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“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber
(23.03.2014)
Considerazioni generali per un uso avvertito delle Tic a scuola
Enrico
Manera
Tra i diversi libri che si occupano del
rapporto tra scuola e mondo digitale, Demenza digitale. Come la nuova
tecnologia ci rende stupidi, di Manfred Spitzer, Corbaccio 2013 è di
gran lunga il più critico e il più allarmante. Lo è anche per l'apertura del
compasso con cui lo studioso tedesco inscrive il suo discorso sull'educazione,
da un duplice punto di vista. Da un lato quello del medico psichiatra che cure
le patologie correlate al consumo di media digitali tra giovani e giovanissimi;
dall'altro quello del neuroscienziato che ragiona in termini epidemiologici sui
rischi di diffusione delle demenze in relazione ai danni cognitivi che si
possono presumere partendo dai dati a disposizione. Spitzer infatti dirige la
Clinica psichiatrica e il Centro per le neuroscienze e l'apprendimento
dell'Università di Ulm.
Fatte queste debite premesse, parlare di questo libro significa anche aprire uno
spaccato sul mondo dell’educazione per vederne i punti di frizione, i problemi,
le possibilità, i risultati e soprattutto la metamorfosi, la mediazione e la
negoziazione con la realtà del digitale, che ogni giorno si affronta nella
scuola, per eccellenza luogo di concentrazione delle contraddizioni del
presente.
Il punto di forza del libro sta nel fatto che la critica non è quella di un
intellettuale che proviene dalla grande tradizione umanista, come il discorso
recentemente fatto da Claudio Magris sulle
pagine del «Corriere della sera»
Spitzer conosce e usa la tecnologia, ha introiettato paradigmi cognitivi tipici
delle scienze 'dure' al punto che gli si potrebbe imputare un eccesso di fiducia
nei protocolli sperimentali in uso nelle valutazioni dei sistemi scolastici e
nella recente ondata di studi neuropsicologici, con strumenti avveniristici come
la risonanza magnetica funzionale. Dunque la forza anche provocatoria del testo
non sta tanto nella sua prosa, a volte fin troppo enfatica nell'argomentazione
delle proprie tesi, quanto nel fatto che, sostanzialmente per la prima volta,
vengono citati esperimenti epistemologicamente corretti (in doppio cieco e
randomizzati), in ambiti come Stati Uniti, Corea del Sud, Germania, ovvero
paesi che hanno una storia di adozione e diffusione di media digitali, tanto
nelle abitudini delle nuove generazioni quanto nelle politiche scolastiche, a
volte fin dalle scuole primarie.
È tutto così recente e mutevole nel modo digitale che sappiamo poco di quanto ci
sta succedendo: ci sono però ragionevoli motivi per inferire che quello che sta
succedendo non è del tutto positivo per l'istruzione e in alcuni casi critici
contribuisce a peggiorare le situazioni.
Quale che sia la posizione che assumiamo nei confronti della migrazione digitale e del suo rapporto con la scuola, il libro offre una serie di preziosi contributi che sorreggono non tanto il contrasto di un'inutile e insensata battaglia di retroguardia contro la tecnologia, quanto la riflessione più avvertita possibile sul nostro rapporto con le macchine dell'informazione e della comunicazione e su come queste possano interagire con le nostre strutture cognitive profonde. In altri termini la lettura e la discussione delle tesi di Spitzer possono aiutare a pensare un nuovo paradigma cognitivo che l'Italia, con la sua arretratezza nei confronti della cultura scientifica di massa, non pare ancora in grado di accogliere nelle sue pratiche pedagogiche istituzionali, se non a livelli iper-specialistici e d'élite.
L'utilizzo del cervello causa la crescita delle aree cerebrali responsabili di una determinata funzione: «il cervello si modifica in base all'utilizzo. Se il cervello non viene utilizzato, l'hardware neuronale viene smantellato». Questa tesi neurologica fondamentale sorregge l'impianto dell'intera trattazione e implica l'idea che le attività che svolgiamo con il computer, gli smartphone, internet abbiano un differente impatto sulle strutture cerebrali rispetto alle corrispettive attività svolte in modalità non-digitali, in virtù del minor coinvolgimento corporeo nelle attività e quindi di un minor rinforzo dell'informazione nell'attività. In particolare la neuroplasticità, da cui dipende la capacità di apprendimento dei soggetti risulterebbe minore in ambiente digitale, con il risultato che gli apprendimenti risultano meno efficaci e duraturi.
Lo sforzo mentale che implica un'interazione
attiva con l'ambiente senza protesi digitali è per Spitzer responsabile del
vero e proprio allenamento da cui dipende la salute psichica e biologica delle
cellule cerebrali. I legami tra neuroni, o sinapsi, devono la loro salute
all'attività; nell'ippocampo, la zona preposta alla memorizzazione profonda dei
contenuti, crescono e sopravvivono nuove cellule in relazione all'allenamento
della mente. Più avremo costruito strutture cognitive solide – sostiene l’autore
-, meno saremo soggetti al declino mentale che indichiamo con il nome di
demenza, forma sintomatica di diverse forme degenerative generalmente raccolte
sotto la diagnosi-ombrello di morbo di Alzheimer; Spitzer arriva a sostenere che
una buona istruzione può concorrere al mantenimento di una buona salute, anche
nella misura in cui essere capaci di senso critico significa maggior
autodeterminazione, che è in grado di diminuire lo stress responsabile di molto
declino neuronale.
Il discorso decisivo riguarda l'apprendimento nelle fasi evolutive dall'infanzia
all'adolescenza, che sono il momento in cui vengono tracciate per la
prima volta nelle nostra mente le strutture neuroplastiche fondamentali, in
seguito poi soggette soltanto a modificazioni di più lieve entità: in altri
termini, ciò che impariamo in fasi remote della nostra vita si radica in
profondità e dopo un certo momento della nostra storia cognitiva saremo solo in
grado di stoccare altre informazioni di minor rilievo a partire da ciò che
abbiamo fatto prima. Poiché «il problema dell'apprendimento di strutture più
complesse, come ad esempio la grammatica, sta nel fatto che prima è necessario
imparare più semplici per poi passare a strutture più complesse», Spitzer
sostiene che la sempre più diffusa esposizione di bambini anche molto piccoli
alla visione di programmi televisivi a loro dedicati o all'uso di giochi su
tablet o smartphone sarebbe completamente insensata e controproducente; in
particolare quando questa sostituisce rapporti educativi ed emotivamente
significativi con adulti. Tale fenomeno si osserva soprattutto nelle fasce più
povere e meno colte della società, dove avviene una maggiore delega ai media
digitali di intrattenere la prole.
Lo stesso discorso più essere fatto, su una fascia più alta di età e su più
ampia scala, se ci riferiamo al rapporto tra didattica tradizionale e digitale.
Il problema della convergenza di queste due culture, nel ritardo storico che
l’Italia sconta sul fronte delle nuove tecnologie, si situa nella differenza tra
crescere nella cultura gutemberghiana per poi scoprire quella digitale e le sue
possibilità immense; oppure nascere direttamente nella seconda senza più essere
in grado di comprendere adeguatamente la prima, oltretutto venendo valutati a
scuola da chi si situa principalmente in quella. Spitzer cita un'analisi
condotta nel 2004 in Germania sul rapporto tra utilizzo del computer, in classe
e a casa, e rendimento scolastico, che riguarda 125mila studenti quindicenni in
merito a competenze aritmetiche e di lettura: esaminando i dati sensibili che
riguardano anche la famiglia d'origine (ceto sociale, livello d'istruzione,
professione, libri in casa) e scuola (numero di studenti per classe, formazione
dei docenti, fondi per la didattica) risulta che «un computer a casa porta
risultati inferiori a scuola e la presenza di un computer a scuola non ha alcun
influsso sui risultati scolastici». Inoltre l'introduzione di un computer, usato
principalmente per giocare, diventa una fonte di distrazione che influisce
negativamente sui risultati scolastici: la frequenza dell'uso del computer e
dell'uso di internet è correlata ai risultati negativi.
Anche le indagini svolte negli Usa hanno mostrato che non ci sono sostanziali
differenze nei risultati scolastici tra gruppi classe che usano portatili in
classe rispetto a quelle che non lo fanno: le capacità di scrittura risultano
lievemente inferiori tra gli studenti dotati di computer e lievemente migliori
in matematica, ma solo tra allievi già competenti. Alcuni studi del 2010, e
quindi con significativi cambiamenti nell'uso dei media digitale per diffusione
e durata nel tempo, analizzano i risultati di 500 000 studenti del North
Carolina tra quinta elementare e terza media, fascia di inizio massivo nell'uso
di tecnologie: questi tendono a mostrare che l'accesso ai portatili e alla rete
abbassa il rendimento scolastico. In più, si evidenzia un aumento del divario
tra ‘ricchi’ e ‘poveri’ attraverso l'accesso a Internet: «i soggetti esaminati
non hanno imparato di più grazie alla rete; al contrario, i giochi e i
passatempi a disposizione li hanno fatti regredire». Significativo inoltre che
una ricerca portoghese sull'uso di Internet nelle scuola, oltre a mostrare un
peggioramento del rendimento scolastico proporzionale all'uso, abbia evidenziato
un marcato effetto di genere: poiché i maschi utilizzano la rete come passatempo
più delle femmine, sarebbero più colpiti dall'effetto distrazione.
L'unico studio che mostra effetti positivi dell'apprendimento attraverso
l'ausilio di strumenti informatici riguarda studenti universitari californiani,
con una età media di 25 anni, il che finisce per confermare la tesi di Spitzer:
dal punto di vista comportamentale e neurobiologico i giovani adulti sono
soggetti già formati che hanno già strutturato e consolidato dotazione e
strutture cognitive, affrontato percorsi scolastici e maturato motivazione nel
loro proseguimento. Con queste pre-condizioni, che sono sostanzialmente quelle
di chi, come molti docenti, studiosi e professionisti è entusiasta del mondo
dell'informatica 2.0, la digitalità può effettivamente diventare una risorsa
vantaggiosa.
Pensare di riformare le scuole con una massiccia migrazione di tutto il mondo
cartaceo sul digitale o con una acritica idea della condivisione di materiali in
rete, scoperti in modo serendipico e privi di una mediazione, senza gerarchia di
rilevanze e al di fuori di procedure di segmentazione informativa preparate
fuori da ogni quadro didattico, non è una buona idea.
Molti altri dati riportati dal neuroscienziato tedesco dicono che l'esperienza
degli adolescenti in rete e in genere con i digital devices sono legati a
problemi come mancanza di autoregolamentazione, solitudine e depressione, in
genere tanto più diffusi quanto deboli sono le competenze sociali dei soggetti,
anche a causa della parallela diminuzione di esperienze dirette di gruppo,
sportive o di loisir, e a una crisi dei modelli educativi nelle
politiche pubbliche e nelle famiglie.
Le competenze sociali e l'autoregolamentazione paiono elementi dirimenti per una felice gestione del rapporto con i social network, Facebook tra tutti, da cui dipende anche un equilibrio delle risorse cognitive di chi studia e lavora; allo stesso modo, è esperienza elementare di qualsiasi docente (oltre a essere stato mostrato da studi dedicati) che chi non conosce nulla di un argomento non farà alcun progresso usando Google, mentre chi sa già molto riesce a procurare informazioni nuove grazie ad altre fonti e ad informazioni recenti e dettagliate che ancora non conosceva. La preconoscenza è un filtro necessario per muoversi in un oceano aperto di informazioni, immagini, testi, apparentemente identici e ugualmente attraenti: ed è anche uno schedario trascendentale che si costituito nel tempo, non senza fatica, con modalità di lettura tradizionale e attenzione profonda che usi sconsiderati delle retoriche del digitale o del 'tablet per tutti' potrebbero non garantire nel futuro.