Direzione didattica di Pavone Canavese

Il dibattito (sulla scuola, ma non solo...) - a cura di Ennio De Marzo

(15.04.2009)

Terra d'Abruzzo


Quando emigrai a Milano, a sette anni, la cosa che mi colpì di più di questa città è che in pochi conoscevano il mio Abruzzo e ancor meno Pescara, la mia città natale. A scuola i miei compagni parlavano generalmente di “Abruzzi”, comprendendo cioè anche il Molise. L'unico che mostrava una certa sicurezza era il mio vicino di banco: “dovunque sia, sempre teronia è!”.
A quei tempi quel termine mi diceva poco o niente: il quartiere in cui abitavo era a stragrande maggioranza “terrone”. Lo capii meglio con le battute di Diego Abatantuono e, successivamente, quando andai al liceo, lontano dal mio quartiere. E tuttavia anche lì la conoscenza dell'Abruzzo e della mia Pescara era a dir poco approssimativa: “dunque … sì: si trova nelle Marche!”; “Pescara, certo vicino all'aeroporto di Milano” (trattasi in realtà di Peschiera Borromeo), “ma no, è vicino Verona” (trattasi in realtà di Peschiera del Garda). Persino alla discussione della tesi di laurea un professore, dopo avermi chiesto dove fossi nato, esclamò: “Pescara, sì provincia di Pesaro!”.

In effetti, gli Abruzzesi non sono molti in Italia. Tolti coloro che vivono entro i suoi confini (pochi a dire il vero), si tratta di numeri trascurabili, soprattutto se paragonati a quelli di altri “terroni”, come i campani, i calabresi, i pugliesi, i siciliani o i sardi. Ed è forse anche per questo motivo che non sono mai stati fatti oggetto di esplicito razzismo. Insomma, l'abruzzese fuori dai suoi confini e dentro quelli nazionali è un po' come un “extracomunitario” che ha la “fortuna” di essere nato in un paese poco noto al grande pubblico, come per esempio il Burkina Faso, Taiwan o il Suriname.
Certo, se non hai il tempo di chiarire le tue origini finisce male, poiché la lingua, gli atteggiamenti e in certi casi anche il colore della pelle parlano da soli. E tuttavia va sicuramente molto peggio ai rumeni o agli albanesi come anni fa ai pugliesi o ai siciliani. Ma fuori dai confini nazionali le cose cambiano. In Germania, Belgio, Francia, per non parlare di Usa, Canada ed Australia, gli emigranti abruzzesi sono in numero considerevole. Non c'è quindi da stupirsi che proprio dall'estero giungano nel nostro paese, forse per la prima volta nell'era contemporanea, cioè quella dei mass media, notizie di un popolo che sembra avere un particolare rapporto con la tragedia e con la sofferenza. L'otto agosto 1956 un incidente in una miniera di carbone a Marcinelle, in Belgio, provoca la morte di 262 lavoratori, 61 dei quali abruzzesi. È vero che un'altra tragedia, di proporzioni gigantesche, si era abbattuta sull'Abruzzo quaranta anni prima, esattamente il 13 gennaio 1915, quando un violento terremoto uccide 30.000 persone nella Marsica, ma si era ad un passo dalla guerra e la notizia finì presto per occupare spazi sempre più marginali nei quotidiani nazionali, nei quali si consumava la diatriba tra interventisti e neutralisti.

Oggi l'Abruzzo è di nuovo sotto i riflettori e sempre per un evento drammatico. Tutto il Paese si è stretto attorno ad una regione colpita a morte da un altro sanguinoso terremoto. E nessuno, fortunatamente, ha parlato di “teronia” o di “teroni”. Eppure non sono passati molti anni da quando un partito politico, oggi al governo, raccoglieva le firme affinché venissero assegnate le case popolari solo ai settentrionali. Un giorno ebbi modo di parlare con un attivista di questo “movimento” e gli chiesi dove collocasse il confine tra il Nord e il Sud: “Al fiume Po. Sotto, sono tutti teroni!”. Qualche anno dopo il movimento, allora guidato da un intellettuale, il professor Gianfranco Miglio, ampliò ulteriormente i confini del Nord, fino a comprendere  anche Marche, Umbria e Toscana, ma non l'Abruzzo, che, dunque, continuava ad essere “teronia”.

Sembra passato un secolo da allora: oggi, infatti, ministri, primi ministri, esponenti dell'opposizione, delegati dello Stato vaticano e tanti cittadini comuni, del Nord e del Sud, si stringono attorno ad una regione colpita ancora una volta molto duramente, scoprendone finalmente l'ubicazione, le bellezze nonché la dignità dei suoi abitanti. Ma quanto durerà? Se si guarda ai precedenti della Marsica o di Marcinelle, non molto. Ma erano anche altri tempi. La paura, anzi il terrore che pervade me e molti miei corregionali, tuttavia, non è tanto che l'Abruzzo finirà presto nel dimenticatoio – una legge della storia per casi simili – quanto che il suo nome si leghi a figure che, quelle sicuramente, continueranno a lungo a rimanere sotto i riflettori, come gli abruzzesi Bruno Vespa, Franco Marini, Giacinto Pannella detto Marco, Maria Luisa Ciccone detta Madonna, Trulli, Grosso e tanti altri. E allora approfitto per citare, assolutamente a caso, nomi più o meno illustri della regione che mi ha dato i natali, come il giudice pescarese Emilio Alessandrini, il primo a indirizzare le indagini sulla strage di Piazza Fontana verso ambienti neofascisti e pezzi dello Stato, o come Francesco Sabatini, nativo di Pescocostanzo, Presidente dell'Accademia della Crusca, o come la Brigata Maiella, una delle poche formazioni partigiane ad avere combattuto il nazifascismo nel Sud Italia (tra i suoi componenti anche un giovanissimo Carlo Azeglio Ciampi), decorata con la Medaglia d'Oro al Valor Militare, o come Croce di Tola detto Crocitto, l'imprendibile brigante che per anni diede filo da torcere all'esercito Sabaudo. Chiudo però con Ennio Flaiano, di cui i più forse ricordano una affermazione tanto banale quanto assolutamente attuale, “gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore”, meno quella che segue, un monito per tutti, dentro e fuori i confini dell'Abruzzo: “La stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé” (Corriere della Sera, 1969)

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