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I problemi della valutazione dopo la legge 169

15.03.2015

Ancora sulle competenze: come valutarle
di Franco De Anna

Torno sull’argomento dopo il mio precedente intervento, perché mi pare che nell’insieme delle iniziative editoriali, di dibattito culturale e scientifico, di prese di posizione politico-sindacali, emergano alcune questioni che meritano approfondimenti e precisazioni.

Della complessa e ambigua semantica del termine “competenza”….

Il nostro (di noi docenti, dirigenti scolastici ecc…)  appartenere alla Pubblica Amministrazione dovrebbe insegnarci qualche cosa su tale ambiguità. Nella PA la “competenza” assegnata ad uno specifico ufficio o persona, non corrisponde affatto a ciò che quella persona o quell’ufficio “sa fare”, ma a ciò che è sua “prerogativa” assegnata. Per quanti uffici o persone “competenti” di svolgere un certo lavoro, di condurre una pratica nella PA, spesso dobbiamo concludere che non sanno e non ne sono capaci o con grandi limitazioni di efficacia e produttività?...L’ufficio “competente” in realtà non ha “competenze”. Ma ciò che conta per la PA è avere riempito una casella del “manuale operativo” con una attribuzione formale di compiti.
A partire da tale banale considerazione, confesso qualche sospetto quando vedo una parte della PA (sia pure quella preposta al governo della Scuola) parlare e discettare con disinvoltura assertiva di “competenze”. Coltivo (confesso il pregiudizio) una sotterranea convinzione che la traduzione di tale ambiguità semantica  nel “manuale operativo” consista nel predisporre una casistica, un repertorio di classificatori, delle schede tassonomiche delle diverse occorrenze. Riempite le caselle delle schede, il compito è assolto.
Ma quali “competenze” reali supportano l’ufficio o la persona (nel nostro caso il docente) il cui compito assegnato sia di misurare le competenze di altri? Come si riempie “la scheda”?

Analogo spessore di ambiguità di significati ha il termine “certificazione” ( e già ne accennavo nell’articolo citato). Per la PA “certificare” ha il significato formale del “rilasciare un certificato”.
Cioè una “dichiarazione” formale che attesta, autorizza, sancisce… (di nuovo un “modulo”?)
Una eredità della storia delle funzioni della Pubblica Amministrazione: quando esse si limitavano al carattere “autorizzativo e prescrittivo” dei suoi provvedimenti. (ma siamo grosso modo a Cavour, e quel modello ci trasciniamo con successive e complesse stratificazioni storico culturali). Una PA che produce autorizzazioni, in connessione con diritti “politici e civili”, ha una “cultura” affatto diversa da una PA che produce “servizi!” alla cittadinanza ed ai sui diritti “sociali”.

Certificare” significa in tale caso garantire pertinenza, appropriatezza, qualità, efficacia, efficienza di tale “produzione”,  non produrre una” carta” attestante.
Se faccio il “valutatore” per la guida Michelin o per il Gambero Rosso non posso semplicemente attestare che una certa pietanza di un cuoco “mi piace”, e neppure che “non fa male e rispetta la natura”. Devo misurarmi con la cultura culinaria, la tradizione, locale e internazionale, le possibili interpretazioni, anche innovative…. Devo possedere una “cultura” dell’oggetto da valutare sulla cui pertinenza si fonda la possibilità (per altro sempre da sottoporre a verifica con opportuna supervisione)  del mio essere in grado di “certificare”.
Per stare al nostro caso: se mi si chiede di “certificare le competenze” non posso che muovere da una approfondita cultura relativa alle competenze stesse, a ciò che si intenda con il termine.
Qui la cosa si complica per il fatto (tutt’altro che trascurabile) che si chiede al “cuoco” (al docente) di “certificare” il suo stesso prodotto (le “competenze” di colui che egli conosce come “discente”. L’espressione può apparire contorta ma se ne darà conto in seguito).

Accenno a tale contraddizione (tenuta sotterranea nello stesso dibattito culturale e pedagogico) ricordando che essa era ben presente ai “nostri padri”. Un esempio: la “certificazione” fondamentale rilasciata nel nostro sistema di istruzione fu per anni il “diploma di maturità” ( con “valore legale”, quindi per la PA la quintessenza della “certificazione”. Mi si passi la battuta: quanti “autentici riformisti” attuali rivendicano tali assunti con piena coerenza…). Ebbene, con una coerenza certo superiore alla attuale, la Commissione di maturità era fatta tutta (tranne uno interno) da docenti esterni (non era il cuoco a certificare se stesso) e il candidato era sentito su “tutto” lo spettro della sua condizione di “discente”. Sarà più che discutibile ed obsoleto il modello, ma aveva una sua “avvertita” consapevolezza del significato del “certificare”, che è diverso da quello del “valutare”.
Vista la sua maggiore coerenza perché non ritornare sui passi? Perché la realtà si è incaricata di falsificare l’ipotesi: personalmente ho fatto quegli esami di maturità (1964), e già traballavano (la decostruzione fu nel 1969). Ma chi allora vi partecipava rappresentava meno del 30% dei giovani in età. (Certo: ero un privilegiato..) Oggi è più che raddoppiato. La dimensione del problema è diversa, e la “quantità” (a volte) trasforma la “qualità”. (Non mi ricordo più chi l’ha detto….). Soprattutto: l’istruzione superiore estesa all’universo  delle generazioni aventi diritto, ha modificato radicalmente il suon significato sociale. E noi manteniamo invece stratificate le significazioni antiche…
 

Competenza: una categoria meticcia

Ho ricordato, con il fastidio di qualcuno, l’origine non- scolastica, non-pedagogica, della categoria di “competenza”. Nasce in contesto di impresa. Per alcuni una sorta di “peccato mortale”. Non per me. Anzi. Trovo sempre di grande interesse e sollecitazione intellettuale il “rimescolamento” di culture, sensibilità, parole, significati. Il “meticciamento” è condizione di sviluppo, di evoluzione. Il potenziale evolutivo, come per le specie, si fonda sulla variabilità. E, in genere, gli ibridi sono più affascinanti dei “puri”. La sola avvertenza quando si ha a che fare con l’ibridazione è di produrre ibridi fecondi. Altrimenti per quanto bello ed affascinante sia il meticcio, se non è in grado di riprodursi rimane un “episodio in sè stesso limitato”. Interessante, ma senza futuro. O meglio, volendo garantirsi i vantaggi dell’ibrido infecondo, occorre investire in modo finalizzato e costante nella ibridazione. Come per i muli.
Ma forse oggi l’apprezzamento delle qualità del mulo, rispetto ai genitori, è un poco in decadenza…

Voglio solamente esplicitare i riferimenti, visto che vi si sorvola nel dibattito corrente.
L’elaborazione europea più significativa sul tema delle “competenze” rideclinate in contesto di formazione (non necessariamente scolastica… anzi) si inscrive nella fase di gestione Delors, di grande rilevanza politico culturale, ma probabilmente già troppo lontana (1985-1995) per la “corta veduta” del nostro dibattito. Le datazioni mostrano semplicemente quanto “siamo in ritardo”. E, per intenderci: in ritardo sia per aderire e ottemperare, sia per eccepire e distinguere.
Questi i documenti
 

       In parallelo voglio ricordare che nel 1983, ad opera di un consistente gruppo di grandi imprese (Nokia, Suez- Lyonnaise des Eaux, Renault, Saint-Gobain, Petrofina, Nestlé, British Airways, ThyssenKrupp, TOTAL, Royal Philips Electronics, Solvay, Deutsche Telekom, FIAT, Telecom Italia, ENI ecc) si diede vita all’ERT (European Round Table of Industrialists) con compiti di analisi e proposte sullo stato dell’economia europea, perché si rompesse l’immobilismo e si avviasse un massiccio processo di modernizzazione dell’industria di base in Europa. L’ERT, negli anni successivi, avanzò alla UE una serie di proposte che andavano dalla privatizzazione di vitali settori pubblici, alla riforme dei sistemi pensionistici, alla (de)regolamentazione del mercato del lavoro, alla riforma dei sistemi di istruzione pubblica. Nel 1987 l’ERT diede vita ad un “gruppo di lavoro sull’educazione” che rimase in attività fino al 1999, e da esso provengono numerose sollecitazioni reinterpretate negli anni successivi (compresa la sensibilità sul tema competenze)

Anche in tale caso mi limito a citare i documenti più rilevanti in merito a quest’ultimo punto.

In linea con tali elaborazioni la Confindustria europea presentò

In tutti questi documenti si introduce e rielabora la categoria di “competenze” come riferimento fondamentale della qualificazione del “fattore umano” nel processo di riconversione/ristrutturazione del sistema economico/industriale europeo. Nessuno di questi documenti ha come origine il campo della “ricerca educativa” o della “cultura pedagogica”.

Altrove sintetizzai l’intera argomentazione sostenendo che la categoria della “competenza” è rappresentativa della problematica del “valore di scambio” della cultura e dell’istruzione nel rapporto di lavoro, in un sistema economico che incorpora quote crescenti di cultura e istruzione entro il processo produttivo stesso (ma lo fa, non ostante il mito della “società della conoscenza”, ovviamente, con forte filtro selettivo).
Altra cosa è il “valore incondizionato” (il “valore assoluto” della cultura e del sapere) con il quale si misura quotidianamente il lavoro del docente e la problematica squisitamente pedagogica del “fare scuola”.
La dialettica del “doppio valore” dovrebbe rappresentare un orizzonte, difficile ma insostituibile, della professione docente nella “scuola di tutti e per tutti”, in questa fase storica, e “dominare” sia le derive economiciste (ben al di là delle impaurite e frustrate pregiudiziali contro la cultura di impresa), sia, al contrario, le nostalgie di una cultura sempre  interpretata come “otium” e sganciata dai paradigmi del lavoro e dello sviluppo economico, ma in realtà offerta ai “pochi” privilegiati che del lavoro e dello sviluppo sono “i beneficiari”, più o meno insediati e inseriti nella catena di scambio, ma non gli interpreti. (Vedere il tormentone culturale sul Liceo Classico e il suo trascurato primato, che sarebbe da ridere per gli autorevoli interventi, se il pianto non toccasse ad altri. Quelli esclusi. E io sto con gli altri..)

Ho riportato l’elenco precedente perché mi pare che l’origine “economica” della categorizzazione di “competenza” sia come lasciata dietro l’orizzonte. Posso comprendere il “pudore” (o l’inconsapevolezza..) di tale confinamento. Ma credo che ciò costituisca una inavvertita ma drastica limitazione alla piena consapevolezza e comprensione della questione che si pone sempre quando una sollecitazione/suggestione proveniente da altra cultura si offre alla traduzione di quella che ci è più prossima.
Se vogliamo riconoscere come valore l’incrocio, il meticciamento di modelli, culture, linguaggi, occorre porre cura massima nelle operazioni di trasferimento e traduzione (tradurre è sempre un poco tradire, direbbe Calvino).
E, nel valorizzare “l’ibrido”, come ricordato più sopra, curare che esso sia fertile e non il risultato di una semplice operazione di “incrocio”.

Il cuoco non certifica, ma valuta

Riprendendo la metafora proposta dianzi: non si può affidare al cuoco il compito di darsi le “stelle” della guida Michelin (e neppure ai clienti… può farlo solo chi abbia una accertata e supervisionata cultura culinaria…) o ma certo il cuoco valuta. Guai se non lo facesse. Assaggia, corregge in corso d’opera,  aggiunge condimento, segue e assiste all’opera sua… Il senso della metafora è evidente: non solo segnala la funzione dell’autovalutazione come strumento essenziale della cultura organizzativa di una scuola, ma consente di delineare una dislocazione concettuale fondamentale tra valutazione e certificazione.
In tanto è efficace l’azione di valutazione condotta dal cuoco, in quanto è esercitata su condizioni, variabili e risorse che egli padroneggia e che dunque è in grado di modificare e sulle quali può influire. Certo con limitazioni: se manca sale posso aggiungerne. Se il sale è troppo si apre un problema, non si può togliere: le patate assorbono l’eccesso di sale, ma l’aggiunta di patate cambia la ricetta…. Paiono banalità, ma sembrano sfuggire ad autorevoli commentatori..
Per tornare a noi: la distinzione tra valutazione e certificazione mi pare argomentata a sufficienza. A mio parere occorrerà anche solamente registrare il linguaggio ed usare con cautela il termine “certificazione” (possiamo sempre “metterci d’accordo” sul significato, purché sia chiaro il carattere “convenzionale” dell’accordo. Ma se qualcuno si prende troppo sul serio, la convenzione salta..).
Vedo con conforto che un vecchio amico come Mario Castoldi, sia pure con minore vis polemica della mia (ma è questione di carattere: Mario è molto più equilibrato) sottolinea la sequenzialità e priorità  concettuale tra valutazione e certificazione. Come non essere d’accordo? Come pensare di disporre di un “certificatore” che non si sia neppure misurato con il “cosa” valutare? Come pensare che sia sufficiente produrre alcune (più o meno sensate) schede e scale di classificazione (da A a D. Che non fa molta differenza con da 0 a 10: a parte l’antipatia per i numeri… Ogni scala deve essere trasferibile in un’altra…)?
Ma al di sotto di tale consapevolezza, opera un’altra e assai più significativa.

Dal punto di vista di un  “docente ideale”, capace di affrontare congiuntamente il compito di utilizzare appropriati strumenti di misura (tecnica) e di rielaborare inferenze e diagnosi sulla base della quali  formulare giudizi (anima), alla base del processo di valutazione e che ne legittima l’esercizio rispetto al soggetto interlocutore (il discente), sta la consapevolezza della padronanza degli strumenti di intervento per correggere, migliorare, costruire alternative, offrire occasioni e indirizzi all’interlocutore che ci si offre come discente (tecnica +anima).
Per gli amanti della “consolazione delle parole” o delle parole consolanti, ciò si chiama “valutazione formativa” (mai inganno verbale fu più efficace e deviante, contrastando la “crudezza” del valutare con la consolazione dell’indicare contemporaneamente “la salvezza”. Che sia un derivato della nostra cultura cattolica?). So che ci si sta impegnando per dimostrare che la ”valutazione delle competenze” può essere iscritta nel paradigma della valutazione formativa (un esempio più che autorevole: Giancarlo Cerini). Ma, a parte la declinazione banale ( in contesto pedagogico, la valutazione è sempre  indicazione di un modello verso cui tendere per migliorare… e infatti il problema è il “modello”) la verità è incomoda: se c’è un esempio di valutazione che in sé limita fortemente la componente “formativa” è proprio la “valutazione delle competenze”, specie se estesa impropriamente alle età di più intenso e significativo sviluppo del soggetto (le prime età scolari). Le ragioni di tali affermazioni di seguito.

Le competenze come oggetto “multivariabile”

Molti ed autorevoli commentatori (penso a G. Cerini, M. Spinosi, M. Tiriticco, M. Castoldi… e me ne sfugge qualcuno a cui chiedo scusa per la mancata citazione) si sono misurati con l’impresa di dare al termine “competenze” una adeguata definizione. Medesima cosa ho provato io stesso nell’articolo ospitato in queste pagine (http://www.pavonerisorse.it/riforma/valutazione/voti_competenze.htm ). Non mi interessa qui confrontare le definizioni e neppure sottolineare le maggiori o minori ampiezze. Credo che un elemento unifichi le diverse proposte definitorie.
Il costrutto di “competenza” è multivariabile: comprende nel suo arco definitorio elementi assai diversi tra loro (cito: abilità, capacità, esperienze, attitudini, conoscenze, motivazioni, responsabilità..). La “competenza si propone come una “sintesi”, operata sul substrato psico-antropologico del soggetto, di tale insieme multivariabile.
Nulla di grave né di concettualmente impervio: pensate a quando scegliete un  idraulico. A parità di formazione professionale, a parità di “borsa degli attrezzi”, finanche a parità di tariffe, scegliete Uno piuttosto che Altro. A presiedere alla scelta sta una “sintesi” non sempre esplicita analiticamente, di considerazioni diverse, su ciascuna delle variabili. Non esclusa quella della abilità del rapporto con il cliente.
Vi pare superficiale l’argomentazione? Ma di questo stiamo parlando.” L’imprenditorialità” è una delle componenti del repertorio delle competenze di cittadinanza elaborate dalla UE nel quadro delle qualifiche.

Ma qui interessa sottolineare il carattere di sintesi di molte variabili che il termine competenze ha, qualunque sia la definizione che si scelga.
Alcune di tali variabili sono intrinseche al rapporto educativo (“quel” rapporto educativo, non è né l’unico, né sempre il più rilevante..) che si instaura tra docente e discente e che è caratteristico del sistema di istruzione nel quale operiamo: formale, organizzato secondo un modello di pubblica amministrazione, istituzionalizzato negli obiettivi e nelle procedure,  guidato da istanze di riproduzione culturale esplicitate (che si chiamino  “programmi” o che si chiamino “indicazioni”. Non son la medesima cosa, ma per il ragionamento che stiamo conducendo si equivalgono).
Altre variabili non lo sono. Pre-esistono al rapporto educativo; sono estranee ad esso; sono parallele ma non interrogate da esso…
Abilità, attitudini, esperienze, motivazioni… Un docente trova, nel suo “discente,” gran parte di tali variabili o pre-determinate da una storia del soggetto sulla quale egli nulla può, se non interpretare ciò che è già accaduto, o (penso alle “attitudini”) fare un intenso e investigativo lavoro di scoperta di ciò che la scuola “normale” non interroga (noi interroghiamo sempre su ciò che il discente “non sa”, perché tendiamo ad assimilarlo ad un modello idealtipico di ciò che sa/deve sapere, che si tratti di “programmi” o “indicazioni”). E sulle “esperienze” sappiamo che l’impostazione storica della nostra scuola, per quante correzioni possiamo fare, riproduce una cultura didattica lontana dalla scuola dell’esperienza, lontana da Dewey, così come da Maria Montessori.

In buona sostanza: se ci riferiamo al modello tradizionale di interpretazione del lavoro del docente, della relazione educativa docente/discente, dei modelli di organizzazione della didattica, dei valori interpretati e attuati nella pratica valutativa, l’azione di padronanza del docente si esercita prevalentemente su una ed una sola delle variabili costitutive delle competenze: le conoscenze.
E’ la variabile “plastica”. Quella sulla quale tradizionalmente  il docente può influire attraverso il suo lavoro di formazione (per adeguato o meno che sia..) attraverso l’apprendimento
Per le altre che compongono le competenze (abilità, attitudini, capacità, esperienze, motivazioni…), dovrà esercitare capacità di scoperta, rilevazione, incentivazione attraverso l’esercizio e la  messa a disposizione di occasioni (la costruzione di esperienze, possibilmente fuori dal range delle “indicazioni”)… ma non ha strumenti di esercizio di “padronanza”  a meno di capovolgere/sconvolgere il modello di cultura professionale e didattica consolidato.
Nulla di grave: credo che se un docente sia in grado di esercitare effettiva padronanza su una componente essenziale della sintesi costituita dalle “competenze”,  quale sono  “le conoscenze”, gran parte del suo lavoro sia compiuto.
Il problema si pone quando si chiede al docente di essere valutatore e finanche “certificatore” di variabili che non sono in sua “padronanza”, e dunque sulle quali non può influire attraverso il suo lavoro
In tale caso il carattere “formativo” della valutazione  è puro richiamo ideologico. Ma non mi scandalizza, anzi. Può essere una occasione  per disvelare la falsa coscienza di una scuola che predica il carattere formativo della valutazione ( e magari lo usa strumentalmente contro le rilevazioni standardizzate dei livelli di apprendimento) e contemporaneamente si disfa di quasi un terzo dei suoi “discenti”.
Ciò che è sicuro è il fatto che si chiede al docente una prestazione professionale che esorbita la relazione educativa quale si è costituita prevalentemente nella nostra scuola e lungo la sua storia. (Con differenziali tra diversi ordini di scuola: la primaria è da sempre più attenta alle dinamiche proprie del soggetto).


Valutare le competenze richiede competenze multiformi

La complessità delle variabili che presiedono alla definizione di “competenze” può anche essere affrontata in un lavoro (apprezzabile) di confronto con quanto definito/predicato nel “modello” operativo costituito da programmi o indicazioni. Si tratta comunque di un livello prezioso di analisi e di proposta, non ostante le diverse cosmesi linguistiche ( per esempio, nelle indicazioni,  non le competenze ma i “traguardi” per le competenze… E ne capisco e apprezzo la mediazione. Ma poi in certe circostanze, come la “certificazione”, la mediazione dei “traguardi” si rivela per ciò che è...)
Ma al fondo residua una problematica non esorcizzabile.
Se la complessità multivariabile costitutiva del costrutto di “competenza” trova la sua sintesi sul substrato psico antropologico del soggetto, che interpreta molto di più del “discente” modellizzato sia nella cultura scolastica prevalente, sia nelle innovazioni di programmi e/o indicazioni, e se il docente-cuoco  è chiamato ad esercitare la propria valutazione ( e finanche certificazione) su elementi di cui non ha padronanza diretta,  occorrerà dotare il docente di competenze e di strumentazione di carattere psicodiagnostico che affianchino, se ve ne sono di adeguate, quelle di valutazione degli apprendimenti e delle conoscenze.
Altrimenti si tratterà di “compilare schede”. E sarà fatto, non ho dubbi. Ma perdendo una occasione per mettere in discussione l’intera cultura della valutazione della scuola italiana.

I documenti ministeriali e la loro complessità

Alcuni interlocutori (penso all’amico Tiriticco) se la prendono con la complessità dei documenti (circolari, linee guida, allegati..) proposti dal MIUR e leggono tale complessità in chiave di rimando ai docenti della responsabilità di interpretare un fronte innovativo come la valutazione delle competenze. Altri come Aladino Tognon,  sottolineano tale complessità come tratto positivo: il problema che abbiamo di fronte non è risolvibile con un report standard o con una scheda.
Sono, in questo caso, più vicino ad Aladino. Ma non riesco a controllare una certa malizia. In effetti il provvedimento dell’Amministrazione è corredato da un apparato analitico di tutto rispetto e che rimanda una consapevolezza del problema nella sua complessità.
Ma tale immagine di approfondimento analitico è contraddetta da due elementi cruciali.
Il primo è l’estensione arrischiata e pericolosa della valutazione delle competenze ad età scolari fortemente contrassegnate da velocità e differenziali di sviluppo che poco si accordano con le “scadenze ordinamentali”.  La valutazione delle competenze in uscita dalla primaria è, rispetto alla stessa consapevolezza mostrata dai documenti ministeriali, una “simulazione” nella quale i pericoli (pre-figurare nei “documenti scolastici” una immagine del soggetto “inchiodato” ad una fase della sua evoluzione) sono più consistenti dei possibili vantaggi (una diagnostica accurata del soggetto stesso o e delle sue prospettive evolutive).
Il secondo è il “precipitato” di una predicata, declarata e intensa attività diagnostica connessa alla attenzione alle competenze, in un apparato classificatorio (schede, scale di valutazione..) che rischia di autonomizzarsi (anche per il solo fatto che le schede diventeranno “obbligatorie”) dalla stesso impegno diagnostico.
Insomma: abbiamo a che fare con un (contraddittorio e complesso) oggetto che rimette in discussione la cultura valutativa della nostra scuola e, per il suo esorbitare dalle variabili comunemente interpretate nella padronanza dei docenti,  pone interrogativi radicali sullo stesso modo di “fare scuola” ( dalla valorizzazione della caratteristiche individuali, alla promozione dell’esperienza, alla scoperta delle abilità ed attitudini “non contemplate” nel modello idealtipico di discente..) e dunque sulla cultura didattica mediamente espressa nel nostro sistema di istruzione.  
Mi piacerebbe che si evitassero due rischi: da un lato quello del “ il Ministero scarica un  problema in più sui docenti..”. Dall’altro una esegesi puntigliosa e “avverbiale” dei documenti ministeriali che confortasse la metabolizzazione della novità, residuando che “in fondo non c’è nulla che non sappiamo già fare e che non sia previsto nelle “nuove” indicazioni”. Non sono vere entrambe le cose.

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