Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica del dopo-Moratti


03.03.2008

Verso una rinnovata “scuola elementare”
di Maurizio Tiriticco

 

 

 Fatta l’Italia, occorreva fare gli Italiani!

Nel nostro Paese più di un secolo fa il primo gradino di istruzione venne chiamato elementare perché la sua funzione era quella di erogare i primi elementi delle conoscenze necessarie per accedere ad un contesto sociale che, dopo la conquistata Unità del 1861, sarebbe rapidamente cambiato.

In Europa nasceva un nuovo Stato nazionale che avrebbe dovuto competere con Paesi che già da tempo si erano affermati nel contesto internazionale. Occorreva superare ritardi storici gravissimi, sul terreno dello sviluppo economico e sociale, delle infrastrutture, della pubblica amministrazione. Per non dire della questione delle mille culture regionali e della necessità dell’unificazione linguistica. La destra e la sinistra storica che si succedettero nel governo del Paese non poterono, tuttavia, sottrarsi alle dinamiche imposte dalla egemonia di quella classe borghese che, dalla Rivoluzione francese in poi, aveva cominciato a svolgere il suo ruolo primario in quell’Europa occidentale che in quegli anni costituiva una sorta di ombelico dell’intero pianeta.

La nostra classe dirigente non poteva non misurarsi con quelle sfide che quella logica proponeva ed imponeva: occorreva procedere all’unificazione socioeconomica della neonata nazione, dotarla di un apparato industriale e dei servizi ad esso connessi, strade, ferrovie, organi di governo. Occorreva dar vita, ed in tempi brevi, ad una identità e ad una cultura nazionali – si trattava della vocazione storica della classe borghese, a livello europeo – e la mano di una istruzione capillarmente diffusa avrebbe garantito una simile operazione. Le culture regionali furono di fatto emarginate o tollerate come “culture popolari” e certe forme di resistenza più dure vennero perseguite come fenomeni di puro e semplice brigantaggio.

L’antistoria d’Italia di Fabio Cusin, pubblicata nell’immediato secondo dopoguerra, analizza con acume certi guasti provocati da una politica di unificazione nazionale forzata, e ciò molto meglio di quanto non faccia oggi certa spicciola propaganda leghista. Il fatto è che la storia non la fanno i popoli ma le classi egemoni. Vi è tutta una tradizione – non a caso poco nota – di lettura critica di tutto il nostro Risorgimento, che ha visto anche nomi illustri (da Prezzolini a Gobetti e allo stesso Gramsci), tradizione che con l’affermazione del fascismo, venne violentemente interrotta! Ed è una variabile della quale occorre tener conto anche quando ci si misura con quei fenomeni della cultura e dell’istruzione che costituiscono pur sempre fattori sovrastrutturali, rispetto a quelli strutturali dell’economia, il cui sviluppo rinvia sempre a quei gruppi sociali che in un dato periodo storico detengono il potere.

 

Una scuola per la socializzazione e la prima alfabetizzazione

La nostra scuola elementare nacque più di cento anni fa in quel contesto e con quella funzione: riuscire rapidamente a costruire l’unificazione di popoli e culture diverse all’insegna di una lingua comune dominante e di valori che riconducessero a quei concetti forti di Dio, Patria, Famiglia che costituirono il viatico civile e morale di tante giovani generazioni postrisorgimentali.

La scuola elementare doveva svolgere, appunto, questa primaria ed ineludibile funzione: permettere a ciascun suddito di acquisire gli elementi culturali fondamentali che gli consentissero di riconoscersi in quei valori che la raggiunta unità nazionale non poteva non pretendere. Ovviamente, accanto a quei valori, c’era anche la strumentalità del leggere, scrivere e far di conto, abilità che ovviamente non erano né di destra né di sinistra – come diremmo oggi – tant’è vero che la stessa diffusione delle idee socialiste fu dovuta in gran parte all’opera di tanti maestri elementari.

Pur con le contraddizioni indicate, la scuola elementare assolse degnamente al suo compito di prima alfabetizzazione degli italiani. Nasceva l’industria, nascevano i servizi, i ministeri, un esercito che più tardi si sarebbe misurato nelle prime imprese coloniali, poi nel primo conflitto mondiale. Leggere, scrivere e far di conto costituivano gli elementi essenziali per accedere ad un contesto sociale che di queste prime e semplici competenze non poteva assolutamente fare a meno. Poi, partendo da queste basi elementari e indispensabili, chi poteva proseguiva gli studi, ma fortemente differenziati. Quelli più impegnativi erano riservati alla conservazione ed allo sviluppo della classe dirigente nonché alla formazione di quelle professioni liberali, di cui la borghesia aveva assolutamente bisogno. Poi, a scalare, vennero istituiti di volta in volta i percorsi tecnici e quelli dell’addestramento professionale. E poi ancora… il nulla, lasciato ad una manovalanza e ad un contadiname analfabeti ancora largamente presenti in una società che con grande fatica si stava industrializzando.

Fu così che, nel corso dello sviluppo unitario, nel 1861 divennero obbligatori i primi due anni della scuola elementare; nel ’77 ne divennero obbligatori tre; poi ancora nel 1904 si giunse a quei cinque anni di obbligo che sono rimasti tali fino alla riforma del 1962!

L’obbligo ottonnale

L’innalzamento dell’obbligo da cinque ad otto anni ha avuto indubbiamente esiti positivi per lo sviluppo culturale della nostra popolazione, accompagnato e sostenuto dagli effetti del boom economico degli anni Cinquanta e dallo sviluppo dei mass media. Ma, con il trascorrere del tempo, l’effetto positivo dei primi anni, dovuto anche alla lezione correttiva di Don Milani, si è venuto man mano attenuando dando spazio a un duplice fenomeno, quello della dispersione e quello di un progressivo abbassamento delle competenze linguistiche. Le indagini Ocse-Pisa degli ultimi anni e quelle sulla competenza alfabetica della nostra popolazione, com’è noto, danno indicazioni molto sconfortanti. Il che significa che, oltre a certe sollecitazioni negative nei confronti della popolazione, indotte da un sociale frammentario, discontinuo e da una pseudocultura trash, vi è anche una responsabilità dei percorsi dell’istruzione nel loro insieme. Il fatto che l’indagine Iea-Pirls dimostri che i nostri bambini di nove anni abbiano competenze linguistiche più che soddisfacenti e che quella Ocse-Pisa dimostri che i nostri quindicenni occupino gli ultimi posti nella scala internazionale costituisce un dato allarmante: dalla scuola primaria alla media le competenze linguistiche invece di migliorare peggiorano! Ovviamente non può attribuirsi alla scuola media la responsabilità primaria di tale fenomeno, ma indubbiamente una corresponsabilità esiste.

A mio avviso, paghiamo, a distanza di anni, il fatto di non aver costruito, con l’innalzamento dell’obbligo a otto anni, quel percorso ottonnale verticale, articolato ed orientante che sarebbe stato opportuno avviare fin dal 1962. Si doveva innalzare l’assicella della “elementarità” degli studi iniziali, perché si erano innalzate le esigenze dell’assetto socioculturale del Paese. Ma non fu così: la scuola elementare e la scuola media (pur se unificata con la scuola di avviamento) mantennero ciascuna il loro assetto originario. Il fatto è che alla fine degli anni Cinquanta non c’era una cultura diffusa a proposito di processi di apprendimento: e ci era estraneo anche lo stesso concetto di curricolo. Il dibattito che accompagnò la nascita del nuovo obbligo di istruzione era tutto incentrato su “latino no, latino sì”, come se questo fosse il fattore discriminante capace di segnare nel bene o nel male la scuola che si andava a costruire. E non solo: lo stesso concetto di elementarità per certi versi spaventava la “corporazione” degli operatori della scuola media, i quali rivendicavano quel carattere di secondarietà che alla scuola media era stato conferito fin dalla istituzione del quinquennio ginnasiale postelementare.

Così i due gradi di scuola hanno operato ciascuno per proprio conto nonostante i tanti richiami alla continuità, la quale ovviamente era pur sempre una operazione di risulta di fronte al fatto che i due gradi di scuola restavano divisi sotto il profilo degli ordinamenti. Per anni è restato vigente un esame di licenza elementare che non serviva più a nulla. A prescindere dallo sfortunato tentativo di Berlinguer di fondere definitivamente i due gradi di scuola, alla fine l’esame di licenza elementare è stato cancellato dalla legislazione del Governo di centrodestra, la quale comunque non ha mai messo in discussione la tradizionale differenza tra i due gradi di istruzione.

Solo con le recenti Indicazioni per il curricolo finalmente si è giunti in porto: i due gradi di scuola, pur se tali rimangono, in quanto occorre una norma primaria per riordinarli – cosa che le Indicazioni non sono – sono individuati, definiti e descritti in una concreta prospettiva verticale unitaria.

Per un decennio obbligatorio verticale e progressivo

Ora, però, con l’innalzamento dell’obbligo da otto a dieci anni, quelle Indicazioni appaiono già insufficienti di fronte all’ulteriore passo che occorre fare, ed in tempi brevi per giunta! Un percorso di istruzione obbligatoria è pur sempre finalizzato a fare acquisire all’obbligato gli elementi essenziali del conoscere, del saper fare e del convivere civile, ovviamente rapportati al contesto socioculturale di riferimento.

L’Italia del Regno proponeva determinati elementi essenziali, conformi alle esigente della Unità nazionale. L’Italia della Repubblica ha proposto ulteriori elementi essenziali, ovviamente più elevati, imposti dalla conquista della democrazia e dall’evoluzione del contesto socioeconomico e produttivo. L’Italia dell’Unione europea ha esigenze diverse, più elevate, e gli elementi essenziali per inserirsi in un contesto socioeconomico e civile complesso qual è quello attuale sono ulteriormente cresciuti!

Si tratta di quelle competenze culturali e di quelle competenze chiave di cittadinanza che tutti i Paesi dell’Unione europea sono tenuti a proporre oggi ai loro cittadini. A monte di tale proposta c’è stata una lunga ricerca condotta presso gli organismi comunitari a ciò deputati, ricerca che si è conclusa con il varo di una serie di documenti datati 2006: il che significa che l’elaborazione di tali documenti non è stata né frettolosa né superficiale, anche perché ha impegnato i rappresentanti di tutti i Paesi membri.

Tra la vasta produzione dell’Unione in materia di istruzione e di formazione, due sono i documenti più importanti a cui tutti i Paesi membri debbono rifarsi: le due Risoluzioni del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 settembre e del 18 dicembre 2006. Con la prima si individuano otto comuni livelli di uscita dai diversi sistemi di istruzione e formazione: il primo riguarda l’uscita dall’obbligo di istruzione, l’ultimo l’uscita dalle alte specializzazioni universitarie. Con la seconda risoluzione si definiscono quelle competenze chiave che ciascun cittadino europeo deve possedere per esercitare i suoi diritti di cittadinanza nell’ambito del suo Paese e di tutti quelli dell’Unione.

E’ sulla scorta di queste due risoluzioni che si è proceduto ad innalzare di due anni la nostra istruzione obbligatoria. Gli elementi essenziali che ciascun cittadino italiano ed europeo deve possedere per essere cittadino a pieno titolo sono, quindi, quelli che ritroviamo nelle due citate risoluzioni e che ciascun Paese ha poi curvate alle sue particolari esigenze.

Se questo è lo scenario in cui stiamo operando, appare evidente che occorre lavorare per superare quel diaframma che ancora sussiste tra l’attuale nostra scuola media e gli attuali bienni. Siamo giunti ad innalzare l’obbligo pur all’interno di bienni assolutamente diversi tra loro, che obbediscono a programmi che tuttora riflettono esigenze di studio quinquennali, fortemente mirate e che nulla hanno a che fare con l’istruzione obbligatoria. Ma era un passo a cui non potevamo assolutamente sottrarci, non tanto perché ci chiamano le risoluzioni europee ma perché occorre garantire l’avvenire civile, culturale e professionale dei nostri giovani.

Il biennio che ha avuto inizio lo scorso settembre, com’è noto, ha carattere sperimentale, e siano di fronte ad un duplice lavoro: da parte delle scuole, impegnate nell’operazione “obbligo”; da parte del legislatore, impegnato ad un riordino complessivo dell’intera istruzione secondaria. A mio avviso, occorrerà privilegiare la terminalità di un obbligo più che una sua propedeuticità; od a contemperare convenientemente le due istanze. Ma a questo proposito il discorso è tutto aperto. La cosa più importante, e che tutti dobbiamo condividere, è che oggi la “scuola elementare” che si conclude con un rinnovato biennio di un Paese dell’Unione europea è tenuta a far sì che tutti i suoi cittadini conseguano quelle competenze di cultura e di cittadinanza che sono indicate dal livello uno della Risoluzione del 5 settembre e dalla Risoluzione del 18 dicembre. E sono questi gli obiettivi che l’intero nostro percorso decennale deve realizzare senza interruzioni di sorta, anche se con il pieno rispetto dei ritmi di crescita/sviluppo dei nostri obbligati!

E non è un caso che il livello dei traguardi proposti dalle Indicazioni per il curricolo al termine del primo ciclo non sono finalizzati al conseguimento di competenze date, ma allo sviluppo di quelle competenze di cui ai citati documenti europei.

Adoperiamoci per alzare l’assicella di una rinnovata scuola elementare!

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