Direzione didattica di Pavone Canavese

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2.10.98

Contro-valutazione della scuola
di Andrea Bagni

 

Tutti i documenti e i regolamenti sull’autonomia da concedere alle scuole fanno ormai riferimento costante (e quasi ossessivo) alla costituzione di un sistema di valutazione dei risultati.

Il nuovo contratto mirerà a premiare i "migliori" fra gli insegnanti, e la discussione non è su qual è l’insegnante migliore, come e chi può seriamente misurarlo; non mi pare ci siano idee risolutive in proposito: l’importante è che passi il principio, poi le forme si vedranno.

Si esprime così probabilmente il bisogno di calcolare il rapporto costi-benefici di ciò che si investe (per quanto nella scuola non si investa da una vita); si cercano garanzie sulla qualità della formazione, preziosa in epoca di produzione postfordista e "capitale cognitivo" da spendere sul mercato del lavoro.

Ma non è per nulla facile parlare di scuola a partire dalla centralità della valutazione (o addirittura del "sistema nazionale" di valutazione come si fa adesso).

Partire dalla valutazione così intesa è partire dalla fine del processo formativo. Il rischio è di perdere o occultare "l’oggetto specifico" costituito dalla scuola: che cos’è, com’è fatto dentro, come si muove o non si muove, come e cosa "produce".

Forse però questa perdita della scuola reale è in realtà un obiettivo, una scelta consapevole: la scelta di misurare la qualità dell’attività scolastica, senza entrare nel merito della sua vita, piena di un po’ di tutto, confusa, intrisa di soggettività e caso. Non si sostiene ingenuamente che si possano misurare certi aspetti dell’apprendimento: interesse, curiosità, partecipazione, crescita di autonomia e personalità; piuttosto che, in quanto non controllabile e quantificabile, quella dimensione della formazione debba uscire dal discorso sulla scuola.

Tuttavia il sistema scolastico è davvero un sistema assai particolare e la sua organizzazione va considerata dal punto di vista della qualità dei processi concreti, delle pratiche di scuola che contiene.

Il rischio forte è di finire per valutare solo ciò che è misurabile "oggettivamente" e confrontabile statisticamente.

Se poi si guardano i documenti di lavoro del CEDE di Vertecchi, è forte l’impressione che si stia costruendo un’altra tecnica, ennesima branca di un sapere tutto burocratico-pedagogico, ulteriore ala del castello kafkiano che pesa con il suo vuoto soffocante sulla scuola.

Sono convinto che sarà quello della valutazione degli insegnanti e delle scuole il terreno più delicato del conflitto culturale e politico dei prossimi mesi, sia perché introdurre carriere e premi di qualità cambia nel profondo cultura materiale e senso di sé della scuola (incide sul lavoro collettivo, sulla diffusione della professionalità, sulla possibilità di "contagio" fra le esperienze), sia perché il come e il cosa della valutazione è probabilmente capace di retro-determinare tutti i processi formativi (soprattutto in presenza di una debolezza culturale dei soggetti protagonisti). Individuate standard minimi nazionali, parametri oggettivi di riferimento, tipologia strutturata di prove, e vedrete in breve l’intera scuola conformarsi a quel modello: allora dati significativi per parlare di scuola, ma nella loro parzialità, possono diventare l’unica misura forte della sua qualità e ricondurre tutta la formazione al "totalitarismo" di quel riduzionismo pedagogico.

Il nodo è sempre quale "prodotto" si vuole "misurare" e quale idea del processo "produttivo" sottende tutta l’operazione.

Coerente con quest’ottica è la scuola intesa come tradizionale pratica del "versare" nei recipienti studenteschi una certa quantità di conoscenze date; poi si tratterà di verificare il grado di "riempimento" (o al massimo l’organizzazione di magazzino) del contenitore mentale, cioè quanto ci ritorna (in test, interrogazioni, prestazioni, prove varie) di ciò che si è immesso.

Tutto lineare, sotto controllo, sottratto sia al caso sia alla soggettività dei protagonisti.

Anche la nuova formulazione di una didattica per "moduli" nei regolamenti dell’autonomia, positiva quando sottolinea la possibilità di riorganizzare argomenti, individuare approcci diversi ai contenuti, rompere e muovere nel tempo la rigidità dei programmi (per la verità rigidi già più nella testa di molti insegnanti che nelle norme), è assai rischiosa se intesa come chiusura componibile del segmento: privo di un vero tempo d’apprendimento e segnato dall’ansia delle certificazioni (in ingresso e in uscita, da depositare su un libretto personale: segno dell’economicismo dilagante del discorso formativo); dunque con il rischio fortissimo di omologare e standardizzare tutta la valutazione, e poi la scuola stessa.

L’insegnare e l’apprendere non avvengono su una linea, piuttosto in una dimensione circolare, in un contesto, un campo magnetico di relazioni.

Il sogno della linea è forte, ma genera mostri. Produce separazione fra progettazione ed esecuzione, fra teoria ed esperienza; moltiplica gerarchie, funzioni di controllo e "figure di sistema": l’operare scolastico si può ridurre così ad una serie di comportamenti didattici, collocati in un processo che prevede (vedi il ddl sugli organi collegiali) staff e "coordinatori" da una parte (sempre più lontani dalle classi), dall’altra insegnanti "semplici" sempre più demotivati, sottopagati e impiegatizzati; poi tappe di "rendicontazione", certificazioni di debiti e crediti vari per tutti (vedi la bozza di contratto proposta dall’ARAN).

Mi pare che l’istituzione scolastica, nella sua grammatica profonda, si muova da tempo secondo un tale modello "produttivo". Assembla contenuti dati (raramente sottoposti ad analisi) a ritmi forsennati su telai mentali che ha cura di considerare vuoti. Poi si ingegna ad offrire occasioni di "doposcuola" para-assistenziali (cic, sportelli psicologici etc), oscillando fra il modello fabbrica (40 ore nei professionali) e quello centro sociale - ma senza autonomia giovanile, anzi contro di essa; allora più un parcheggio per adolescenti che luogo di costruzione e riconoscimento di sé (per il quale occorrono strumenti, lavoro, creatività più che ricreazione).

E tuttavia, oltre la crisi istituzionale e burocratica della scuola, ancora si fa scuola. Anche bene, spesso. Non è male ricordarlo.

Ancora si producono esperienze che capita riescano a dialogare con le pre-conoscenze, le domande si senso e i bisogni di sapere di sé e del mondo, di ragazze e ragazzi, bambini e bambine.

Quello che risulta non è mai la copia di ciò che si è immesso nel processo, registrazione di conoscenze trasmesse - anche se non avviene senza che si immetta qualcosa, e qualcosa di solido. Quello che risulta è la costruzione di un sapere "personale", soggettivo e intersoggettivo: passato attraverso un laboratorio, una rete di interazioni.

Questa mi pare sia la modalità specifica del fare scuola, l’intrecciarsi di ordine e disordine, immaginazione e rigore. Da qui occorre partire. E non per andare altrove, in cerca di territori più semplici.

Ma allora il modo di giudicare i risultati cambia. Non può essere semplicemente la misurazione che classifica una serie di prestazioni.

Il concetto di valutazione resta molto più ampio della sua riduzione a test, prove ed elementi di prova. Va oltre il misurabile. (Peraltro la scuola reale soffre di tutt’altro che scarsa "cultura della valutazione", casomai di essere ipervalutativa: pagelle pagelline recuperi vari, rendono tutti i consigli di classe una sorta di grigi prescrutini).

Mi sembra continui qui ad imperversare l’antico assoluto privilegio del formalizzato sull’informale. Ma c’è una valutazione che si può fare "da fuori" e una (certo più complessa, intersoggettiva, fondata su un’autorità riconosciuta e condivisa) che può avvenire solo dall’interno del processo; magari nella forma del racconto che sa non trascurare la variabile del tempo, del contesto e dell’individuo. E c’è la possibilità di una forma diffusa di valutazione che si realizza aprendo le scuole, rendendole trasparenti, attraversate dall’associazionismo di genitori e insegnanti, dalle domande dei giovani e dalla riflessione dei media.

Speriamo che gli esperti del ministero siano dotati del senso ecologico del limite. Una delle connotazioni più preziose del concetto di misura.