Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica del dopo-Moratti


28.10.2007

L’apprendimento lungo  “un” arco della vita
 
di Stefano Stefanel
(Dirigente scolastico - Scuola secondaria di 1° grado “Manzoni & Fermi” di Udine)
con una precisazione di Domenico Sugamiele

Le Indicazioni per il curricolo intervengono per la seconda volta in tre anni sul medesimo “arco della vita”, quello che va dai 3 ai 14 anni. Sono un documento di straordinaria profondità, come del resto lo era anche il precedente, denominato Indicazioni nazionali. Anche questo come il precedente è troppo avanti rispetto all’attuale situazione della scuola italiana[1], ma riesce ad entrare nei passaggi più problematici evidenziati dall’Unione Europea e dai risultati del progetto PISA dell’Ocse. E’, pertanto, un dato molto secondario che la scuola italiana non sia pronta, perché o il sistema scolastico italiano esce dal Protocollo di Lisbona e dalle rilevazioni Ocse-Pisa o si assume le sue responsabilità, qualunque sia la situazione in cui si trova a doverle affrontare. In questo intervento vorrei evidenziare alcuni punti fondamentali nel momento in cui si apre la discussione sul testo presentato dal Ministero a inizio d’anno scolastico[2].

 L’Università e i curricoli. Il dato da cui partire è di tipo estetico: le due commissioni incaricate dell’elaborazione delle Indicazioni sono state presiedute da due professori universitari. La diversità di visione di Giuseppe Bertagna e Mario Ceruti non è in discussione, ma la loro derivazione non scolastica ma universitaria li pone sullo stesso piano concettuale. Nel gruppo di lavoro “morattiano” c’era poi Silvano Tagliagambe, in quello “fioroniano” Anna Maria Ajello e queste due personalità di certo non sono assimilabili ad altre di buon valore pedagogico, ma senza visioni pubbliche conosciute di sistema. Bertagna e Tagliagambe da un lato, Ceruti ed Ajello dall’altro costituiscono l’asse portante della proposta curricolare del Ministero degli ultimi anni  e gli esperti provenienti dal mondo della scuola comunque hanno accettato un’impostazione del lavoro di chiara matrice universitaria, con una spinta verso l’offerta piuttosto che verso la prescrizione. Pare essere chiaro al Ministro di turno che senza l’Università non si produce cultura e senza cultura non si danno Indicazioni. E’ questo un semplice dato di fatto o un vero e proprio dato di partenza? Uno dei nodi della progettazione curricolare sta proprio qui, se cioè le scuole devono fare tutto da sole facendosi coordinare dagli Uffici scolastici o se invece il processo di redazione dei curricoli d’istituto debba poggiare sull’Università[3]. Esiste una progettazione pedagogica che certamente l’Università non può realizzare, ma l’intreccio tra conoscenze, competenze, abilità, standard da raggiungere e traguardi finali sono più proprie di un’epistemologia che di una pratica.

 I livelli essenziali delle prestazioni. Una delle maggiori critiche fatte alle Indicazioni di Bertagna era la frase contenuta nel frontespizio: “Le Indicazioni esplicitano i livelli essenziali di prestazione a cui tutte le scuole del Sistema Nazionale i Istruzione sono tenute per garantire il diritto personale, sociale e civile all’istruzione e alla formazione di qualità”[4]. Le Indicazioni di Ceruti non specificano però se quelli indicati come “traguardi” e “obiettivi” sono da intendersi come livelli essenziali di prestazione delle scuole o come standard di prestazione degli alunni. La questione è molto delicata e la riassumerei così:

        Personalmente propendo per l’impostazione morattiana, ma ritengo che in ogni caso questo vada esplicitato quanto prima per evitare la redazione da parte delle scuole di curricoli così vasti e irraggiungibili da produrre per il solo fatto di essere stati redatti una maggiore e non una minore possibilità di dispersione.

 L’algoritmo e l’argomentazione. Il passaggio cruciale di tutto l’impianto io l’ho rinvenuto in quella che è la vera contaminazione culturale che può far uscire la scuola italiana dal suo immobilismo e dalla sua inefficacia. L’impostazione data al rapporto tra pensiero e prodotto appare nella sua chiarezza progettuale se si isolano alcune brevi frasi che costruiscono la base sistematica attraverso cui si indica la strada per eliminare la didattica trasmissiva e indurre reali  apprendimenti nel percorso scolastico.

 1. Italiano.

2. Matematica

Da quanto sopra citato emerge una proposta didattica che poggia sull’algoritmo e sull’argomentazione, cioè su quel sistema di riferimento che trova le sue radici nel pensiero moderno e che precede lo storicismo e l’idealismo. Se un alunno impara a leggere per passione e interesse e deve descrivere procedimenti e problemi ecco che allora la sistematica curricolare va a poggiare sui due cardini del pensiero algoritmico e su quello argomentativo. Non più dunque una didattica seriale e standardizzata, ma una serie di occasioni entro cui collocare i saperi. Se la lingua deve essere attenzione di tutti i docenti e l’argomentazione e il dibattito debbono poggiare sul curricolo di matematica, ecco che allora le conoscenze e le competenze sono lo sfondo per una didattica non trasmissiva, ma fortemente motivante. E’ quello che ci chiede l’Europa da una parte sul fronte dei risultati e il Mondo dall’altra sul fronte della globalizzazione: saper rispondere agli stimoli del nostro tempo non con formule e stereotipi, ma con competenze costruite sulla meraviglia e la ricerca.

La valutazione degli alunni. Il vero “passaggio a Nord Ovest” di tutto questo rimane la valutazione degli alunni. Il rimpianto per la sterile scheda di valutazione nazionale è duro a morire, quasi che con quella scheda si garantisca l’unità nazionale. Si vada a leggere molta letteratura sulla valutazione di questi ultimi anni e si troverà il dileggio per le “schede fai da te” da un lato e l’incensamento delle “buone pratiche” dall’altro, quasi che le buone pratiche poi non vengano valutate attraverso schede[5]. Quando si vuole enfatizzare l’autonomia la si erge a paladina della ricerca, quando la si vuole deridere si parla di “fai da te”. Dietro questo modo di esprimersi ci stanno “i signori dell’autonomia”, cioè quei centralisti che insegnano alle scuole cos’è l’autonomia e che ispirano le involute circolari con cui il Ministero cerca di eliminare parti dell’autonomia scolastica.

Ritengo che una scheda di valutazione nazionale che decida cosa far valutare alle scuole farebbe la gioia di tutti quegli insegnanti che si aspettavano i Programmi e non le Indicazioni e che sono molti e che sono alla base dell’attuale posizione della scuola italiana nella scala di valutazione Ocse-Pisa. Qui si sta giocando una partita complessa, che cerca di affrontare con spade e lance (voti, giudizi, esami di stato, schede di valutazione) una battaglia che si gioca sul sapere (competenze reali/competenze spendibili).

Prendiamo, come semplice esempio, i “traguardi” di storia alla fine della Scuola secondaria di 1° grado contenuti nelle Indicazioni per il curricolo e proviamo a vedere se è così difficile valutarli. I traguardi sono nove, cinque relativi a conoscenze, quattro relativi a competenze. Proviamo a vedere quali sono e se sono impossibili da certificare prima che da valutare.

1. CONOSCENZE

A1) Momenti fondamentali della storia italiana medioevale

La valutazione di queste voci può essere realizzata con i soliti indicatori o usando una più propria scala da 1 a 100 che certifica il livello culturale raggiunto negli snodi essenziali.

 

A2) Momenti fondamentali della storia italiana risorgimentale

A3) Momenti fondamentali della storia italiana: la formazione della Repubblica

B1) Processi fondamentali della storia europea medioevale

B2) Processi fondamentali della storia europea moderna

B3) Processi fondamentali della storia europea contemporanea

C) Processi fondamentali della storia mondiale

D) Storia del proprio ambiente

E) Patrimonio culturale italiano e dell’umanità

2. COMPETENZE

A) Curiosità per la conoscenza del passato

La valutazione di queste voci può essere realizzata utilizzando i vecchi indicatori o individuandone di altri

B) Personalizzazione del metodo di studio

C) Capacità espositiva

D) Capacità di orientarsi nel presente

Le Indicazioni per il curricolo stanno indicando una didattica con forti connotazioni modulari e dunque una possibile certificazione sia in termini di processo, sia in termini di prodotto, sia in forma combinata. Pare ovvio che nel caso delle conoscenze sopra riportate è meglio una valutazione in termini di prodotto, magari con una forma di esame al termine del modulo o, come nel caso della storia del proprio ambiente o della conoscenza del patrimonio dell’umanità attraverso una serie di step monitoranti e pluridisciplinari (arte, scienze, tecnologia, ecc.), mentre nel caso delle competenze è necessario una valutazione processuale di fine ciclo.
Se non si va in questa direzione ci si deve rassegnare all’ennesimo documento di valutazione privo di senso e privo di valore, che non sia quello legale[6]. La tendenza ridondante della scuola italiana va ad infrangersi sullo scoglio della valutazione degli alunni, perché non si vuole chiarire a loro e alle famiglie che il voto o il giudizio non servono più a nulla e che bisogna certificare cosa si è appreso e quale livello di apprendimento è insito dentro le competenze di ognuno di noi.

Un facilitatore per il cambiamento. Queste Indicazioni indirizzano verso un cambiamento non più rinviabile. Un cambiamento di sistema e probabilmente anche di ordinamento, con il superamento di alcun vere e proprie tragedie della pedagogia nazionale quali le classi concorso, gli organici funzionali gestiti come organici rigidi, le compresenze spese per appesantire la didattica, l’insegnamento vissuto come variabile indipendente rispetto all’apprendimento, ecc. Sono tutte questioni[7] che le emergenze del futuro costringeranno ad affrontare in forma caotica e convulsa quando ormai ci si renderà conto che è  il sistema che non regge. Ma oggi abbiamo bisogno di lavorare e ragionare attorno a questo splendido documento che sono le Indicazioni per il curricolo. La domanda che ci si deve porre è questa: come pensa il Ministero di veicolare il cambiamento senza concentrasi sulla formazione di veri e propri facilitatori professionisti del cambiamento? Il cambiamento piace solo al bambino bagnato (dalla sua pipì)[8], mentre tutti gli altri al cambiamento si ribellano o cercano di minimizzarlo. Se tutte le grandi aziende multinazionali stanno formando i “change manager”, perché il Ministero della Pubblica Istruzione, che è il datore di lavoro mondiale con più dipendenti dopo il Pentagono, pretende di cambiare senza avere professionisti del cambiamento. Le indagini di Assochange, un’agenzia di rating specializzata, dicono che l’80% dei cambiamenti organizzativi falliscono nei loro intenti se non sono veicolati da “change manager”, cioè da persone che sanno spiegare, rassicurare, insegnare, rispondere, capire, accompagnare[9].        Il cambiamento avviene attraverso la “Legge dei 7 stadi[10]”:

  1. Congelamento: chi apprende che si vuole cambiare rimane esterefatto.
  2. Negazione: “tanto me non mi toccano”.
  3. Contrattazione: si cerca una moneta di scambio.
  4. Arrabbiatura: se il cambiamento è consistente cominciano le agitazioni (scioperi, calo dell’impegno, piccolo sabotaggio, disillusione, ecc.).
  5. Depressione: “la partita è persa”, vedi Portfolio.
  6. Testing: piccola apertura per vedere cosa succede.
  7. Commitment: “ormai che sono dentro devo darmi da fare”.

 Il problema è che mentre tutto questo avviene il lavoro continua e l’impegno viene distratto da mille cose tutte collegate al cambiamento o da mille cose non collegate al cambiamento, ma al mantenimento del vecchio. Su questi fattori deve lavorare il “change manager”, perché se ci lavorano i dilettanti allora tutto si complica nelle perdite di tempo e di motivazione. Non mi è chiaro se il Ministero pensa che i “change manager” siamo noi dirigenti o siano gli ispettori o i sindacati o qualche esperto che con alcune slide ben organizzate deve convincere gli insegnanti ad evolvere dai primi cinque punti verso il sei e il sette. Non credo sia possibile affrontare la sfida lanciata da queste Indicazioni per il curricolo con l’armamentario del dilettante che ha caratterizzato le precedenti Indicazioni. Se nel Ministero c’erano comunque le quinte colonne contro il cambiamento voluto dalla Moratti ora ce ne dovrebbero essere molto poche e dunque il cambiamento ci può essere, ma  solo se ci sarà la professionalità e la competenza necessaria a facilitarlo[11].

Come progettare. La progettazione dei curricoli richiesta da Luigi Berlinguer attraverso il Regolamento per l’autonomia (DPR 275/99) è fallita, quella sui Piani di studio personalizzati è abortita bel presto tra boicottaggi reali e attesa delle elezioni. Se dovesse fallire anche quest’ultima progettazione curricolare credo che ci troveremmo proiettati nel decennio post Lisbona in uno scenario da Terzo mondo. La progettazione del curricolo non può cercare di stipare vent’anni di programmazioni dentro un contenitore nuovo, ma deve avvalersi delle opportunità offerte dal pensiero intermittente[12] e dal pensiero laterale[13], cioè da un modo di rapportarsi all’innovazione come un granchio o come un fulmine. Si tratta di cogliere le tracce e di seguirle, di inserire nel curricolo gli spazi dell’innovazione e dell’attualità, di convincere gli alunni sulla bontà della proposta, di spingersi verso l’avventura del sapere e della globalità. Finito il sapere universale condensato da Gentile nei programmi ministeriali, ora è necessario far perno sulle Indicazioni per progettare il curricolo, senza voler raggiungere l’universalità da un’altra parte.

Per far questo bisogna avere il coraggio di abbandonare da oggi la programmazione (di docente, di team, di classe, di plesso) per imparare a progettare, magari compiendo errori, cadendo in semplificazioni, cimentandosi per tentativi ed errori. Se nell’anno in cui si deve iniziare a sperimentare le Indicazioni per redigere un curricolo ci si perde nei riti programmatori (di che cosa poi?) si cerca di rispondere in modo verticale, seriale e logico ad una sfida che è innovativa, laterale, intermittente. Le scuole non sono in grado di fare tutto e contemporaneamente: è importante che le scelte e la documentazione di queste scelte siano leggibili e confrontabili. Le scuole devono fare ricerca azione e confrontarla a vicenda, non ascoltare conferenze e scrivere riassunti corposi. La progettazione deve ridiventare quello che è sempre stata: trarre da idee confuse una chiara linea d’azione. Bisogna fermare la programmazione prima che questa travolga qualsiasi curricolo e qualsiasi innovazione.

 


[1] Giancarlo Cerini in Fonti e riferimenti per le nuove Indicazioni (www.edscuola.it, 14 ottobre 2007) ha scritto che questo Ministro “non impone un testo definitivo di curricoli ad una scuola disinformata e ostile (come era avvenuto nel 2004)”, anche se le Indicazioni nazionali erano un pesto comunque provvisorio
[2] Interessante è il lavoro pubblicato a “Notizie della scuola”, n° 2/3 del 16 settembre – 1 ottobre dal titolo Le indicazioni per il curricolo. La parola alla scuola, anche se lo spessore della Indicazioni è molto più accentuato dei commenti che sono spesso un agiografico riassunto di parte delle Indicazioni medesime o addirittura una sorta di  “offerta di consulenza” per  i futuri atti ministeriali. Sui meccanismi progettuali posso consigliare anche il mio lavoro Il dirigente scolastico nella scuola dell’autonomia, Spaggiari, Parma 2007.
[3] Una prima risposta l’ha data il 22 ottobre 2007 l’Università di Udine con l’incontro organizzato dalla Commissione di Raccordo Università Scuola dal titolo Dalle nuove Indicazioni al curricolo d’istituto. Scuola e Università: sinergia per una nuova didattica. Nell’incontro aperto alle scuole del Friuli Venezia Giulia sono intervenuti Furio Honsell, Marisa Michelini, Lorenzo Santi e Fabio Zanolin dell’Università di Udine, Luigi Torchio dell’Ufficio scolastico regionale del Friuli Venezia Giulia e i due presidenti della Crus Bruno Seravalli e Stefano Stefanel. Soprattutto il Rettore Honsell ha posto l’accento sulla necessità di collocare la prospettiva curricolare dentro la realtà materiale e virtuale dei nostri giorni.
[4] Proprio in quanto livelli essenziali di prestazione
[5] Si veda l’interessante ed esaustivo lavoro di Maurizio Tiriticco, Dalla pagella alla scheda, in “Notizie della scuola”, n° 9 dell’1/15 gennaio 2005
[6]  Al giorno d’oggi il valore legale della licenza media esiste solo per hi non ce l’ha e non può prendere la patente. La licenza media è un semplice passaggio di cittadinanza, non un vero titolo di studio.
[7] Se ne potrebbero indicare molte altre quali ad esempio la poca flessibilità dei docenti e il sistema delle supplenze, i mansionari del personale ata a fronte di utenti che chiedono servizi a misura di territorio, la poca formazione dei docenti e l’assenza di controlli sull’apprendimento degli alunni e sull’operato dei dirigenti. Servirebbero un paio di volumi solo per terminare l’elenco.
[8] Nobody likes ch’ange, except a wet baby: Nessuno ama il cambiamento tranne un bambino bagnato.
[9] Già sarebbe molto, change manager a parte, avere le ore per far lavorare i docenti e non dover stare a fare i conti della serva con le 40 ore!
[10] Ezio Riboni, Aziende si cambia. Ma con un regista, sul Corriere della sera del 21 settembre 2007. Si veda anche lo straordinario libro di Chan Kim W. E Mauborgne Renée, Strategia oceano blu, Etas, Milano 2005 che chiarisce bene che ogni innovazione necessita di luoghi diversi da quelli abitualmente calcati.
[11] L’OCSE (OCSE, Quali scuole per il futuro?, 2001) ha già da tempo preannunciato la morte della scuola pubblica se questa cercherà di mantenere lo status quo e non promuoverà il proprio rilancio attraverso l’innovazione.
[12] Saul Kripke, Naming and Necessity, Oxford, Basil Blackwell, 1980 (tr.it. Nome e necessità, Torino, Bollati Boringhieri, 1999) e Wittgenstein on Rules and Private Language, Oxford, Basil Blackwell, 1982 (tr.it. Wittgenstein su regole e linguaggio privato, Torino, Bollati Boringhieri, 2000)
[13] Edward De Bono, Sei cappelli per pensare. Manuale pratico per ragionare con creatività ed efficacia, tr. it., Rizzoli, Milano 2001

 


In data 30 ottobre abbiamo ricevuto questa precisazione sull'intervento di Stefano Stefanel

Al direttore,

Mi permetto di fare una precisazione sull’articolo «L’apprendimento lungo  “un” arco della vita  di Stefano Stefanel».L’autore attribuisce la “paternità” delle Indicazioni del Primo Ciclo e, presumo, anche quelle del Secondo ciclo al duo Giuseppe Bertagna e Silvano Tagliagambe.
L’amicizia che mi lega ad entrambi e l’onore che ho, dal 2002 ad oggi, di lavorare con Tagliagambe in molte ricerche mi consente di fare una precisazione: Tagliagambe non ha mai partecipato alla stesura delle Indicazioni.
Egli faceva parte della Commissione che ha predisposto i materiali per gli Stati generali del dicembre 2001 e, in particolare, ha redatto il documento di sintesi (Partecipazione che, probabilmente, ha portato al fraintendimento l’autore). Un documento di alto livello che, purtroppo per il nostro Paese, non ha niente in comune né con la legislazione “morattiana” né, tanto meno, con quella “fioroniana” né, infine con le Indicazioni di ieri e di oggi.
La Commissione era composta, per la precisione, da G. Bertagna, N.Bottani, M. Colasanto, G. Chiosso, G. Montuschi, S. Tagliagambe e in funzione di segreteria dal sottoscritto e da R. Drago. Dall’indomani degli Stati generali Tagliagambe non ha partecipato a nessuna Commissione o gruppo di lavoro ministeriale. Negli anni successivi ha scritto molti articoli e saggi nei quali criticava il modello delle Indicazioni.

Domenico Sugamiele

... ed una breve replica di Stefano Stefanel

Rileggendo il mio articolo e la nota di Sugamiele non posso che confermare quello che ho scritto.
Non ho mai scritto che Tagliagambe ha scritto le Indicazioni nazionali, ma solo che ha lavorato e influenzato il "Gruppo di lavoro Bertagna".
Le Indicazioni Nazionali e "Più colta e meno Gentile" sono due documenti di analoga matrice

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