Non lho mai fatto per esibire
decaduti quarti di cultura. E neppure per intimorire la platea scolastica con qualche
briciola di latinorum, per rafforzare il prestigio, in cui non credo, di dispensatore di
sapere.
Lo faccio perché credo che si debba fare.
Eppure quando succedeva mi sentivo sempre anche un po in colpa, con la fastidiosa
sensazione di non essere politicamente corretto.
Mi sentivo in colpa anche perché non accadeva mai per distrazione. Non è che mi
scappasse inavvertitamente, magari quando pensavo ad altro ed inserivo il pilota
automatico (non è bello ma a volte capita). No. Lho sempre fatto apposta. E
sempre stata una scelta premeditata.
Perché lei la sento arrivare e potrei facilmente evitarla. In genere, sarebbe sufficiente
allungare un po la strada. Magari dovrei prendere una via una più tortuosa, ma non
sarebbe certo un problema aggirarla. E invece scelgo di andare dritto anche se so che lei
è laggiù che mi e ci aspetta.
E quando ci arrivo me la gusto proprio, fino in fondo (il senso di colpa sopraggiunge
dopo). Preannuncio la sua comparsa con una pausa. E un ospite di riguardo e ci vuole
rispetto. E poi lentamente la lascio andare, staccando impercettibilmente le sillabe che
la compongono. Trattenendole un attimo prima di pronunciarle.
Eh si, ogni tanto bisogna pur dirla qualche "parolona"! Quelle belle parole
"difficili", che rischiamo di dimenticare a forza di non usarle. Bisogna dirle
perché sono quelle più giuste, quelle più appropriate. Nessun sinonimo, nessun giro di
parole. Nessuna semplificazione avrebbe la loro ricchezza e la loro efficacia. Lasciamo ai
presentatori televisivi luso e labuso delle parole comuni e proviamo a salvare
almeno qualcuna fra le parole dimenticate, che sono difficili soltanto perché hanno il
bagaglio del significato. Si portano dietro un mondo.
Un mondo di idee ed emozioni che rischia di estinguersi insieme a loro.
Mi sentivo in colpa. Ma da qualche giorno non accade più. I sensi di colpa sono spariti.
O almeno sono diminuiti.
In un libriccino delizioso, appena uscito, ho trovato il conforto di queste due
affermazioni: "sopprimendo le parole si diminuisce una parte della vita di ciascuno
di noi"; "se la vita si riduce agli affari, al denaro, al comprare e vendere, le
parole rare non sono poi così necessarie".
Il libriccino si intitola la grammatica è una canzone dolce e racconta la storia
di due fratelli che durante una tempesta in mare restano muti, perdono le parole. E
naufragano in unisola incantata dove, per ritornare a parlare, troveranno negozi
dove si vendono parole, municipi dove si sposano aggettivi e sostantivi, ospedali per la
guarigione di parole malate, fabbriche per produrre frasi, distributori automatici di
verbi. Lautore è Erik Orsenna, un linguista serio ma capace di non prendersi troppo
sul serio.
Il libriccino è edito da Salani ma lo si può leggere non soltanto ai più piccoli. Ai
miei quattordicenni è piaciuto e hanno trovato simpatica la protagonista femminile,
quella che, alla fine del libro, terminata la "rieducazione grammaticale",
confessa che: "ogni domenica sera, prima di addormentarmi, mi immergo per qualche
minuto in un vocabolario, scelgo una parola a me sconosciuta e la pronuncio a voce alta
con affetto. Allora, ve lo giuro, la mia lampada lascia il comodino su cui sta di solito e
se ne va a illuminare qualche regione del mondo sconosciuta".