Direzione didattica di Pavone Canavese

vacanza.jpg (5838 byte)

a cura di Aluisi Tosolini

 

A proposito del film "Le acrobate"

 

"E’ vero babbo che adesso non possiamo...?"
Mia figlia ogni tanto domanda in questa buffa forma. Solo che non è buffa, è drammatica: lei teme (o sa già) di "non potere subito" (vedere un film, comprare un giornalino, andare da un’amica...) e chiede in questo modo che contiene già la negazione, come per prepararsi subito, non farsi illusioni. Poi quando la negazione arriva davvero (perché magari è proprio impossibile) il "dramma" il più delle volte esplode comunque: quelle cautele non sempre funzionano, anzi talvolta segnalano che l’ingiustizia era prevedibile, cioè abituale e dunque più amara.

La domanda terribile dei bambini e delle bambine non è il famoso "perché" - a quello si può sempre rispondere qualcosa, non ha contenuto "tragico" - ma il quando. Lì è in gioco il rapporto con il tempo. Allora a volte è difficile anche rispondere "domani".

Domani tutti sappiamo già che non andrà bene. Domani non va mai bene: è come mai, fra dieci anni, quando sarai grande. Non è una misura del tempo accettabile. E’ essenzialmente non-ora: oltre il qui, fuori da ciò che esiste. I bambini vivono invece il presente, non si "accomodano" come noi nel tempo, come se lo possedessimo, fosse possibile controllarlo, programmarsi.

Hanno "furia". Sembrano avere più tempo di tutti, ma non vogliono aspettare. (Fate caso a come coprono le distanze nei primi anni: corrono qualunque cosa debbano fare, in qualunque luogo debbano andare).

Un dentino cade in un bicchiere. Un’arancia rotola sul fondo di una macchina. Dettagli. Grammatica tenera dello sguardo. Un incontro scombina le geometrie della vita, che devia e si riorganizza come in un grande chiasmo: la donna del nord incontra la vecchia slava, che ha incontrato la donna del sud; Elena andrà a cercare Maria, Maria scriverà (una lettera scritta a mano che farà l’effetto di una bomba sulla scrivania tecnologica dell’altra) e poi si avventurerà fino a Treviso, da Elena. Da nord a sud, da sud a nord.

E’ l’ultima calda ingegneria narrativa di Silvio Soldini, "Le Acrobate". Donne che giocano leggere sul vuoto. Loro, piene di una relazione pericolosa, gratuita, disordinante. Teresa è la bambina-con-gli-occhiali, un po’ arruffata splendida e geniale. Però non va mica tanto bene a scuola. Anzi la scuola non va tanto bene con lei. Scandisce la vita in una prigione di orari, si organizza su un altro tempo: non quello del presente, aperto alle possibilità, agli scarti, ma un tempo "ufficiale" fatto di ritmi stabiliti e dunque ritardi, che fanno diventare la lentezza sognante e "scientifica" di Teresa, distrazione svagatezza "problemi in famiglia". Proprio Teresa che è una piccola ricercatrice. Una che costruisce esperimenti nella sua vasca da bagno. Una che chiede mille volte "quando" (c’è stata infatti un’incauta promessa) e che s’illumina d’un sorriso radioso mentre Elena, la vera scienziata, la donna del nord, fa accendere per lei la lampadina nel limone. Ma poi non può fare a meno di dire "me l’aspettavo che si accendeva!", non per svalorizzare, tutt’altro. Solo che è difficile sorprendere una come lei. E poi le vere sorprese sono quando ti succede quello che ti aspetti. Feste. (Ancora meglio se il tutto può addirittura accedere alla ripetizione).
Teresa è la piccola acrobata di Soldini. E’ una bambina completa.
Ha i bicchieri della Nutella, una probabile collezione delle sorpresine degli ovetti Kinder (di cui ovviamente conserva i "gusci"); è un’appassionata delle "Sailor" (per chi non ha figlie nella fascia d’età, il cartone di eroismo "cosmico" al femminile che segue i puffi intorno a quella che prima era l’ora di cena; c’è dentro un po’ di tutto e non si capisce niente se non si è del ramo).

Facile immaginare qualche barbie in cameretta (magari d’imitazione, perché Teresa non credo tenga molto alle marche).
"Ma sono tutte così le bambine?" domanda la donna del nord (chimica, come uno dei protagonisti de "L’aria serena dell’Ovest"). "Così come" risponde l’altra, la mamma. Ed è l’unica risposta possibile. Giusta.

Le due donne inventano il loro spazio in un viaggio segreto, straordinario intimo esodo dal mondo (dall’ecosistema mostruoso di uomini e poltrone-gambe-sdraiate e televisori sempre accesi - ma il muto saluto di Maria con il cugino, una "manata" alla quale lei risponde con un’altra bottarella, mi pare uno splendido esempio di comunicazione intima "al maschile": l’affetto vivo nella forma della sua spettacolare assenza; complice sottrazione di segni). Le altre due acrobate, la vecchia bulgara della casa bazar e la bambina curiosa, compiono i loro riti personali ma non privati di seppellimento di gatti e dentini. Alla ricerca di spazi altri, alieni come prati senza case e montagne del nord (altro che Padania).

Maria, la donna del sud, racconta delle volte che si vorrebbe abbracciare tutti nel tram perché ci si sente che sta per succedere qualcosa di bello. Elena ascolta, cerca di capire (capirsi, trovarsi) e intanto sorride, finalmente.

Teresa sembra abbracciare davvero, possedere l’universo in sé. I sogni dei grandi si realizzano da piccoli. Forse restano nella memoria, come una nostalgia che chiamiamo desiderio. Alla fine va a collocare il suopiccolo dente, che quello strano topolino ha portato in giro per l’Italia, proprio là sulle Alpi. Si teme un po’ per lei, nell’ultima inquadratura: sola nella neve, con le raccomandazioni della mamma a fare attenzione. Perché si è adulti e si teme per i piccoli. Ma forse sono loro che dovrebbero temere per noi.

Andrea Bagni