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I problemi della valutazione dopo la legge 169

12.11.2014

L’aquila e il cavallo. Ovvero la valutazione dei Dirigenti
di Franco De Anna

 

La valutazione delle persone è certamente, tra le diverse attività valutative, quella che suscita i fantasmi più attivi e pericolosi.
L’ansia, la paura, la fuga in chi è valutato. Le derive sadiche, pigmalioniche, oppositivo-risarcitorie o collusive, in chi valuta. Come in ogni relazione asimmetrica (e la valutazione lo è “strutturalmente”)
Disattivare i fantasmi significa non negarli, ma portarli allo scoperto, alla luce, rielaborarne e mandarne fuori bersaglio le patologie. Chi discetta o progetta o mette in opera protocolli valutativi deve  sapere che questa misura di cura deve trovare spazio ed attenzione (quasi una premessa) sia nel protocollo stesso (cosa e come valutare), sia nella formazione dei valutatori e nella loro necessaria supervisione.

Le persone e l’organizzazione: organizzazioni a parametri costanti e a parametri variabili.

La prima e fondamentale avvertenza (può apparire banale) è che non si valutano le persone, ma si “valutano le persone nell’organizzazione”. Ciò significa innanzi tutto che l’apprezzamento (inevitabile) di qualità e aspetti “personali” del valutato, deve essere riportato al carattere, alla dinamica, alla cultura dell’organizzazione in cui opera, e nel nostro caso, che “dirige”, anche neutralizzando in tale modo il rischio che proprio tali specificità personali diventino fonte di effetti alone nell’osservazione.
Ma ciò significa soprattutto, che la metodologia, gli strumenti, i protocolli della valutazione vanno scelti e calibrati in relazione ai caratteri dell’organizzazione stessa.
Le organizzazioni a parametri costanti sono quelle che operano per procedure fisse e ripetitive (bassa unicità) o comunque con periodizzazioni lunghissime (bassa temporaneità). La Pubblica Amministrazione, (almeno per il nostro consolidato modello nazionale) ne è un esempio tipico.
Le metodologie e i protocolli valutativi dovranno tenere conto di tale operatività “algoritmica” e, rivolte alle persone che vi operano, saranno inevitabilmente e doverosamente orientate ad osservare ed apprezzare proprio tale corrispondenza, dunque saranno dirette ad osservare i “comportamenti”.
Le organizzazioni a parametri variabili sono quelle che operano in sostanza per “progetti”  (Unicità alta) e che dunque si danno obiettivi e periodizzazioni (temporaneità alta) ad essi legate (un “progetto” ha un inizio ed una fine, e se il risultato è positivo si integra nell’organizzazione).
Le metodologie e i protocolli valutativi coerenti con tali organizzazioni sono tipicamente quelli della valutazione obiettivi-risultati. (Certamente più semplici concettualmente ed anche strumentalmente di quelli appropriati alle organizzazioni a parametri costanti).
Non tenere conto di tale distinzione e “mescolare” metodologie e strumenti, significa costruire modelli valutativi inefficaci e non significativi.
In particolare segnalo la tentazione di utilizzare il modello obiettivi-risultati che è concettualmente più immediato e più semplice, estendendolo a organizzazioni, come la Pubblica Amministrazione (per esempio valutando i suoi Dirigenti) che sono invece a parametri costanti e con procedure operative a bassa temporaneità. A riprova dell’effetto distorcente basterebbe analizzare i risultati di tale protocollo valutativo, applicato ormai da diversi anni ai dirigenti amministrativi. Il suo livello di affettivo apprezzamento del lavoro della dirigenza è prossimo alla insignificanza. Se valuto secondo un modello MBO (Management by objectives) in una organizzazione che non opera per obiettivi, la valutazione diventa “stereotipa” e formale. Il raggiungimento del 100% del risultato ha una diffusione massiccia. Il terzo livello di valutazione è spopolato.
Ovviamente la categorizzazione proposta ha il limite di ogni “modellizzazione sistematica”: le organizzazioni reali raramente corrispondono a tali estremi classificatori. Solo una start up, per esempio è una organizzazione che si identifica con “il progetto” (alta unicità a alta temporaneità). E solo una Pubblica Amministrazione organizzata nei modelli tradizionali legati a funzioni autorizzative (e non a produzione di servizi) corrisponde pienamente ad una organizzazione  a parametri fissi (bassa unicità e bassa temporaneità)
Le organizzazioni reali sono sempre a “matrice mista”. E il problema di chi progetta modelli valutativi è innanzi tutto quello di cogliere i caratteri di tale matrice.
La scuola ne è un buon esempio: il curricolo ha una operatività fisiologicamente legata a periodizzazione prolungata (un ciclo per esempio) e con innovazione contenuta. Non può che essere così rispetto alla funzione sociale di riproduzione culturale e valoriale delle nuove generazioni. Contemporaneamente nella scuola, sopratutto degli ultimi vent’anni si è sviluppata una significativa attività progettuale con alta temporaneità (o così dovrebbe essere) e alta originalità/unicità. La combinazione delle due modalità qualifica la matrice organizzativa. (il POF..)
In questi anni per esempio si è valorizzata (anche se in assenza di un vero e proprio protocollo valutativo) la seconda modalità (vedi l’uso concreto del FIS e la definizione di figure professionali differenziate quasi totalmente dedicate alla “linea progettuale”). Se ne comprende il motivo (incentivare un processo innovativo legato all’autonomia) ma occorre comprenderne anche il limite e, in un protocollo valutativo assennato, ridefinire l’equilibrio della matrice mista.
Aggiungo solamente che nel modellizzare assennatamente una “matrice mista” si dovrebbe tenere conto di distinzioni importanti tra scuole di primo ciclo (necessariamente a bassissima  temporaneità: riproduzione delle prime età, “ciclo lungo” dell’istruzione di base....) e ciclo superiore (la progettualità a alta temporaneità legata al mondo produttivo o alla formazione terziaria..)
In questo senso trovo che un modello di valutazione dei Dirigenti Scolastici ricondotto al paradigma obiettivi-risultati, sia pure considerando gli obiettivi su definizioni molto larghe (ma più si allarga la definizione, meno sono evidenti i parametri di valutazione), sia di fatto tributario di una semplificazione fortemente “riduzionista”.

La premessa valutativa: il profilo di ruolo

Poiché si tratta di valutare le persone nell’organizzazione occorre partire da una rigorosa definizione del profilo di ruolo.
Occorre qui, nel caso dei dirigenti scolastici, evitare due tentazioni.
La prima è connaturata proprio alla appartenenza alla Pubblica Amministrazione e consiste nel trasferire la semantica del termine “ruolo” che in essa è prevalente. Cioè un repertorio formalizzato di “saperi e saper fare” (si pensi per esempio al repertorio di un bando di concorso) che essendo a base normativa e dunque valido “extra omnes” tende ad inglobare tutto il possibile (e perciò rende impossibile da valutare la corrispondenza tra la realtà e tale sua formalizzazione totalizzante). Secondo tale riferimento un dirigente dovrebbe per esempio, essere dotato di  prontezza analitica per cogliere contemporaneamente il particolare e la visione di insieme, e contemporaneamente della paziente capacità del lavoro di lunga durata. Due qualità senza dubbio importanti ma che, nelle persone reali spesso si limitano a vicenda. Essere contemporaneamente un’aquila e un  cavallo proietta nel mitologico. Pegaso.
La seconda tentazione, al contrario, e di carattere “esortativo”. Si tende a descrivere il ruolo del dirigente, per quello che vorremmo che fosse in un futuro migliore per la nostra scuola.
Trovo per esempio di grande interesse le rielaborazioni che in questi anni si sono misurate con la questione della leadership.
Da quelle storiche e generali (penso a Kets de Vries, o a Giampiero Quaglino) a quelle orientate sulla scuola (come Roberto Serpieri, Angelo Paletta, Cinzia Mion o Antonio Valentino e altri). Hanno fatto fiorire una ricca messe di “attribuzioni” alla leadership scolastica. La leadership pedagogica, quella distribuita e condivisa, finanche quella “democratica” (?!).
Ma l’enfasi “qualificativa” mi lascia sempre il sospetto che ci si misuri con gli attributi della “cosa” per evitare di misurarsi con la cosa stessa, o per addolcirne o renderne accettabile la “durezza”. Nel nostro caso il fatto che la leadership ha sempre a che fare con il potere, la sua gestione e l’intero arco del suo esercizio. Naturalmente potremmo sempre sostenere una tipologia di organizzazione alla quale non sia necessario un potere di direzione (forse è questa la leadership “democratica”).
Il lettore ricorderà certamente un film di Fellini che rappresentava una orchestra, che, appunto, “provava” a non avere “maestro”. Un  film “profetico”. 
Di grande interesse perciò l’elaborazione sulla leadership pedagogica, ma la gestione del Bilancio e delle risorse economiche dove la mettiamo?
Voglio semplificare il ragionamento e le definizioni. Il “profilo di ruolo” è ciò che una organizzazione si aspetta da una persona.
Come si vede una definizione “situata” e circostanziata: del resto ogni organizzazione vorrebbe la “persona giusta al posto giusto” sulla base delle sue caratteristiche specifiche.
Ovviamente nel caso di un sistema complesso e “istituzionale” e contemporaneamente fortemente plurale come la scuola, occorrerà “tipicizzare” un profilo di ruolo per renderlo comparabile entro la variabilità sistemica.
Provo a proporre tale repertorio sul “profilo di ruolo” del dirigente scolastico, per ciò che ad esso si chiede nell’organizzazione della scuola per come essa è.:

1.      Il DS è un “dirigente pubblico” responsabile finale di una “strategia pubblica” E’ infatti responsabile del prodotto di essa offerto ai cittadini come servizio al diritto all’istruzione

2.      Il DS è un dirigente di una organizzazione che produce servizi alla persona

3.      Il DS è dirigente di una organizzazione a elevatissima permeabilità sociale. La scuola rappresenta infatti un servizio “universale” che coinvolge progressivamente tutte le generazioni e che è istituzionalmente aperto alla partecipazione

4.      Il DS è un dirigente orientato al “prodotto”.

5.      Il DS è un dirigente di una organizzazione ad alta intensità di personale e a basso tasso di gerarchia. La gestione del personale rappresenta perciò uno dei caratteri specifici di questa tipologia di dirigente

In questo repertorio tipologico sono sottese tutte le specificità e le differenze anche radicali che distinguono la dirigenza scolastica da quella della Pubblica Amministrazione. In particolare delinea una responsabilità che, in quanto “finale”, di “prodotto” e direttamente interfacciata con un diritto di cittadinanza, si carica delle condizioni essenziali di una “strategia pubblica”. Quanto a dire 1. la definizione di “valore pubblico” da produrre (la definizione comune e condivisa in contesto di titolarità plurima, autonomia e governo misto); 2. l’organizzazione compatibile e sostenibile (risorse economiche, personale, sviluppo organizzativo) necessarie a produrre tale valore; 3. il contesto autorizzativo (la legislazione, il negoziato locale, il consenso degli stakeholders e dei cittadini, il consenso del “cliente interno”).
E’ questo il “triangolo strategico” che richiede che i suoi vertici siano esplorati “in contemporanea” per dare successo ad una strategia pubblica. (una strategia fallisce se avendo una buona definizione di valore pubblico ed anche un buon livello di consenso, non ha risorse compatibili; esattamente come fallisce se avendo le risorse ed il consenso ha una insufficiente chiarezza nella definizione di valore pubblico o se avendo quest’ultima e le risorse non abbia il consenso.. Gli esempi delle varie combinazioni  non mancano nella nostra “politica pubblica”…)
E ciascuno di tali elementi si carica della specificità che proviene dai caratteri del servizio prodotto. Per esempio l’alta intensità di personale che caratterizza la produzione scolastica fa del dirigente di una scuola autonoma probabilmente un esempio unico: nè un direttore generale del MIUR, nè un “provveditore” o un Direttore Generale di USR hanno quotidianamente e direttamente interazione con un numero di “dipendenti” paragonabile, né con dipendenti di qualificazione professionale paragonabile ad quella di un “collegio di docenti”. E per converso con un tasso di gerarchia assai basso. Un DS può dare ben pochi ordini..
Nessun dirigente pubblico è chiamato a rispondere direttamente sia agli utenti e cittadini, sia ad un “cliente interno” all’organizzazione con tali caratteristiche. Dunque esplora il vertice strategico del “contesto autorizzativo” in modo assai diverso da un dirigente che “applichi le norme”.
L’orientamento al “prodotto” finale delinea (o lo dovrebbe ) caratteri “economici” alla gestione delle risorse che vanno al di là delle impostazioni finanziarie tipiche del Bilancio dello Stato e dunque alle forma di rendicontazione che ad esse sono sufficienti e pertinenti (criteri di legittimità e corrispondenza tra entrate e uscite, ma non criteri “economici”).
Non si tratta di professionalità maggiori o minori, né di livelli di importanza di ruolo; si tratta di differenze specifiche che con grande difficoltà e contraddizioni sono inglobate in uno status amministrativo omogeneo.
Di tutto ciò occorre tenere conto, anzi è il lavoro di impostazione preliminare, per definire un modello valutativo. La semplificazione del paradigma obiettivi-risultati a fronte di tutto ciò rischia di rappresentare un vero e proprio cortocircuito concettuale.

O meglio, tenendo conto della complessità del “profilo di ruolo” (e quella presentata è solo una approssimazione) e volendo mantenere la semplicità del paradigma, sarebbe necessario sapientemente distribuire un “repertorio” di obiettivi connessi al profilo di ruolo (ciò che l’organizzazione si aspetta da un dirigente…) su un perimetro/volume sufficientemente ampio e profondo per contenere le specificità di tale profilo.

Un repertorio di obiettivi/prestazioni/comportamenti organizzativi.

Secondo l costrutto  concettuale che sorregge le argomentazioni precedenti, il paradigma obiettivi-risultati sarebbe adeguato a quella parte di matrice organizzativa che appartiene alla forma “organizzazione a parametri variabili” e dunque procede per progetti (alta temporaneità, alta unicità); mentre la forma “organizzazione  a parametri costanti” (proceduralità, bassa temporaneità e bassa unicità dei processi) dovrebbe traguardare la valutazione del personale a comportamenti e prestazioni, a loro volta frutto di esercizio di competenze (conoscenze, abilità, attitudini).
La complessità del modello è evidente. In oltre gli ultimi oggetti citati (competenze) di difficile e più complessa valutazione, sono oggetti essenziali di valutazione in particolare nella fase di ingresso (selezione, assunzione) in una organizzazione, o nella gestione del “mercato del lavoro” interno (sviluppi di carriera e mobilità professionale). In tale caso tale riflessione diviene essenziale e vincolante.
Dovendo invece misurarsi con la valutazione di personale già in servizio è possibile riunificare la matrice mista della organizzazione specifica della scuola calibrando il repertorio di obiettivi alcuni dei quali saranno condizionati e funzionali a comportamenti e prestazioni (penso per esempio alle caratteristiche della gestione del personale) altri possono avere carattere di auto consistenza essendo legati a “progetti” circostanziati e definiti.
In questa sede non è possibile esplorare analiticamente tale compito definitorio. Rimando, scusandomi per l’auto citazione ad una mia più estesa pubblicazione (Franco De Anna, “ Valutare i dirigenti della scuola: strumenti, metodologie, sfide culturali”, Casa Editrice Spaggiari, Parma).
Propongo qui una tabella riassuntiva composta a partire dagli assi del “triangolo strategico” della strategia pubblica citato, e sviluppandone e articolandone le aree comprese. (vedi tabella di seguito)

La tabella è indubbiamente complessa ma credo si presti a riflessioni e sviluppi interessanti per modellizzare una ipotesi di valutazione dei dirigenti scolastici.
Mi limito ad alcune considerazioni

1.      I passaggi tassonomici progressivi (assi strategici, aree di responsabilità, azioni e obiettivi, obbiettivi classificati a loro volta per tipologie di mantenimento, miglioramento, innovazione) consentono di addivenire ad una classificazione degli obiettivi del dirigente che attenua la discrezionalità che spesso accompagna tali definizioni, rendendo la comparazione spesso problematica ed incerta. La effettiva e provata personalizzazione della declaratoria di obiettivi a cui si giunge entro tale percorso dovrebbe bilanciare il grado di artefattualià che accompagna ogni sforzo tassonomico.

2.      La filiera complessa di definizione degli obiettivi consente di approfondire e discriminare il rapporto tra “obiettivi complessivi dell’organizzazione” e “obiettivi specifici del Dirigente”. Il nesso necessario tra i due assetti non deve rendere opaca la oggettiva distinzione. Tempi di realizzazione, modalità decisionali, fattori e condizioni di risultato sono affatto diversi se si guarda alla strategia complessiva dell’organizzazione o se, come in questo caso si deve guardare al “piano di lavoro” del Dirigente.

3.      Il modello tassonomico scelto è senza dubbio arbitrario, come ogni tassonomia; ma vi è una corrispondenza, facilmente ricostruibile, tra esso e lo stesso dettato normativo e contrattuale (il Decreto Legislativo 165 e il contratto collettivo di lavoro dei Dirigenti), che prevedono una declaratoria degli impegni del dirigente che contempla: 1. Promozione della qualità dei processi formativi (progettazione e innovazione dei processi di apprendimento individuali e collettivi); 2. Direzione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane dell’istituto; 3. Organizzazione e gestione delle risorse finanziarie e strumentali e controllo di gestione; 4. Relazioni esterne, collaborazione con i soggetti istituzionali, culturali, professionali, sociali ed economici del territorio; e che sono indicati come ambiti di esercizio della valutazione della performance del Dirigente Scolastico. Quelle quattro aree sono comprese in questa tassonomia progressivamente articolate e specificate.

4.      Riempire le celle vuote di questo schema (obiettivi dettagliati, pesi assegnati ecc..) comporta certamente uno sforzo tecnico scientifico notevole, fatto anche di ricerca sul campo per validare diverse ipotesi e per testare in modo ravvicinato ciò che “davvero” avviene nelle scuole, e assumerlo come fondamento realistico per lo schema tassonomico.
Ma significa anche evitare il riduzionismo semplicistico e il doppio automatismo tra “valutazione della scuola e miglioramento” e “realizzazione del miglioramento e valutazione del dirigente”.
”Si valuta per decidere” e il miglioramento è senz’altro una decisione possibile, ma non l’unica. Decidere il miglioramento significa sempre “spostare risorse” (fosse anche solamente l’impegno professionale) e dunque la decisione è filtrata sia dalla dinamica specifica dell’organizzazione e del suo equilibrio, sia dalla oggettiva convenienza nell’impegno delle risorse. A parità di esse e nella loro scarsezza potrebbe essere più saggio impegnarsi in obiettivi di mantenimento dei risultati raggiunti in certi settori, piuttosto che tentare di migliorare alcuni difetti in altri, con il rischio di non mantenere la qualità complessiva. Inutile dire che la valutazione autentica dovrebbe esplorare proprio la specificità di tali meccanismi e processi decisionali e di tali equilibri all’interno dell’organizzazione.
Ma proprio (anche) per tali motivi la valutazione del dirigente non può essere ricondotta esclusivamente alla gestione del miglioramento.

5.      Grande cura andrebbe posta nell’assegnare i pesi agli obiettivi. Ad essi corrispondono le definizioni di priorità che riguardano sia la “politica pubblica “ e quindi la strategia pubblica situata della strategia organizzativa. Solo alcuni esempi assolutamente schematici.

-    In una certa fase potrebbero essere individuati “obiettivi generali di sistema” vincolanti per tutti. Per esempio “tutti gli alunni in uscita dall’obbligo scolastico devono essere messi in condizione di acquisire la conoscenza certificata dell’inglese a livello B” potrebbe essere n obiettivo nazionale, o regionale. Ovviamente ciò avrebbe influenza non solo nella declaratoria degli obiettivi del dirigente, ma anche nella determinazione del peso assegnato

-    Un carattere specifico degli impegni del Dirigente Scolastico è quello della gestione del personale che deriva proprio da un dato strutturale dell’organizzazione scolastica (l’alta intensità del lavoro vivo nella organizzazione e i caratteri culturali, professionali, reali e immaginari, del lavoro impegnato) Il peso assegnato a obiettivi collocati in tale area strategica rispecchieranno tale specificità.

-    In una fase storica di declino delle risorse pubbliche disponibili e di impegno al risparmio, tutti gli obiettivi di miglioramento del rapporto qualità/costi assumono peso specifico rilevante. Esattamente come quelli relativi alla capacità di ampliare le risorse in entrata attraverso contributi della società civile. La vera ed efficace razionalizzazione della spesa implica l’assunzione di responsabilità del singolo dirigente, altrimenti si tratterà sempre di semplici “tagli”

-    La titolarità plurima della definizione della strategia pubblica dell’istruzione (Stato Regioni e autonomie locali, istituzioni scolastiche autonome) implica una collocazione particolare dell’impegno e della responsabilità del Dirigente Scolastico, per esempio nella interlocuzione con il sistema delle autonomie locali. Di ciò la definizione dei pesi dei diversi obiettivi dovrà tenere conto.

Ovviamente in costanza di modello valutativo e di protocollo, proprio lo strumento di variazione delle pesature potrebbe caratterizzare la fasi diverse, le cadenze, le priorità della politica pubblica e della “razionalità decisoria” del decisore sia politico che amministrativo.

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