charter school
potrebbero essere
definite scuole
pubblico-private,
pubbliche per i
finanziamenti che
ricevono ma private
nelle scelte che
vanno dai programmi
di insegnamento al
mancato rispetto dei
minimi sindacali per
gli insegnanti. Ma
esse sono appena
6.000 sulle 94.500
di cui abbiamo già
parlato e
scolarizzano circa
il 3% degli alunni.
Anche l’home
schooling, cioè
l’educazione a
domicilio,
scolarizza
altrettanto. Le
virtual school
fondate
sull’e-learning,
cioè l’educazione a
distanza mediante
supporti
informatici, ha una
valenza
complementare vuoi
nei doposcuola, vuoi
in alcune discipline
specialistiche in
zone rurali
(evitando così di
ricorrere a costoso
personale
specializzato)ovvero
per
l’implementazione
delle altre scuole a
regime derogatorio
(charter virtual
school, home virtual
schooling). Nella
politica americana
tutti questi
esperimenti hanno
trovato tuttavia il
sostegno di entrambe
i partiti, quello in
cui invece i
democratici si sono
distinti dai
repubblicani è stato
il sistema dei
voucher per le
famiglie, idea che
anche da noi aveva
trovato sostenitori,
ma che la Corte
Suprema degli USA ha
più volte bocciato
senza tanti fronzoli
perché violava la
separazione tra
stato e chiese, dal
momento che la
maggioranza delle
scuole private
dipendono da
autorità
ecclesiastiche.
Dall’altro lato
questa tradizionale
ispirazione
commerciale della
mentalità americana,
unita a questi
esperimenti e alla
pressione delle
scuole private, ha
negli anni
fortemente
alimentato ipotesi
concorrenziali che
dalla concorrenza
tra le scuole si è
trasferita a quella
tra gli insegnanti.
A questo ha
contribuito un altro
programma molto
sopravvalutato nella
pubblicistica
italiana: il
programma No Child
Left Behind. In
realtà questo
programma fu molto
osteggiato dal
principale sindacato
degli insegnanti, la
National Education
Association (NEA,
3.200.000 iscritti)
e accolto
inizialmente con
qualche riserva
dall’altro
sindacato, l’
American Federation
of Teachers (AFT,
1.300.000 iscritti)
prima di passare
armi a bagagli sulle
posizioni della NEA.
Si trattava di un
programma varato
dall’amministrazione
Bush, repubblicana
ma sottoscritto
anche dai
democratici: quindi
un programma
bipartisan che si è
tradotto in norme
che prevedono una
valutazione,
applicata solo in
alcune classi della
primaria e della
secondaria
inferiore, non più
difficile(anzi di
livello più basso)
del NAEP, ma più
rigorosa. In sé non
si trattava ancora
di una valutazione
del merito
individuale degli
insegnanti, ma la
sua logica
valutativa ha
contribuito
rafforzare l’idea
che a un buon
risultato dovesse
corrispondere un
insegnante più
capace di insegnare,
che tutta la qualità
dell’apprendimento
derivasse dalla
qualità
dell’insegnante.
Un terzo elemento
che ha concorso ad
alimentare una
logica di ulteriore
differenziazione
individuale è stato
il confronto con le
università dove i
salari variano sia
secondo la ragione
sociale
dell’istituzione (
nel privato sono di
un 30% più alti che
nel pubblico) sia
secondo il ruolo
(scala da 100 a 250)
sia secondo la
disciplina (scala
100-200).
Tralasciando i primi
esperimenti di
valutazione della
produttività degli
insegnanti, che
risalgono al periodo
d’oro del taylorismo
(1910-1930) e che,
fondandosi su
misurazioni
esclusivamente
quantitative,
produssero anche
amenità parametrali
come ad esempio la
quantità di gessetti
consumati, i primi
tentativi di una
misurazione delle
differenze di lavoro
degli insegnanti
risalgono al 1969.
Dal 1950 fino a
quella data il
sistema di
retribuzione dei
docenti nella quasi
totalità dei
distretti scolastici
americani era
fondato sul grado
del titolo di studio
e sull’anzianità di
servizio, più o meno
come da noi. Ma nel
1969
(amministrazione
Nixon) i primi
tentativi di
introdurre un
criterio di tipo
aziendale si scontrò
con la reazione
decisa dei sindacati
e finì anche col
costare “la testa”
dei dirigenti
distrettuali che
l’avevano tentata (Kalamazoo,
Michigan, 1974)
L’idea dello
stipendio in base al
merito, conosce una
nuova attualità nel
1983
(amministrazione
Reagan) in seguito a
un rapporto dal
titolo allarmante:
“A Nation at Risk” .
Tuttavia la sua
messa in opera si
scontra con la
vivace opposizione
degli insegnanti. Le
motivazioni
dell’opposizione si
focalizzano sul
fatto che il merito
è valutato
soggettivamente dal
capo d’istituto
(sic!) o altri
supervisori
appositamente
creati, aprendo la
via a derive di
favoritismo senza
avere
necessariamente
legami con una reale
efficacia educativa.
In seguito a ciò
questi primi
tentativi furono
molto velocemente
abbandonati.
La vera partenza di
un sistema di
pagamento in base al
merito si ha a
partire dal 1999 a
Denver, Colorado,
con la sigla ProComp
(professional
compensation system)
e con una
valutazione su
quattro serie
parametrali: le
competenze, una
valutazione
professionale, il
rapporto col mercato
del lavoro (
discipline rare,
classi difficili) e
progressi degli
alunni. L’avvio è
frutto di una lunga
negoziazione (1) che
culmina in due
referendum locali
uno tra la
cittadinanza (che
paga gli aumenti
attraverso una
maggiorazione delle
tasse: 58% di sì) e
uno tra i docenti
(59% di sì). Ma
essendo l’adesione
al programma
volontaria e con
beneficio medio di
circa 12% in più
sullo stipendio
solamente il 28% dei
docenti si
sottoposero alla
valutazione, una
cifra che però col
tempo è cresciuta
fino al 50%.
Il metodo del
confronto sindacale
e del referendum tra
gli interessati non
è una rarità: anche
nel caso di
Nashville,
Tennessee, nel 2007,
dove entra in azione
un esperimento della
Venderbilt
University sugli
insegnanti di
matematica delle
scuole medie, con
premi variabili dal
12 al 36% di
maggiorazione, la
cosa è contrattata
con il sindacato
locale e sancita da
un referendum tra
gli iscritti col 75%
di voti positivi.
Nell’insieme
tuttavia il sistema
del merit pay non è
per niente diffuso:
riguardava nel 2010
solo 6 o 7 stati su
50 che compongono
l’Unione (oltre a
Colorado e
Tennessee, Iowa,
Alaska, Texas,
Minnesota, Florida )
e all’interno di
questi solo alcuni
distretti, sui già
citati 13.500 a
livello nazionale.
(2)
Nell’insieme si può
dire questo: che
anche in un paese
dove non ci sono
remore a sostenere
che ciò che va bene
per le aziende può
andare bene anche
per la gestione
pedagogica, l’idea
della valutazione
del merito è
semplice da
sostenere, ma assai
più problematica da
mettere in pratica.
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(1) La negoziazione
sindacale nella
scuola è prevista
negli USA in forme e
gradazioni diverse,
tranne che in 5
stati (Texas,
Georgia, Nord e Sud
Carolina e
Virginia).
(2) Una valutazione
è in vigore anche
nello stato di New
York, ma si tratta
di una valutazione
delle scuole non dei
singoli insegnanti.
La cosa è stata a
lungo oggetto di una
polemica tra i
democratici,
favorevoli ad una
valutazione delle
scuole, e i
repubblicani,
favorevoli ad una
valutazione
individuale degli
insegnanti.
Evidentemente ha
prevalso l’idea dei
primi.