Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica del dopo-Moratti

 

20.01.2007

Scuola dell'infanzia: un mondo che cambia
di Stefano Stefanel
 

Il presente articolo è stato parzialmente pubblicato su Scuola materna per l’educazione dell’infanzia del 10 dicembre 2006, Editrice La Scuola, Brescia con il titolo Un segmento che cambia.
La presente versione contiene anche il paragrafo originale "Gli Orientamenti del 1991 e i Pokemon".
La proprietà dell’articolo è dell’Editrice La Scuola.

 

Il segmento migliore.
Credo pochi in Italia nutrano dei dubbi sull’affidabilità e l’eccellenza della Scuola dell’infanzia. Continuare, però, a citare il caso di Reggio Emilia e la rilevazione svedese che lo ha portato alla ribalta mondiale penso sia fare un torto al sistema delle Scuole dell’infanzia italiane, visto che quella rilevazione risale ormai a molti anni fa e che a Reggio Emilia agiscono scuole non tutte di derivazione statale (ci sono anche le scuole dell’infanzia comunali e quelle confessionali). Inoltre a Reggio Emilia mi pare sia stato anche sperimentato il Pof comunale, una idea molto interessante che però non sembra aver avuto la forza di uscire dalla città. Se il sistema delle Scuole dell’infanzia di Reggio Emilia deve trovare posto nelle "buone pratiche" da seguire, non necessariamente deve essere inserito come cappello ad ogni discorso sulla scuola italiana.

Tutto il sistema nazionale statale delle Scuole dell’infanzia ha raggiunto livelli di eccellenza comprovabili. Personalmente non mi sento di estendere questo giudizio anche per le scuole paritarie confessionali, in quanto sia la preparazione delle maestre di quel segmento scolastico (tutte o quasi "precarie" del sistema statale), sia il problema del sostegno, sia il meccanismo di reclutamento delle maestre, sia il numero degli alunni per sezione, sia gli spazi utilizzati e non soggetti di fatto alle norme del d.lgs 626/94 (perché comunque le Asl non controllano mai le proprietà ecclesiastiche) lasciano molti dubbi sull’efficacia e l’efficienza del polo privato confessionale del sistema dell’istruzione italiana.

La Scuola dell’infanzia è una recente idea pienamente riuscita del sistema dell’istruzione italiano, anche perché, in questo modo, è riuscita pienamente la trasformazione di strutture deputate solo alla sorveglianza dei bambini, in scuole a tutti gli effetti e con tutte le caratteristiche formative necessarie. Questa trasformazione è stata compresa anche dall’opinione pubblica che nutre una sorta di considerazione generalizzata e positiva sul sistema dell’istruzione italiano dai tre ai sei anni. Anche le recenti polemiche sugli anticipi nella Scuola dell’infanzia, introdotti dalla legge 53/2003 e dal d.lgs 59/2004 e poi incagliatisi nelle astrusità delle circolari e delle contrattazioni sindacali italiane, si sono addentrate nei problemi della cura pedagogica e del rapporto tra alunni e insegnanti che nasce all’interno di uno sfondo integratore condiviso e non nell’ambito di un semplice contratto tra scuola e famiglia per una delega di assistenza. Se dunque le Scuole dell’infanzia italiane si sono rivelate all’altezza della difficile sfida nata da una società che fa meno bambini, che ha problemi nel farli socializzare senza pericoli, che ha visto ridursi il peso educativo dei nonni e degli zii, che non ha più le "vecchie zie zitelle" a cui delegare parte dell’assistenza familiare ai piccoli (e agli anziani), che ha visto aumentare il problema delle donne lavoratrici e dei padri attenti ai propri figli, ma anche ai mille problemi di lavoro e di tempo libero, ciò si deve alla riuscita simbiosi tra progettazione pedagogica e diffusa professionalità delle insegnanti.

Ritengo, comunque, che ribadire la propria stima e il proprio apprezzamento per il lavoro svolto dalle insegnanti della scuola dell’infanzia non contribuisca a mantenere il sistema scolastico su livelli di eccellenza se non è accompagnato da una segnalazione di quelle piccole crepe che stanno nascendo e che si possono eliminare con interventi di ampio respiro. La Scuola dell’infanzia italiana è l’unico segmneto scolastico che non vive nell’emergenza e che dunque potrebbe programmare interventi di modifica e di revisione di alcuni punti essenziali della sua impostazione con interventi formativi e organizzativi di spettro ampio e con tempi distesi.

Gli Orientamenti del 1991 e i Pokemon.
Gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia del 1991 hanno sancito il definitivo passaggio di quell’ordine di scuola dal settore della sorveglianza "animata" dei bambini in un sistema sociale a quello dell’insegnamento e dell’apprendimento in età pre-scolare. Dire che quegli Orientamenti sono stati uno dei momenti migliori della pedagogia italiana è dire una cosa corretta. Infatti la Indicazioni nazionali riguardanti la Scuola dell’infanzia si sono rivelate più come un verboso entrare nel lessico degli Orientamenti per cercare di difendere gli anticipi che come una reale ridefinizione del curricolo della Scuola dell’infanzia. Gli Orientamenti non hanno dentro di sé il limite del "buon tempo antico", quello che ha fatto diventare imbarazzanti se non addirittura "Italian Graffiti" il Nuovi Programmi della Scuola media del 1979 e i Programmi della Scuola Elementare del 1985. Gli Orientamenti sono esenti dal pericolo del "come eravamo" che ha caratterizzato molta parte della protesta dei docenti contro la Riforma Moratti. Proprio perché dentro una pedagogia estremamente motivante e legata alla novità dell’inserimento nell’ambito scolastico di un segmento di popolazione che ne era sempre rimasta fuoi (quella dai 3 ai 6 anni) gli Orientamenti non si sono limitati a descrivere le "magnifiche sorti e progressive" di un mondo che andava verso il bene, la democrazia, la pace e l’integrazione, ma sono riusciti a penetrare lo specifico di bambini che si trovano a vivere all’interno di una mutazione sociale di tipo strutturale.

Eppure anche gli Orientamenti sono figli degli Anni Ottanti e di una visione della società che ha le sue radici negli Anni Settanta e non in questo inizio di secolo. Che nella Scuola dell’infanzia qualcosa si stia lentamente rompendo può essere desunto da alcune marginali piccole crepe di sistema che sintetizzerei nel seguente elenco:

  • attese troppo alte dei genitori;

  • eccesso di ripetitività nelle metodologie didattiche;

  • distanza di età in aumento tra le maestre e i propri allievi;

  • legame molto stretto tra la cultura in formazione dei bambini e gli specifici comunicativi dei mass media;

  • scarsi prerequisiti alla convivenza dei bambini;

  • basso grado di attenzione ed alta disposizione alla disgregazione dei tempi da parte dei bambini.

  • Nel 1990 gran parte di queste situazioni non erano così evidenti e certamente non emergevano nei bambini fin dalla Scuola dell’infanzia. Credo che il primo vero punto di rottura tra alunni e maestre siano stati i Pokemon. L’arrivo sulla scena mediatica di giocattoli virtuali o reali, dotati di capacità di auto-mutazione genetica e di potenze da dispiegare legate alle qualità dei loro proprietari pare abbiano completamente spiazzato le insegnanti della Scuola dell’infanzia italiana. Da un lato c’erano bambini anche molto piccoli con competenze estremamente sviluppate nella gestione delle figurine e nella decodificazione dei linguaggi dei fumetti televisivi, dall’altro lato c’erano maestre che ne rifiutavano il linguaggio, partendo comunque dalla certezza che un fumetto giapponese non potesse contenere in sé elementi positivi per la crescita dei bambini. Credo che con i Pokemon per la prima volta le maestre della Scuola dell’infanzia e i loro alunni si siano trovati all’interno di sfondi integratori non più omogenei. Il messaggio che la Scuola dell’infanzia italiana nel suo complesso ha dato dei Pokemon è stato di totale chiusura, senza comprendere che l’idea che una "macchina" abbia struttura evolutiva propria e che questa evoluzione sia una parte del gioco entrava nell’immaginario europeo dalla porta principale, quella del rapporto evolutivo rapportato alla mente attirata dalla scienza dei bambini. L'idea poi che il più debole e meno evoluto dei giocattoli (Pikaciù) fosse comunque in grado di vincere dava la certezza che l’evoluzione e il darwinismo sociale non sono tutto.

    Il fenomeno dei Pokemon era stato preceduto da altri segnali sia orientali (Sailor Mon) che occidentali (i Gargoys) tutti ugualmente non compresi dalla scuola. Le maestre della Scuola dell’infanzia sono rimaste fortemente attaccate ai fumetti di Walt Disney (quelli della loro infanzia) non comprendendone il forte messaggio segregazionista e illiberale e hanno rigettato la merce giapponese senza rendersi conto che quella merce apriva su alcuni punti essenziali del nostro mondo che cambia: il rispetto per il diverso, l’attenzione per la tecnica, l’eliminaizone del rapporto tra l’oggettiva sgradevolezza del proprio "corpo" e la cattiveria. I Gargoys sono brutti, sembrano diavoli, hanno corna e ali da pipistrello ma sono buoni, certi Mostri dei Pokemon sono portatori di valori estremamente positivi, e "principi azzurri" da belli e buoni si sono trasformati in trafficanti, terroristi, massacratori.

    Se Walt Disney aveva dovuto sublimare l’omosessualità dei Sette nani facendoli innamorare di Biancaneve, lo stesso Walt Disney aveva poi dovuto compiere la crudeltà atroce di far scegliere a Biancaneve per il suo futuro non un nano, ma un Principe Azzurro, incurante di quello che i nani stavano provando per lei e incurante anche di quello che avrebbe potuto essere il Principe Azzurro (di cui non veniva detto nulla). Con i Pokemon tutto questo è scomparso. Se sostituire le fiabe classiche (che spesso nascondono crudeltà profonde sotto le patine del buonismo) o Bianca Neve o Piumini o Rodari con i fumetti giapponesi sarebbe stato un imperdonabile "giovanilismo" della Scuola dell’infanzia, aver cercato di far finta che un nuovo modo di percepire non fosse entrato nei bambini tramite i mass media ha contribuito ad allontanare percezioni corrette dall’universo progettuale della Scuola dell’infanzia.

    Buone pratiche e continuità didattica.
    Sintetizzo di seguito alcune considerazioni sui problemi che ho esposto poco sopra, funzionali al ragionamento che sto conducendo.

    Attese troppo alte dei genitori. Non servono grandi ricerche sociologiche per stabilire che ormai esiste in molti genitori una percezione totalmente irrealistica di ciò che il proprio figlio è e sta apprendendo. D’altronde ogni Scuola dell’infanzia non può scegliersi i genitori e deve convivere con le aspettative e le richieste di quelli che incontra sul suo cammino. Credo che la strada più sbagliata da intraprendere sia quella della "condivisione" e del "corso per genitori": la "condivisione" mette sullo stesso piano la progettualità di chi è un professionista con le pulsioni di genitori spesso non preparati e suggestionati da notizie apprese in forma confusa, i "corsi per genitori" sono una ripetizione teorica di buone intenzioni disseminate in forma generica di solito a favore di chi non ne ha alcun bisogno (i genitori veramente "in crisi" stanno a casa a guardare la televisione). La comunità docente deve matuare un proprio progetto e su quel progetto investire. Non può esserci commistione con chi ha idee di fatto razziste sulla scuola ("se ci sono troppi bambini che si comportano male mio figlio impara poco", "quel bambino alza le mani su mio figlio e quindi deve essere allontanato", "nella Scuola dell’infanzia del paese vicino hanno fatto nove cartelloni e i nostri bambini ne hanno fatti solo sei", ecc.) o idee impresentabili sulla didattica dai tre ai sei anni (inglese, informatica e impresa, per dire). Se i genitori sono quello che sono la scuola deve mostrarsi ferma e curricolare, avendo elaborato non le solite frasi che non tengono ad un’analisi serrata, ma strategie e proposte didattiche non negoziabili. I genitori potranno personalizzare per quello che gli viene concesso dalle norme e già personalizzano molto e spesso troppo sui tempi scuola, laddove le maestre devono porre mano ad educazioni fuori dal reale per cui il bambino a casa le ha sempre vinte e quelle che "perde" le deve perdere a scuola.

    Eccesso di ripetitività nelle metodologie didattiche. In molte scuole dell’infanzia gli anni si ripetono uguali, scanditi da attività che si assomigliano e tempi che si ripetono (Festa di Natale, Carnevale, Fine anno, Gita sempre allo stesso luogo, ecc.). Se un’attività è andata bene dal 1992 al 2002 non è detto che debba andare bene anche dal 2002 al 2012. La continuità didattica sta diventando una palla al piede delle Scuole dell’infanzia (e nel complesso di tutta la scuola italiana): porta a ripetitività, automatismi, scontatezza. Inoltre troppe maestre ormai ritengono che nella propria Scuola non sia trasformabile nulla perché finora ha tutto funzionato bene, anche se gli alunni negli ultimi tre o quattro anni non funzionano più benissimo e vanno alle Scuole primarie con sempre più problemi di attenzione e socializzazione.

    Distanza di età in aumento tra le maestre e i propri allievi. Le maestre della Scuola dell’infanzia stanno invecchiando e molto spesso la mancanza totale di turnover in nome della continuità didattica porta solo ad un aumento del divario di età tra mestre ed alunni. Ci sono alla base di questo invecchiamento solo elementi di tipo epocale e non didattico, come la riforma delle pensioni e del pubblico impiego e lo spostamento dell’età di entrata in ruolo. Non si tratta tanto di avere paura di una Scuola dell’infanzia in mano alle "nonne", quanto di coordinare gli abbinamenti e gli spostamenti per avere comunque un’età media non superabile in ogni plesso o in ogni equipe pedagogica. Questo meccanismo, che può essere solo tendenziale, vista la rigidità sindacale su tutto ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro, può trovare la sua semplice sistemazione nell’ambito degli Istituti comprensivid o dei Circoli didattici, senza toccare il tabù della mobilità docenti e quindi i suoi bizantini e arretrati meccanismi sindacali.

    Legame molto stretto tra la cultura in formazione dei bambini e gli specifici comunicativi dei mass media. La Scuola deve prendere atto che molte competenze i bambini le apprendono dai mass media e non dai genitori. Parlo proprio di competenze e non di conoscenze o abilità, perché poi le competenze reali sono le più difficili da modificare e da sostituire. Non pare più possibile sostenere che le competenze apprese nei primi anni di vita dai mass media non abbiano una valenza sociale e formativa e non pare piu sostenibile la tesi di una superiorita della scuola in riferimento allo sviluppo positivo di corretti valori sociali. La scuola si trova a vivere dentro la societa e a condividere con questa alcune mutazioni non eludibili: cercando di integrarsi nella societa la scuola deve tenere conto dell’evoluzione culturale che attraversa i mass media ed entra nello specifico intellettuale dei bambini.

    Scarsi prerequisiti alla convivenza. I bambini, soprattutto se figli unici, entrano nella Scuola dell’infanzia con scarsi prerequisiti alla convivenza. Sono spesso pericolosi, distratti, aggressivi, non autosufficienti, incuranti del bene degli altri, poco attenti alle proprie cose. Costruire una didattica in questa situazioni è molto complesso, ma non lo si può fare richiamando la famiglia alle sue reponsabilità. Non è solo la Riforma Moratti a porre la famiglie in una zona di autonoma licenza alla diseducazione, ma tutta la società italiana che sta reinterpretando di fatto la Costituzione ed assegnando alla famiglia compiti diversi da quelli di un tempo. Oggi la famiglia è sovrana su molto (non su tutto: ad esempio non è sovrana sull’incolumità e la sicurezza dei propri figli) e di questo la scuola deve tenere conto. La scuola deve educare alla convivenza sociale indipendentemente dalla famiglia e non deve cercare di educare anche la famiglia, perche non è tra i suoi compiti elettivi. Questo meccanismo viene allo scoperto allorché le docenti lamentano con i genitori i comportamenti dei loro figli e le difficolta del lavoro e i genitori non rispondono con autocritiche o richieste di aiuto, ma indicando psicologi da far intervenire a scuola o strategie che i docenti devono adottare.

    Basso grado di attenzione ed alta disposizione alla disgregazione dei tempi da parte dei bambini. Alla base di ogni attenzione deve esserci una motivazione. Questo vuol dire che alcune pratiche del passato non possono più creare motivazione e dunque vanno aggiornate. Per questo ho portato l’attenzione sulla continuità didattica che per sua natura porta alla ripetizione e sull’eta delle docenti che puo condizionare la sperimentazione di eventuali novita introdotte non sempre per virtuosità pedagogica, ma anche per necessità educativa.

    Mantenere l’eccellenza. La differenza sostanziale tra la Scuola dell’infanzia e gli altri segmenti scolastici italiani sta nella possibilità della Scuola dell’infanzia di mantenere una situazione d’eccellenza, cosa che gli altri ordini di scuola per ora non sono in grado di fare. La crisi strutturale della Scuola secondaria di II grado e il sommovimento che sta vivendo la scuola dell’obbligo non toccano la Scuola dell’infanzia, che tra entusiasmo delle docenti, disponibilità delle famiglie e buone pratiche diffuse sta in una fascia molto alta nella struttura educativa nazionale.

    Ritenere, però, che tutto vada perfettamente e che non ci siano segnali che indicano la necessità di un mutamento anche profondo nell’organizazione di alcuni passaggi didattico-educativi, significherebbe perdere colpevolmente un’occasione per un rinnovamento virtuoso. Si tratta di vedere con un certo anticipo anche la degenerazione dell’infanzia in una situazione di difficile socializzazione. Anche perché alcune difficoltà dei bambini non nascono solo da problemi di tipo familiare (incapacita dei genitori ad educare) o sociale (figli unici viziati e non abitauti a sentirsi dire di no), ma hanno dei risvolti semplicemente psicologici o biologici che assumono una particolare valenza nell’attuale sistema sociale e che un tempo avevano un peso minore. Ho evidenziato alcune problematiche e tutte tendono a ruotare attorno ad un concetto da ripensare: quello di continuità didattica, ritenuta una delle maggiori qualità della scuola italiana e che si sta rivelando la sua palla al piede peggiore.

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