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ATTUALITA': temi e dibattiti del giorno

(20.06.2016)

 

Padri, figli, nipoti. A proposito di referendum costituzionale    
di Franco De Anna

“…La più adatta a distinguere i propositi di più alta utilità, dopo ascoltati gli oratori, è la maggioranza”.
Le parole di Tucidide (Tucidide, VI, 39) rappresentano una sorta di “paradigma fondativo” della più comune interpretazione di cosa sia la democrazia. Occorre certamente tenere conto della apologetica che anima le parole di Tucidide (basti pensare alla “sviolinata” dell’orazione di Pericle…). Ma soprattutto considerare la lunga storia della necessaria falsificazione critica di tale paradigma della “superiorità democratica” del responso della maggioranza, che collega argomenti, autori, epoche assai diverse e anche molto distanti: da Platone (e il processo a Socrate) a Gesù Cristo (la maggioranza sta con Barabba), da Dostojevskj (il Grande Inquisitore..)  a….Luciano Canfora (!!)

Una intera storia della “filosofia e della scienza” della politica è contrassegnata dalla “provvisoria” (via via conforme allo “spirito del tempo”..) declinazione dei due principi fondamentali, ereditati dai Greci, della isonomia e della eunomia; o se si vuole, in parallelo, della declinazione di demos e di cratos; o se si vuole, in parallelo ma più tardi, della individuazione di equilibri, contrappesi di poteri, e forme adeguate per interpretare quel paradigma fondativo nel contesto degli Stati moderni.

E ad ogni attraversamento di faglie storiche le necessità di rivedere, adeguare, reinterpretare… in processi mai lineari e mai “pacifici”, ma sempre segnati dal compromesso, dalla ricomposizione, dalla interpretazione di conflitti ed interessi divergenti.
E ciò vale in particolare nelle fasi drammatiche di passaggio storico: la sedicente hegeliana “presunzione-presuntuosa”, della razionalità del reale è solo rappresentazione tranquillizzante ex post di processi e conflitti radicati nella materialità della vita di masse e popoli che trovano transitorie ricomposizioni. “Transitorie” nel senso dei tempi storici delle “transizioni” delle formazioni storico-sociali. (
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L’assemblea e gli oratori

Se, per comodità di argomenti, volessimo “adattare” le parole di Tucidide all’oggi dovremmo considerare tutti i cambiamenti che lo sviluppo storico (attenzione: fatto di lacrime e sangue… non, o non solo, di “carte o dichiarazioni”) ha prodotto o sta producendo nella “assemblea” e negli “oratori”, dove dovrebbe esprimersi il criterio/primato della maggioranza, con tutte le correzioni e contrappesi che la storia della politica ci ha consegnato.
Mi si dirà: ma stiamo parlando dello Stato moderno!!! Appunto…Se c’è una fase storica nella quale lo “Stato (statico)”, o se si vuole “l’assemblea” per la quale son state messe a punto le misure formali di interpretazione dell’isonomia e le condizioni di esercizio dell’eunomia, riassunte nelle “Carte Costituzionali” è investito da una dinamica che ne contraddice a fondo la “transitoria staticità” (vedi nota...) è quella che stiamo attraversando.
L’assemblea cambia dimensioni, confini, perimetro, profondità.
I cittadini (ma di quale città?) devono misurarsi quotidianamente con ambiti di decisione che non sono più quelli riconosciuti nelle “Carte”. Decisioni sovra e sotto “statali” assunte attraverso processi che non interrogano l’assemblea. E tale assenza di interrogazione proviene sia da un “disegno politico” di neo aristocrazie (argomento caro a chi indulge verso la dimensione delle congiure internazionali dei poteri forti, come se fossero una scoperta recente), sia dalla effettiva inesistenza storica di strumentazioni consolidate per pervenire alla applicazione assennata del principio di maggioranza. Una gran parte delle decisioni internazionali-globali per esempio è assunta attraverso strutture, organismi e pratiche di governance che non investono gli Stati nazionali in quanto tali…i quali semmai ratificano ex post… Sabino Cassese dice, con grande efficacia di “governance without governament”.
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Lascio ai cultori dei fantasmi della “congiura internazionale della reazione dei poteri finanziari in agguato” la frustrazione della nostalgia dello Stato nazionale come garanzia di diritti (ma davvero? Curioso sarebbe esplorare qui dove siano e si ritrovino destra e sinistra..).
Mi limito invece a segnalare, anche se con l’angoscia della fatica e il sudore della fronte, un campo storico di necessario “rimescolamento delle Carte” nel quale vi è (vi par poco?) da ridisegnare quello che Enrico Berlinguer chiamava un “nuovo ordine mondiale”. Una volta si sarebbe detto che in tale storico impegno sta “l’identità della sinistra”.
Ma non si può tacere, inoltre, del cambiamento degli “oratori”, dopo avere ascoltati i quali, l’assemblea decide a maggioranza.
Potremmo sostenere, per semplificare l’argomentazione, che il secolo abbondante che segue la repressione sanguinosa della Comune di Parigi, sia caratterizzato dai tentativi, diversi e di diverso valore e significato, di costruire l’organizzazione capace di condurre “all’assemblea gli oratori” più efficaci per porla in condizione di perseguire l’eunomia. Un secolo abbondante di costruzione organizzata dei partiti politici, segnatamente di quelli di massa. Il tucidideo “sentiti gli oratori” reinterpretato attraverso l’organizzazione dei partiti ha creato lungo quel secolo la possibilità sia della partecipazione organizzata dei cittadini, sia della espressione organizzata degli interessi, sia delle mediazioni necessarie per perseguire il bene comune.

Ovviamente potenzialità della storia, sempre intrecciate nelle contraddizioni anche laceranti di quel secolo (si pensi alle diverse identità/finalità acquisite dalle organizzazioni politiche). Ma quella forma di organizzazione politica, soprattutto nel caso dei partiti di massa, ha anche promosso le possibilità di specifiche e permanenti interrogazioni degli “oratori”, di partecipazione e verifiche, scelte alternative, mediazioni e composizioni e compromessi tra diversi interessi, prospettive, strategie. Le Carte moderne nascono da quel processo, o quelle più antiche (come quella americana..) si sono alimentate in quel processo…
Ma quel processo, almeno nel nostro Paese è terminato, in modo esplicito e drammatico agli inizi degli anni ’90.
Si prenda come emblematico il 1992. Fine sostanziale dei partiti (gli oratori) che avevano alimentato nel bene e nel male la politica della seconda parte del ‘900; radicale modificazione dei rapporti tra magistratura e politica (Mani Pulite..); attacco aperto (guerra allo Stato) della Mafia; firma del trattato di Maastricht (cambia “l’assemblea dei cittadini”; la firma di Andreotti, ricordo..). Nulla da allora è in realtà più come prima. Si pensi che il partito più “vecchio” che oggi siede in Parlamento è la Lega…
Ma non abbiamo rielaborato assennatamente quella fine (basterebbe considerare come è stato affrontato il problema di dare corpo alle scelte di Maastricht che segnava la prima tappa di quel processo che avrebbe portato all’euro…). Il Paese, la sua dirigenza politica e culturale ha “seguito l’onda” invece di “disegnare percorsi”… Ma non ho visto carri armati per le strade: dunque le responsabilità sia pur non eguali, sono orizzontalmente distribuite. Ciascuno la sua parte: chi è stato eletto e chi ha eletto.
Se gli “oratori” parlano non alla “assemblea” ma, per esempio, da schermi televisivi a singoli spettatori, apparentemente guardando ciascuno negli occhi, ma senza vederlo, annullando ogni intermediazione di confronto e discussione; se si esprimono attraverso una organizzazione della comunicazione digitale e disintermediata, ma al prezzo di ridurre l’interlocuzione a scelte binarie (si/no, mi piace/non mi piace); o di contrarre fino ad annullarlo quell’intervallo tra stimolo e risposta che è tradizionalmente dedicato alla “riflessione” dell’interlocutore; se così, e così velocemente, cambiano sia “l’assemblea” che “gli oratori”, possiamo pensare che rimangano inalterate “le Carte” che avevano dato forma/formale e garantita, per una intera fase storica, al principio tucidideo del “sentiti gli oratori, l’assemblea decide a maggioranza”?

Quale garanzia, composizione equilibrata e contrappesi di poteri se tutto ciò è riferito ad una realtà radicalmente cambiata e soprattutto radicalmente e velocemente in via di cambiamento?
Capisco che la portata destabilizzante di tali processi sia inquietante. Ma hanno anche un effetto “rivelatore” importante: sono lenti di ingrandimento di “microprocessi” sotteranei che altrimenti passano trascurati. Per esempio il rapporto tra Costituzione come “Carta consolidata e formalizzata” (la nostra famosa sedicente “più bella del mondo”) e ruolo dei “costituzionalisti” come “esperti e studiosi” oltre che come giudici…Bisognerebbe sempre ricordare che la prima viene “prima” dei secondi… (la lettura di qualche singolarmente discutibile sentenza della Corte si presta a validare tale considerazione).  Anche in tal caso un (malizioso) invito alla lettura di un testo di Sabino Cassese (“Dentro la Corte, Diario di un giudice costituzionale”, il Mulino, Bologna 2015)


La storia e la memoria
Transitorie (per destino umano) son le generazioni; transitori (per definizione) sono i processi storico sociali. Ma, ça va sans dire, le velocità di transizione son diverse. A tentare di colmare i differenziali di velocità e dunque a costruire consapevolezza sociale dei processi storici, soccorre innanzi tutto la memoria e i suoi meccanismi di produzione, riproduzione, comunicazione.
Nei sistemi sociali con istruzione di massa a tali meccanismi si aggiunge quello essenziale del trasferimento della disciplina storica da ambito di ricerca a ambito di riproduzione: la ricerca storica (più o meno appropriatamente “metabolizzata”) si trasforma in “materia” di insegnamento.
Si tratta, ovviamente, di un processo essenziale nella costruzione della consapevolezza storica diffusa socialmente. Ma, dato il meccanismo di trasferimento dal campo della ricerca a quello della “riproduzione di saperi” (le discipline scolastiche) porta con sé rischi di cui occorre essere avvertiti (ma ciò vale del resto, per tutte le discipline che diventano “artefatto didattico”).
Il rischio fondamentale è proprio quello della sovrapposizione impropria di paradigmi della memoria, con quelli del sapere storico. La riflessione sulla consapevolezza storica delle problematiche relative alla Carta Costituzionale incontra numerosi esempi di tale sovrapposizione.
Per esempio si guarda alla Carta come un “serbatoio di promesse non mantenute” o di “occasioni mancate”; una sorta di “testimonianza” sempre “più avanti” dei concreti processi storici.
Si tratta, come evidente, di un costrutto che rielabora “memora politica” (obbiettivi e strategie politiche sconfitte, o non realizzate, speranze deluse) ma non ricerca storica (le ragioni, le cause, le responsabilità, gli interessi, la realizzazione di compromessi..).
E’ un paradigma caro ad una (vecchia) sinistra di grande spessore e storia politica; ma così sovrapposto ai costrutti dell’analisi storica rischia un approccio “vittimario” (prendo a prestito il concetto da altre elaborazioni): le promesse non realizzate, le speranze tradite son sempre responsabilità dell’avversario che ci ha vinto. In base a tale paradigma se oggi, addirittura, si vuol cambiare la “Carta delle promesse”, significa il tradimento definitivo.
Ma altrettanto dicasi per la “Carta più bella del mondo”. Lo slogan è certamente il prodotto di un intreccio di considerazioni reali e di altre immaginarie. E’ indubbio, per esempio, che il lavoro dei Padri costituenti abbia prodotto un documento di grande pregio per chiarezza, sinteticità, interpretazione progressiva dei “sacri principi” di isonomia e eunomia. Ma ciò è molto più vero per la prima parte (i principi) che non per la seconda (gli ordinamenti dello Stato) che risente marcatamente sia della esperienza pregressa (la struttura dello  Stato Liberale e l’esperienza della dittatura), sia degli equilibri e compromessi delle forze politiche e della stratificazione delle rappresentanze e degli interessi sociali di quella fase storica.
D’altro canto occorre comprendere che la comune elaborazione della memoria, al di là del rigore della ricerca storica ha una funzione fondamentale di unificazione delle consapevolezze, delle speranze e delle prospettive. Dunque un comune “costrutto di senso” del futuro. Solo la costruzione e l’impegno per il futuro comune rende “accettabile” la sovrapposizione tra memoria e consapevolezza storica (altrimenti il culto della memoria diventa altro e con altro scopo). E ciò richiede che la dialettica tra i due approcci venga nutrita e mantenuta vigile.
In altre parole: l’obiettivo è la costruzione di un “noi” per il futuro. Se annulliamo la dimensione del futuro da queste strumentali costruzioni di “noità”, rimangono i residui negativi del paradigma vittimario (le speranze tradite, le occasioni perse) o del “non si cambia nulla” perché tutto è già al meglio (la carta più bella del mondo)
Ma ciò con cui dobbiamo fare i conti oggi, insieme a quanto già delineato in precedenza, di una fase storica di transizione radicale, è l’assenza di un idea sensata e condivisa di futuro. Ogni patriottismo costituzionale che si limiti a volersi nutrire di sè stesso stravolge il suo significato e minaccia di “diventare altro” in termini di conservazione frustrata. Occorre affrontare la fatica e l’impegno dell’analisi storica e politica differenziate, se si vuole scongiurare quel precipizio.

Heri dicebamus
Forse per tutte le ragioni precedenti, il confronto sulla riforma costituzionale si è animato con rimandi ripetuti a ciò che “fu detto” da “padri storici” e che vien ripetuto, come se fosse memoria condivisa, ai nipoti che andranno alle urne. Non mi sottraggo all’onda, sperando che si rintracci, tra le righe una trama che all’onda non appartiene. Si legga.
“Le Regioni e i Comuni eleggeranno la seconda Camera”
Titolo dell’Unità (allora organo del PCI) del 17 Ottobre 1946. Riferisce l’ordine del giorno approvato dalla seconda sottocommissione della Costituente. Il Senato dovrebbe essere eletto per un terzo dalle Regioni (che tarderanno oltre vent’anni ad essere costituite) e per due terzi dai Comuni. Il PCI è d’accordo, sia pure con qualche elemento critico

“Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale..” (art. 57)
L’affermazione attuale dell’art.57 sarebbe senza senso alcuno (se non tecnicamente per la determinazione dei collegi) se non rammentassimo che in realtà il primo testo costituzionale differenziava marcatamente la funzione del Senato (contrappesi). Non solo per la maggiore età richiesta per eleggerlo, ma anche per la durata più lunga prevista inizialmente (sei anni contro cinque della Camera, che comunque ponevano il ruolo del Senato “a scavalco” della legislatura).
Il dispositivo non fu mai rispettato. Nel 1953 e nel 1958 il Senato fu sciolto anticipatamente per aggirare la sfasatura, e nel 1963 fu modificata la Costituzione per sancire il “bicameralismo perfetto” (che non stava nelle intenzioni dei padri costituenti). Chi oggi parla di “contrappesi” si riferisce comunque a quelli che elabora lui stesso, non a quelli nella mente dei padri costituenti.

La paura “che domani vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese: e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle regole… e di qui anche quella bizzarria della Corte Costituzionale … insomma tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia di seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti Costituzionali…..”
Intervento alla Costituente di P. Togliatti, 11 Marzo 1947.
L’attenzione ai “contrappesi” è dunque meno lineare e “istituzionale” di come viene rappresentata oggi. Storicamente vi fu intreccio tra esigenza di definire garanzie per scongiurare l’esperienza del fascismo, ma anche le preoccupazioni anti giacobine della DC, ma anche le “cautele” con le quali venivano lette le condizioni di “democrazia avanzata” che elaborava la sinistra (vedi l’intervento di Togliatti).. Per esempio in un carteggio De Gasperi-Piccioni (all’epoca e fino al caso Montesi il suo più probabile delfino) il primo paventa, dello stesso dettato costituzionale, il pericolo costituito dall’assetto regionale (De Gasperi ne utilizzò largamente ma solo per ricomporre la questione del Trentino-Sud Tirolo), e dall’istituto del referendum popolare..
In questa chiave vanno letti i grandi ritardi applicativi della Carta come nella creazione della stessa Corte Costituzionale (e della sua formazione si ricordi che il primo Presidente era stato a capo del Tribunale della Razza…) e il lunghissimo intervallo  nel dare vita all’ordinamento regionale.
Dunque principi di fondo certamente, ma rideclinati entro preoccupazioni squisitamente politiche sia strettamente contingenti che di più ampia strategia. Il dibattito costituzionale non fu mai separato dalla contingenza politica. Non ci fu una “purezza istituzionale” come oggi qualcuno rivendicherebbe, se non in qualche “eroica figura” ma che non può essere identificata con la carta stessa. I miti servono, ovviamente, ma l’analisi storico/politica serve a identificarli.

Nei 70 anni della Repubblica si sono susseguiti 63 Governi, con 27 Presidenti del Consiglio dei Ministri. Il primo Presidente del Consiglio non democristiano (Spadolini) fu eletto nel 1981.
Dunque un originale combinazione di lunghissima permanenza di maggioranza politica e di permanente dissolvenza delle compagini governative.
Una legge elettorale radicalmente proporzionale, (a garanzia di rappresentanza universale?), la presenza di piccole formazioni politiche (sotto il 10%) che assumevano funzioni di “contorno” e esercitavano, nella loro consistenza minoritaria, un ruolo di interdizione e di condizionamento ben al di là della rilevanza sociale degli interessi rappresentati. Non c’è bisogno di ricordarlo: il meccanismo fu per decenni funzionale allo scopo di tenere lontano dal potere “l’altro polo” costruito attorno alla rappresentanza del Movimento Operaio.
Il tutto, ovviamente, all’ombra della “Costituzione più bella del mondo”, formalmente osservata.
Non è qui il caso di richiamare ben consistenti ragioni storico politiche nazionali ed internazionali (altro che “principi” della Carta!) che presiedevano a quella originale combinazione di costanza delle maggioranze e evanescenza dei governi per tener lontana ogni prospettiva di cambio di maggioranza. (Il “pericolo comunista”..)
Mi interessa piuttosto richiamare l’attenzione a un fatto: in quel contesto di “permanenza e evanescenza” politica chi e cosa garantivano “il funzionamento” degli apparati pubblici? La risposta (o una delle risposte fondamentali) è: la continuità degli apparati amministrativi/burocratici; delle elite cooptate e riprodotte in quegli apparati con il legame funzionale con le migliaia di subalterni del pubblico impiego; la continuità degli algoritmi del diritto amministrativo riprodotti entro la più varia produzione legislativa “ritradotta” in regolamenti, circolari, dispositivi organizzativi, competenze; il ruolo permanente occulto o esplicito di alcuni fondamentali centri di potere pubblico, dai TAR al Consiglio di Stato (e non parliamo della Ragioneria Generale).

D’altro canto, suggerisco un esercizio analitico (capisco faticoso) ma in grado di ricostruire comprensione adeguata di quanto sopra: si cerchi di rintracciare nella storia di quegli “apparati” dello Stato una traccia significativa della “linea di cesura” costituita dal passaggio alla “Costituzione più bella del mondo”; cosa e come è cambiato nella loro organizzazione, nelle regole di funzionamento, nei meccanismi di cooptazione e riproduzione dei quadri, per effetto della “rivoluzione costituzionale”…
Credo costituisca una ricerca infruttuosa, ma consente di ricostruire la strada che conduce il nostro Paese all’oggi ed alla difficoltà/incapacità generale di affrontare un’altra cesura storica, quella attuale, paragonabile a quella che fu attraversata alla metà del secolo scorso.
Fuori di paradosso: nel contenitore progressivamente affluente dello sviluppo “dell’età dell’oro” (Hobsbawn), solo in parte stimolato da politiche pubbliche esplicite (le dita di una mano basterebbero ad enumerarle...) si collocò il processo di continuità e riproduzione di apparati e strutture pubbliche, di amministrazione e di  regole stratificate, alimentato da una spesa pubblica affluente. Domanda provocatoria: cosa ha alimentato di più la costruzione della cittadinanza nazionale (la sua identità, la sua etica e responsabilità) la “Carta più bella del mondo” o la “gestione della spesa pubblica”? Forse nella risposta si può rintracciare la ragione di una “etica a profilo variabile” che caratterizza la cultura nazionale. Cittadinanza costruita sulla spesa e sul deficit pubblico.
Come accennato nel punto precedente quel “modello” socio-politico-economico è finito in modo conclamato agli inizi degli anni ’90. Ne sono sopravvissute le spoglie in progressivo fisiologico degrado che coinvolge gli istituti e i soggetti della rappresentanza (dai Partiti politici ai Sindacati); gli equilibri tra apparati e poteri (dai rapporti tra magistratura e politica, al funzionamento concreto del Parlamento); le stesse strutture portanti della Repubblica (si pensi al sistema delle autonomie, segnatamente quelle regionali, che da “scommessa” di istituzioni ravvicinate alla cittadinanza si sono, in intere aree del Paese, trasformate in meccanismi di diffusione dal centro alla periferia di corruzione e spreco, il cui rilievo finisce per occultare anche le realtà nelle quali quella scommessa iniziale ha prodotto risultati positivi).


Confessione
Vado esplorando argomenti come quelli sopra accennati, ed altri di ancora maggiore complessità cercando entro ciò che so e posso sapere/imparare, per ciò che è e per ciò che “deve essere”, una qualche elaborazione assennata del come affrontare la scadenza referendaria sulla Carta.
Ho sempre sottolineato come a differenza di altri Paesi, la nostra Costituzione non si apre con una invocatio dei. Ma l’istanza religiosa è così connaturata anche a tanti sedicenti laici, che spesso finiscono per deificare la Carta stessa invece di considerarla un prodotto storico, sia pure a lunga scadenza. Cerco dunque di porre sotto controllo un inevitabile “patriottismo costituzionale” e di rielaborare analisi e ragioni storico politiche di dimensione varia, dalla più contingente a quella di largo spettro strategico, che comunque hanno operato nel determinare il dettato stesso della Carta.
Non scandalizzandomi, dunque se analogo intreccio di ragioni strategiche e di contingenze politiche sia rintracciabile nelle proposte che sono sottoposte oggi al giudizio del “popolo”.
Sono semmai preoccupato dal netto prevalere, nel dibattito corrente, della problematica politica contingente anche quando mascherata da “ragioni generali”, o da “interessi di casta” che si esprimono come richiamo a “valori di principio”.
Ho naturalmente provveduto a confrontare nel dettaglio i testi degli articoli sottoposti a modifica. (
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00930268.pdf).
Confesso che ho dovuto far ricorso alla virtù della pazienza (ammesso che sia una virtù). A prescindere dal contenuto delle proposte, il linguaggio rigoroso, sintetico, significativo dei padri costituenti lascia il posto a involuzioni e complessificazioni linguistiche che non depongono certo a favore della “tecnica di produzione legislativa” dei nostri rappresentanti nei luoghi della legislazione.
Poi mi son detto anche di quanto pesino, sugli stessi esiti linguistici della produzione legislativa, certe dinamiche di interpretazione dei ruoli e delle prerogative dell’attività del legislatore.
Certo che se “l’artiglio dell’opposizione” si esercita non con la contrapposizione di ragioni ed ipotesi alternative, ma con la produzione di migliaia di emendamenti generati da algoritmi automatici, e se la responsabilità di chi sta in maggioranza si esprime negli avverbi, nelle congiunzioni nelle formulazioni opache per garantire consenso ed alleanze contingenti, oppure chi governa si ritrova a troncare il “confronto”(!?) tra gli “oratori” (!?) per “calare” il miglior principio della maggioranza (Ahi… Tucidide!) entro “voti di fiducia”, la qualità del prodotto finale è inevitabilmente compromessa… Un prodotto schiacciato entro un calco di cui maggioranza ed opposizione finiscono per costituire le due facce speculari…
Confesso che, a un certo punto mi son detto: “perché mai faticare tanto per comprendere… analizzare… ricostruire storia e storie, contingenze politiche e strategie, interessi generali e convenienze particolari … Votiamo no! E basta”…
Confesso di avere pensato anche: “comunque dopo il no! un assennato e esperto schieramento di competenze politiche al servizio del bene comune riprenderà nelle sue mani la questione inevitabile delle modifiche costituzionali, e vi provvederà al meglio…”.

Ma ero sopra pensiero e dunque ho chiesto dubitoso a me stesso non sapendo rispondere “scusa ma a chi ti riferisci..?”


([1]) Un “vecchio cane morto” sosteneva che le fasi di transizione storica sono proprio contrassegnate dalla contraddizione tra le rappresentazioni istituzionali formali e i processi di appropriazione reale. Vedi K.Marx in “Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie” (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica)

([2]) Suggerisco lettura Sabino Cassese “Chi governa il mondo” Il Mulino, Bologna, 2013. Ma anche, dello stesso autore, “L’Italia: una società senza Stato” il Mulino, Bologna, 2012.

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