Esiste una specie di pena scolastica specifica per molti ragazzi e ragazze, che mi pare stia nel correggere, riscrivere, fare "la bella copia" di qualche testo.
Per la maggioranza si tratta semplicemente di scrivere più ordinatamente, magari usando il bianchetto al posto delle cancellature (il che effettivamente dà spessore al testo) perché la scuola chiede ordine e "bella calligrafia".
Però poi ci sono quelli e quelle che non ricopiano. Strani tipi, in generale un po ribelli, un po presuntuosi, ma interessanti.
Una ragazza di quarta questanno preferisce scrivere due testi piuttosto che riscrivere il primo.
Mia figlia, terza elementare, ha cominciato adesso ad accettare di correggere i propri lavori, ma solo di fronte ad un quaderno nuovo, pazzamente desiderato, sul quale non erano ammissibili errori o cancellature. Potenza di certi oggetti, dell"anima" che acquistano nello scambio con sguardi, mani, immaginazioni: riconoscimento di sé in altro, andata e ritorno dalla forma merce (e si resta sempre un po bambini di fronte alle vetrine delle cartolerie).
Ma in generale il tempo del riguardare correggere riscrivere le è sempre parso tempo perso.
Perché rifare una volta fatto? Correggere correggono le maestre, a me è venuto così - e tu non dirmi niente, sei un babbo. La scuola è altrove.
È difficile da acquisire la lentezza della scrittura, la cura più che la produzione di qualcosa. Richiede tempo e chiede di starci bene nel tempo. È un po tornare su se stessi (attraverso il proprio lavoro), giudicare ed essere esigenti. Mi sembra sempre una specie di obiettivo, ma non ho grandi idee su come si raggiunga o si trasmetta; sempre che si trasmetta. Forse funziona lamore per i quaderni, le penne, i libri: le cose che arredano luoghi e tempi della mente.
Eppure talvolta in chi rifiuta cè qualcosa di "grande": quasi non si volesse falsare il proprio autentico gesto creativo; quasi rivedere e correggere fosse invadere il campo degli adulti. Correggere, correggono i professori. E danno voti. Loro ragazze si accettano (o vorrebbero accettarsi, o vorrebbero essere accettate) così come sono. Le loro cose, così come vengono.
Forse tutto questo ha qualcosa a che vedere con il valore pressoché assoluto che sembrano dare ragazze e ragazzi - bambini e bambine - al presente. Come se rivedere i propri lavori avesse a che fare con un atteggiamento strumentale finalizzato alla valutazione, al futuro o al "successo". Commisurato al mondo dellistituzione adulta, bassamente scolastico.
Bisognerebbe dare senso nel presente al lavoro, allo studio, allesercizio anche noioso; accendere passioni faticose, che costano e restano gratuite, senza ricadere nel puro senso del dovere o sacrificio delloggi per un "capitale conoscitivo" da gestire domani competitivamente sul mercato del lavoro.
Cè un paziente artigianato della scrittura (e non solo della scrittura, naturalmente) che dovrebbe come autocentrarsi, avere senso per sé, senza bianchetti.
Alla fine rimango con questa specie di odio-amore verso la mia studentessa, così presuntuosa, così rapida, così immersa nel suo presente, così orgogliosa nel rivendicarlo. Come insegnare a chi è così pieno di sé... (ma la domanda vera è come insegnare a chi non lo è: a chi non ha dentro bisogni desideri rabbia curiosità domande).
E mi chiedo se in realtà non offriamo tutti a scuola il nostro presente, quello che siamo, quello che siamo diventati, il nostro modo di essere e di sapere. La nostra storia qui e ora. Come se quello che conta (una tradizione, unenciclopedia un po strampalata di conoscenze, una biografia) si svolgesse tutto sulla scena, sempre di nuovo in gioco, e contasse solo per i segni che ha lasciato su noi, sui nostri corpi culturali. Solo per quello che ha in-segnato.
Come se davvero il mitico futuro fosse tutto aperto, da inventare.
Come avessero ragione loro, studentesse orgogliose, sempre un po splendidamente inadeguate al mondo presente.
andrea bagni