Direzione didattica di Pavone Canavese

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integrazione

 

Secondo alcuni pedagogisti (cfr. Felice Rizzi) per integrazione è intendersi "la compresenza, la mutua accettazione, il reciproco cambiamento, è la cooperazione delle diversità".

Ciò non è del tutto convincente: l’integrazione (culturale), se ben analizzata, si avvicina molto alla logica assimilativa e non può essere assunta in sede educativa come finalità.

Ad un primo esame "integrare" implica infatti una reductio ad unum, una funzionalizzazione, seppure non eliminazione, delle alterità ad un unico progetto alla cui elaborazione non hanno partecipato le alterità che ad esso si devono "integrare".

Integrazione è concetto prevalentemente sociologico e per comprenderne le diverse sfaccettature è alla sociologia che occorre riandare.

Giancarlo Milanesi

Il funzionalismo

R.K. Merton

Le mete dell’integrazione

Ralf Dahrendorf

J. Habermas

 

1. Per il sociologo Giancarlo Milanesi "I sistemi sociali sono sottoposti a due importanti processi complessivi: la differenziazione e l’integrazione. La differenziazione è una forma di cambio socio-culturale che comporta la divisione, o articolazione in parti strutturalmente e funzionalmente differenti, del sistema sociale con la formazione di sotto-sistemi. Si ha così la segmentazione in gruppi più specifici e la precisazione delle norme e dei valori culturali. La differenziazione viene identificata da alcuni con il processo di divisione del lavoro sociale (Durkheim). L’integrazione è il processo attraverso cui il sistema acquista e conserva unità strutturale e funzionale, pur mantenendo la differenzionae degli elementi. E’ anche il prodotto di tale processo, in termini di mantenimento dell’equilibrio interno del sistema, della cooperazione sociale, del coordinamento tra i ruoli e le istituzioni. (...) In genere l’integrazione si fonda sul consenso libero delle persone sociali che accettano la piattaforma che sta alla base dell’unificazione del comportamento; ma spesso sono leggi e norme esplicite, pressioni esterne, condizioni transunti ed interessi momentanei".

Vale la pena di sottolineare come l’integrazione comporti (seppure mediante un "teoricamente" libero consenso) l’accettazione di una piattaforma di valori (una meta): il problema, nelle relazioni tra culture diverse, sta proprio qui. Ovvero nel chiarire chi definisce tale piattaforma. Se essa è già prioristicamente definita (ad esempio dalla società entro cui si immigra) l’integrazione non può certo definirsi capace di rispettare l’alterità che non partecipa in alcun modo alla definizione della piattaforma dei valori. A tale problema risponde, per molti versi, la proposta di integrazione procedurale non strumentale di Habermas.

 

2. Nella logica della sociologia funzionalista (ad esempio Parsons) l’integrazione sociale costituisce un imperativo funzionale del sistema atto a garantire la coerenza e la solidarietà interna che si realizza tramite l’interiorizzazione di norme da parte degli individui nel processo di socializzazione all’interno delle istituzioni formative ( ovvero i mezzi di cui un sistema si serve per realizzare l’integrazione: il controllo sociale, gli strumenti educativi e rieducativi, gli strumenti della comunicazione di massa).

 

3. Robert K. Merton definisce l’integrazione sociale come adattamento individuale al sistema sociale e ne identifica diversi livelli analizzabili in base all’accettazione o al rifiuto delle mete socialmente poste e dei mezzi previsti per raggiungerle. Si va così dalla conformità totale (accettazione delle mete e dei mezzi) alla ribellione (rifiuto sia delle mete che dei mezzi). Il tipo di integrazione più funzionale al mantenimento sistema è definito da Merton con il concetto di innovazione (accettazione delle mete ma rifiuto dei mezzi istituzionalizzati per raggiungerle).

 

4. Il problema delle mete dell’integrazione costituisce lo snodo centrale. Se per i funzionalisti la meta è il permanere del sistema sociale in quanto tale e pertanto è necessaria una condivisione sostanziale di valori comuni, per altri sociologi del novecento, tale meta non può essere raggiunta perché non esiste, ovvero perchè non esistono più "universi e valori condivisi". Così Weber individuò nell’organizzazione burocratica della vita sociale e nell’orientamento all’azione razionale rispetto allo scopo il fondamento strumentale della integrazione sociale nelle moderne società industriali. Ma, si noti, si tratta solo di un fondamento strumentale: i valori di fondo non sono condivisi, non sono comuni. E proprio qui si inserisce Habermas che, non accettando una integrazione solo strumentale, propone un modello procedurale fondato sull’accordo raggiunto discorsivamente dai partecipanti all’interazione sociale. Essi prendono razionalmente e liberamente posizione sugli argomenti avanzati da ciascuno, sino a quando non si sia raggiunto il consenso sul contenuto della norma da ritenere valida e legittima.

5. La proposta di Habermas ha il pregio di sottolineare la necessità di "ridefinire consensualmente" le mete dell’integrazione. In questo senso non esiste una meta come dato di fatto a cui alcuni sono chiamati ad integrarsi quanto piuttosto tutti sono chiamati ad integrarsi in una meta rispetto alla quale tutti (sia stranieri che autoctoni) sono stranieri-estranei. E tale meta deve essere definita di comune accordo. Ruolo centrale riveste, a questo punto, il conflitto: la strategia proposta di Habermas è infatti conflittuale e si propone una gestione "nonviolenta" o perlomeno non distruttiva del conflitto.

6. Ralf Dahrendorf ha riconosciuto la funzione positiva del conflitto sociale come fattore di integrazione purché inquadrato entro le regole consensuali (e torniamo ad Habermas, almeno nel senso che si debbano stabilire assieme i confini e le regole del confliggere) che permettono di neutralizzare le spinte distruttive implicite in ogni conflitto sociale. (nota 1)

 

Note

(1) R. DAHRENDORF, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari, 1970. Stessa posizione è espressa da L..A. COSER, LE funzioni del conflitto sociale, FrancoAngeli, Milano, 1976.