23.12.2013
Pulpiti,
prediche e chierici
di Franco De Anna
I “notiziari” della scuola riportano, da giorni, resoconti dell’impegno del
Ministro a reperire un nuovo Presidente dell’INVALSI dopo le dimissioni di
Sestito (a cui va tutta la mia stima..) attraverso procedure trasparenti e ,
se possibile, condivise dal “mondo della scuola”.
L’impresa sembra accompagnata da prese di posizione tese a rivendicare una
“svolta”. Si dice (da più parti implicitamente, ma anche attraverso una
esplicita presa di posizione del “mondo pedagogico”) che occorre porre
termine ad una prevalenza di “economisti” e di “statistici” per valorizzare
invece competenze educative, pedagogiche, ecc..
Non mi piace stare alla contingenza dei comunicati e delle “prese di
posizione” (il mipiaccismo, nonmipiaccismo della politica “appiattita”); ma
alcuni aspetti delle une e delle altre sono istruttivi e si prestano a
riflessioni più sensatamente “critiche”.
Propongo due livelli di argomentazione con diverse misure di scavo.
Il primo è di carattere
assolutamente generale. Il problema che abbiamo di fronte è quello di
definire (anche attraverso una nuova presidenza) un segmento fondamentale
del sistema di Ricerca Educativa del nostro sistema di istruzione.
Il segmento in questione è quello cui è affidato, tra gli altri, il compito
(in buona sostanza appena agli inizi) di costruire un organizzato,
esauriente (per il possibile, sotto il profilo scientifico), validato
dall’esperienza ( ma appunto siamo solo agli inizi) e dalla “ricerca” (idem)
di definire strumenti, modalità, condizioni operative per una “valutazione
di sistema” del sistema di istruzione e formazione nazionale.
La “Ricerca Educativa” rappresenta un insieme (di attività, competenze,
oggetti di ricerca, metodologie, strumenti…) diverso e distinto dalla
“Ricerca Pedagogica”.
La ricerca educativa è “ricerca sul sistema educativo” inteso come
sottoinsieme sociale; macrosistema che implica “funzionalità” sociali,
organizzazione di risorse e professionalità, strumentazione, investimenti,
“economia” (nel senso generale di corrispondenza tra mezzi e fini…),
riproduzione di “significazioni” e simboliche nelle quali si riconosce la
società.
E’ perciò distinta dalla “ricerca pedagogica”. Il confine tra i due ambiti
di ricerca è assai netto.
Il confine, come si sa, è linea di distinzione, ma è, contemporaneamente
linea di scambio.
Dunque è evidente che, sotto il profilo delle competenze professionali,
delle metodologie di ricerca, dei background epistemici, degli stessi
linguaggi, gli scambi, le contaminazioni, le sovrapposizioni sono non solo
inevitabili ma anche necessarie.
Ma ciò non offusca, anzi, la distinzione.
Ma se la ricerca educativa ha il suo specifico nell’essere ricerca “sul”
sistema educativo, allora gli approcci economici, statistici, sociologici
ecc… hanno assoluta pertinenza.
Del resto è così nella ricerca internazionale. L’oggetto della ricerca è un
macro sottoinsieme sociale che impegna risorse pubbliche ingenti, coinvolge
l’universo delle nuove generazioni, esercita influenza e rapporto dialettico
con lo sviluppo economico, con le dinamiche del lavoro e della produzione,
svolge funzioni fondamentali circa la coesione sociale, i processi di
riproduzione e stratificazione sociale. Chiedersi e “misurare” come funziona
non solo è essenziale, ma doveroso per qualunque responsabile di “politica
pubblica”.
Può sembrare una precisazione scolastica e priva di conseguenze. Ma in nome
di essa mi chiedo: che senso ha la “rivendicazione” di una centralità delle
competenze “pedagogiche” nella definizione delle caratteristiche della nuova
direzione dell’INVAlSI?
Intendiamoci. Mi importa davvero molto poco degli “ascendenti” pedagogici o
economici del futuro presidente dell’INVALSI. Mi interessa che sappia
affrontare i problemi della ricerca educativa.
Ma mi incuriosisce ( e insospettisce, lo confesso) che si voglia indicare
come “norma di salvaguardia” le sue competenze “pedagogiche”. Sembra essere
la spia di un fraintendimento (ennesimo) dei compiti e delle funzioni di un
“sistema” della ricerca educativa.
Se il “confine” è anche l’interfaccia dello scambio, che senso ha ribadire
(una presa di posizione pubblica e firmata da diversi esponenti della
ricerca pedagogica) le “riserve” di caccia?
Personalmente l’esperienza in questi anni di lavoro “sul campo”, nel
confronto e nel dibattito (più che franco, ma nel merito) con gli
“econometristi” e gli “statistici” dell’INVALSI mi ha insegnato molte cose.
Il secondo livello di approccio alla
questione ha a che fare con l’attualità “spicciola” e con i motivi
dell’attesa che circonda la nuova nomina.
Sarebbe ingenuo trascurare il fatto che la maggiore “esposizione” (mass
mediatica, sindacale, politica…) dell’INVALSI, come segmento costituente del
sistema della Ricerca Educativa, sia oggi quello della “valutazione di
sistema”.
E’ qui la fonte di molti equivoci ma anche il luogo in cui essi vengono più
o meno consapevolmente alimentati.
La “valutazione” messa in capo all’INVALSI ha due (per ora) capisaldi: le
rilevazioni dei livelli di apprendimento attraverso le somministrazioni
standard relative a Italiano e Matematica e il progetto VALES (e Valutazione
e Miglioramento) come sperimentazione di un protocollo di valutazione delle
organizzazioni scolastiche (in prospettiva, ma ora declinante e/o
problematica, dei Dirigenti scolastici).
Né l’uno né l’altro hanno a che fare
con la “valutazione degli alunni” che è prerogativa insostituibile
dell’esercizio professionale ( e vorrei dire “etico”) del docente.
La dimensione clinica, personalistica, differenziale, promozionale della
attività di valutazione del docente nella relazione educativa con il
discente non ha alcuna commensurabilità con la rilevazione dei livelli di
apprendimento attraverso prove standard distribuite sull’universo dei
discenti. Sono processi diversi e seguono criteri e metodologie diverse, e
soprattutto hanno finalità diverse (vorrei dire sono “scienze” e
“professionalità” diverse).
Le rilevazioni standard appartengono alla “ricerca educativa” (ricerca “sul”
sistema, sulla sua “economia”, sulle sue convenienze, sui risultati delle
politiche pubbliche messe in atto, sulle alternative di investimento…).
Ricerca doverosa, quando si pensi alla necessità di ottimizzare l’impiego di
ingenti risorse pubbliche di cui dare conto ai finanziatori. Cioè a tutti
noi attraverso la fiscalità. Per ciò individuano alcuni “indicatori” di
risultato ( nel caso gli apprendimenti di matematica e italiano:
probabilmente i soli a consentire rilevazioni standard..). Indicatori:
dunque “sintomi”, segnali sintetici che ci consentono di innescare analisi e
ipotesi diagnostiche più complesse. Gli “indicatori” non sostituiscono “la
realtà”.
La valutazione degli alunni appartiene invece alla “clinica” della relazione
educativa. Non può che usare altre metodologie. Non può usare strumenti
“standard” (il “soggetto” non è mai standard, in particolare nella sua fase
evolutiva, come nella scuola..).
La valutazione di un alunno è “diagnosi compiuta”, che si confronta non con
un “indicatore” (un “segnale”) ma con la “realtà di quel soggetto”.
Ma anche qui la nettezza del confine non può far dimenticare che attraverso
il confine passano gli scambi, le contaminazioni, i meticciamenti.
Un docente che esaminando le restituzioni dell’INVALSI scorga difformità,
contraddizioni tra le proprie valutazioni e le rilevazioni standard grida
allo scandalo o coglie l’occasione per una autoriflessione critica? Liquida
il tutto con un responso di “invasione di campo” o coglie un possibile
stimolo/sintomo di “rispecchiamento”?
Ma, certamente, per cogliere il
“valore aggiunto” diagnostico costituito dalla restituzione delle
rilevazioni standard servono alcune competenze (almeno quelle basilari) di
analisi statistica; esattamente come, per apprezzare la dimensione “clinica”
della valutazione degli alunni servono competenze pedagogiche e soprattutto
psicologiche. E un “lavoro docente” (E qui il problema c’è eccome, ma
riguarda la politica scolastica e i suoi interpreti, politici, sindacali,
associazionismo professionale… All’INVALSI si può imputare, forse, una non
chiara consapevolezza di tali riflessi, limiti e condizioni…ma non starebbe
nei compiti primari dell’Istituto)
La sfida, dunque, è quella di rispettare il confine e insieme di costruire
ponti e attraversamenti.
Torno allora all’interrogativo
iniziale. Quale è il senso dell’invito al Ministro a “mutare” orientamento:
basta economisti e statistici… è l’ora dei pedagogisti?
Difficile sfuggire alla malizia della storia.
Il tentativo di costruire un sistema della Ricerca educativa fu compiuto,
nel nostro sistema di istruzione, con i Decreti Delegati del 1974 (una vita
fa…).
Ne sortirono gli Istituti Regionali ( IRRSAE e poi IRRE e poi soppressi…);
la Biblioteca di Documentazione Pedagogica (BDP e poi INDIRE e poi ANSAS e
poi ancora INDIRE); Il Centro Europeo dell’Educazione ( CEDE poi INVALSI).
Il sistema, fondato
istituzionalmente nel 1974, cominciò a mettersi in moto nella seconda metà
degli anni ’80; dai primi anni di questo secolo fu un susseguirsi di
ristrutturazioni, riforme epocali (sé dicenti), regimi transitori.
C’è almeno un decennio di tentativi di costruire una prassi sensata di
interpretazione delle funzioni della Ricerca Educativa che tra difetti e
fallimenti (molti) e esperienze positive ( alcune), non fu mai posto come
oggetto di riflessione attenta e circostanziata per valorizzare i risultati
e correggere i difetti. Ad ogni “passaggio” si “ricominciava daccapo”.
Anche su piani (quello per esempio della valutazione), che oggi sembrano
costituire una “nuova frontiera”.
Ma non mi interessa qui condurre tale disamina ( a che pro del resto? Chi ha
vissuto quegli anni sa…).
Vorrei solo provocatoriamente ricordare che il “sistema”, o meglio il suo
primordiale avvio, fu gestito, per almeno un quindicennio (avvio?!) dalla
“cultura” pedagogica.
O meglio: fu gestito (si vedano i Presidenti di IRRSAE/IRRE, BDP/INDIRE/ANSAS;
CEDE/INVALSI per tutti gli anni ’80 e ’90) da esponenti (autorevoli e
qualificati) della Università e della Pedagogia nazionale.
Naturalmente nulla di più lontano dalle mie intenzioni dell’assegnare
responsabilità e imputazioni ad una categoria accademica come quella
meritoria della pedagogia. Molte le variabili che hanno collaborato a
segnare fallimenti e non corrispondenze ( per essere buoni…) tra finalità e
risultati raggiunti. Grandi le responsabilità squisitamente “politiche”.
All’origine, probabilmente, una incomprensione di fondo, che accumunava
l’intera “cultura nazionale” circa la specifica “consistenza” (di campo e di
oggetti, di metodi e strumenti, di competenze e professionalità) di quella
che ho indicato come ricerca “sul” sistema educativo inteso come
sottosistema della “formazione economico sociale”. Ma, d’altra parte, nella
“cultura nazionale”, una sotto rappresentazione analoga e isomorfa ebbe
tradizionalmente la “ricerca sociale”, alla quale afferisce gran parte
della ricerca educativa intesa secondo gli enunciati precedenti.
Proprio la consapevolezza della complessità delle responsabilità dovrebbe
consigliare una certa “discrezione” nel rivendicare la necessità di svolte
“culturali” e scientifiche nella gestione del sistema.
Gli “economisti” e gli “statistici” (ed una parallela sorta di
“indipendenza” dalla contingenza politica “politicata” assicurata dalla
Banca D’Italia, da cui provengono gli ultimi due Presidenti INVALSI) hanno,
se non altro, aperto una questione (che cosa sia la Ricerca Educativa e cosa
la distingua da quella pedagogica) che potrebbe avere come effetto proprio
la valorizzazione di quest’ultima.
Come dico sempre: che si misuri tutto ciò che è misurabile (l’economia
dell’istruzione) rappresenta la condizione per la quale tutto ciò che non è
misurabile (la relazione educativa) possa esprimersi e svilupparsi nel
contesto più “ecologico” possibile.
Molti segnali mi fanno pensare
invece ad un parallelo arretramento della cultura pedagogica proprio nel
mentre rivendica un ruolo “di sistema”.
Si pensi all’abbondare di metafore geometriche e geografiche nel nostro
dibattito scolastico: “traguardi” di competenze, “indicazioni”; curricolo
“verticale” ( qualunque cosa voglia dire); “continuità” ( ma… nulla è più
discontinuo del processo di apprendimento..); “centralità” della persona
(ma… nulla è più e-centrico della persona umana)…
La mia sensazione è di assistere ad
un processo di “cosalizzazione” della pedagogia e di parallelo pericoloso
“svuotamento” delle sue parole e della sua semantica.
La richiesta al decisore politico di essere di riferimento per la “ricerca
educativa” (invece che sostanziare la “ricerca pedagogica” e a prescindere
dal decisore politico..) mi induce il malessere di una conferma di tale
processo.
Le ragioni di chi rivendica un primato della cultura pedagogica sono più che
fondate; ma l’obbiettivo di tale rivendicazione, se relativo alla “gestione”
del sistema della “ricerca educativa” rischia di assumere carattere spurio
e ambiguo.
Quando la cultura pedagogica sceglie di misurarsi con il “sistema” (con la
dimensione “istituita”), per qualunque motivazione lo faccia, rischia di
lasciare “incustodito” il suo campo di lavoro elettivo che è quello
“istituente” (i processi di formazione della persona..).
Gli esempi, ahimè sono molti. Ne cito due tra tanti: l’intera problematica
del digitale e delle forme di apprendimento non ha apporti significativi da
parte della ricerca pedagogica (altro è la pubblicistica o le facili
generalizzazioni come quella de “i nativi digitali”). Le scuole che
“sperimentano” lo fanno da sole o comunque non accedendo a quel potenziale
“laboratorio di massa” che i pedagogisti, a partire dai loro istituti
universitari, avrebbero a disposizione. Le poche eccezioni certamente non
contraddicono il panorama generale che emerge per esempio dal monitoraggio
del progetto cl@ssi2.0.
Il secondo esempio, anch’esso recente è la questione BES.
Si guardi al dibattito pubblico e professionale sviluppato in questi mesi e
non si potrà non misurare una assenza “scientifica” specifica da parte del
mondo della ricerca pedagogica.
Che però si affaccia con rivendicazioni circa la gestione del sistema della
ricerca educativa e in particolare del suo segmento di ricerca valutativa,
innescando inevitabili fraintendimenti
Alimenta, per esempio, una tensione a delegittimare la ricerca valutativa da
parte di molti che sentono estranea e nemica la cultura economica, la
lettura e analisi dei dati, la preoccupazione di mantenere un rapporto
sensato tra mezzi e fini; di rendicontare i risultati, secondo le diverse
metodologie e i diversi approcci tra loro (possibilmente) dialoganti…
Basterebbe guardare alla polemica (spicciola..) sul
“teaching to test..” invocata per dimostrare i pericoli delle
rilevazioni standard (volutamente e pervicacemente confuse con la
valutazione degli alunni)… E il “teaching to compito in classe” o il
“teaching to interrogazione programmata”… Non sono altrettante e pericolose
derive di opportunismo valutativo?
Cosa non si può sostenere in nome
della pedagogia… Finanche il suo sostanziale tradimento.
Mi piacerebbe che, quale che fosse la decisione circa il “nuovo Presidente”
dell’INVALSI, si tenesse la barra verso una rotta che consentisse di
proseguire una attività di ricerca valutativa che, come ogni ricerca, deve
impegnarsi a migliorare e affinare progressivamente i suoi strumenti, i
protocolli, le esperienze “sul campo”.
Sia il rinvio a quando tutto sarà “il meglio possibile”, sia il
“benaltrismo” per il quale c’è sempre qualche cosa di “più importante” da
fare, prima di fare ciò che è importante, rischiano di scrivere l’ennesimo
capitolo di una lunghissima e irrisolta transizione, lungo la quale “si
parla” di cultura della valutazione , senza alimentarla di esperienze e di
risultati. E ricominciando ogni volta daccapo.
Sui caratteri che assume la Storia quando “si ripete” hanno già detto
(meglio) altri..