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Lavagne sullo schermo
LAVAGNA SULLO SCHERMO

fotogrammi scolastici
disseminati nell´immaginario cinematografico


a cura di Paola Tarino

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IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA

Zochor e Nansal

Die Höhle Des Gelben Hundes di Byambasuren Davaa

Il film della regista Byambasuren Davaa mette in scena un universo essenziale, regolato da una separazione netta, addirittura elementare, tra una natura domestica e una selvaggia: la prima fatta di famiglia, tenda, gregge, giochi infantili, legami forti e arcaici con un paesaggio montano inquadrato in una sfolgorante bellezza estiva; la seconda incarnata da cani selvatici, imbastarditi con lupi famelici, ed enormi avvoltoi, pronti a ghermire la preda di turno per trascinarla sulle vette di questo sconfinato paese, la Mongolia, incuneato fra la Russia e la Cina. In mezzo alla cesura resta il piacere di accompagnare la macchina da presa che racconta una storia antica, ascoltata da bambina dalla regista, diventata pagina scritta nel racconto di Ganthuya Lhagva, per assumere la valenza di leggenda popolare attraverso la narrazione di un’anziana, che descrive alla piccola Nansal le vicende di una ragazza in punto di morte, salvata dal sacrificio del suo cane giallo. Seguendo l’antidoto prefigurato dallo sciamano, la morte della bestia avrà l’effetto miracoloso di guarire la giovane e addirittura di produrre esiti ancor più benigni, perché quel cane giallo rinascerà come neonato della ragazza miracolata…

La madre con il gregge

L’apologo del film risiede in questa esile storiella, che offre lo spunto per mostrare la quotidianità di un’autentica famigliola di pastori nomadi, la famiglia Batchuluun, che trascorre la sua esistenza in questa regione sperduta della Mongolia alle prese con occupazioni che scandiscono la giornata in maniera semplice e naturale, in sintonia con i ritmi della stagione.
L’armonia con la natura domestica viene talvolta funestata dall’irrompere della componente selvaggia, perché nottetempo i lupi possono sempre sopraggiungere a sbranare qualche pecora o qualche altro fattore casuale può mettere a repentaglio la quiete familiare, una volta abbassata la guardia, ma per fortuna in questo regno esistono i cani, animali fedeli e amici dell’uomo, che, anche se messi ai margini, sono capaci di sacrificarsi e spesso anche di salvare il destino dell’umanità, perché a loro è concesso il privilegio o la sventura di potersi reincarnare.
Il prologo del film anticipa l’epilogo, intervenendo a spiegare in maniera didattica questa concezione del mondo: un padre e una figlia, inquadrati in campo lungo all’interno di un tramonto dai colori essenziali, che ha il potere di cesellare le loro figure in ombra tra la terra e il cielo, si accingono a dare sepoltura a un cane.

Tramonto mongolo

La bimba domanda: “Papà, perché gli metti la coda sotto la testa?”, il genitore risponde: “Così rinasce uomo con la treccia e non cane con la coda”. “Rinasce?”, incalza la piccola, “Tutti muoiono, ma in realtà non muore nessuno” conclude il padre. Questa metafora iniziale, a cui viene attribuita l’importante funzione di fare da filo rosso per cucire l’intera storia, se da un lato rende tributo a una spiritualità in chiave buddista che serpeggia all’interno della yurta, con gli altarini votivi e i relativi ammennicoli di offerte di rito, dall’altro ha il pregio di veicolare una concezione della morte intesa non come punto finale dell’esistenza, bensì come inizio di una nuova vita, a cui viene concesso ai ranghi inferiori della specie, in particolare ai cani, di poter raggiungere un gradino più alto: diventare umani, nonostante il film dimostri come il cane protagonista, Zochor, chiamato “Macchia” dalla piccola Nansal che l’ha adottato, sia capace di essere umano o di avere comportamenti simili, ancor prima di schiattare.
Lo spettatore aveva capito questa particolare attenzione al mondo degli animali, intrecciato a quello degli uomini, già nel precedente film della regista, La storia del cammello che piange, dove, sempre seguendo il linguaggio delle favole, si mostrava lo strano caso di una cammella in lacrime nel deserto meridionale del Gobi, recalcitrante all’idea di nutrire il suo cucciolo.

 Cammelli nel deserto del Gobi

Un pulmino riporta Nansal a casa (ovvero alla tenda sperduta nella steppa) per le vacanze estive: ha concluso un ciclo scolastico ed è felice di poter riabbracciare i genitori e i fratelli; non vede l’ora di togliersi la scomoda divisa scolastica, perché il colletto inamidato è fastidioso e preferisce indossare una comoda tunica colorata. La bimba è fiera di mostrare i suoi quaderni da scolara modello al padre: una serie di numeri e lettere ordinate come una sequenza di aste riempiono pagine e pagine del suo manoscritto, ma il padre, che è intento a svestirla, sembra più propenso a scoprire se a scuola ha imparato nuove canzoni da insegnare alla sorellina. Non lo sapremo, purtroppo, perché la piccola non ci delizierà con la sua vocina infantile, d’altra parte sarebbe stata costretta al doppiaggio, per cui meglio così!
Nel frattempo capisce che il lupo è passato e ha avuto la meglio su alcune pecore del gregge, accudito dal padre.

Scolara modello

Pur studiando in città, Nansal si ritrova completamente a suo agio a casa: gioca con i fratelli a costruire città invisibili, le cui case sono fatte non con i pezzi del lego, bensì con le sagome essiccate dello sterco, che viene usato anche come combustibile, per alimentare un fuoco, dove la madre è intenta a girare il latte per ottenere il formaggio. Essendo già grandicella a lei spettano anche compiti e responsabilità maggiori: viene mandata infatti a raccogliere lo sterco con una gerla a tracolla e un bastone appuntito, però sbaglia sempre la mira quando deve centrare il contenitore che le penzola maldestramente sulla schiena, oppure si sofferma a contemplare il paesaggio, girovagando tra terreni fioriti, persa a scrutare un fiore raccolto o incuriosita da una cavità naturale, dove finge di aspettarsi che esca un lupo, mentre in realtà farà la sua comparsa il trovatello cane Macchia, non giallo come il titolo del film o il colore della fascia della sua tunica che fungerà subito da guinzaglio improvvisato, bensì un cagnolino tutto bianco con un’unica pezza nera sul dorso.

Giochi nella steppa

Sarà amore a prima vista: la bambina ha trovato il cane e pertanto le appartiene, nonostante i genitori contrastino la sua decisione e cerchino di convincerla a riportarlo indietro. Il padre teme sia un cane selvatico, cresciuto insieme ai lupi, pertanto ostile al suo mondo; la madre pensa sia un animale smarrito e quindi sia giusto ritrovarne il legittimo padrone; Nansal sa soltanto che l’ha trovato lei, in un posto dove non c’erano lupi, e siccome non ha una mamma, sarà lei a occuparsi d’ora innanzi di lui.
La testardaggine della bambina sarà messa a dura prova da una lezione materna: “Riesci a morsicarti il palmo della mano?”. Nansal ci prova, tenta con tutta la forza delle labbra aperte di conficcare i suoi denti nel palmo per addentarlo, inutilmente si dispera di fronte agli innumerevoli tentativi dagli esiti infelici. “Allora non puoi avere tutto quello che vuoi” l’ammonirà la madre, cercando di convincerla a riportare indietro il cane, diventato un nuovo compagno di giochi, da alternare a quelli fatti dentro e fuori la tenda con i suoi due fratellini, che si divertono a dare contorni animali alle nuvole, interpretate come immagini ipnagogiche capaci di sprigionare un bestiario, di cui solo lei, perché più grande e scolarizzata, è in grado di conoscerne i veri referenti.

Lo scuoiamento

Mentre il padre parte con la motoretta per andare a vendere in città le pellicce delle bestie azzannate dai lupi, Nansal sale in groppa al cavallo per riportare Zochor nella grotta. La piccola ha un solo punto di riferimento per non perdere la bussola e smarrirsi: guardare sempre la cima della montagna e dirigersi verso di essa. Strada facendo saranno molte le distrazioni: una sosta al fiume per rinfrescarsi e sperare che almeno il cagnolino possa riuscire dove non ce l’ha fatta lei, ovvero a morsicarle il palmo della mano; una passeggiata tra i resti di un accampamento abbandonato, un’arrampicata tra i dirupi, intanto si fa sera e un temporale avanza.

Zochor dove sei?

Nansal dapprima smarrisce il cagnetto, poi lo ritrova addormentato nel recinto dell’accampamento fantasma, infine si perde lei, ma per fortuna raggiunge la tenda dell’anziana, che la nutrirà e la scalderà, raccontandole come una nenia la storia della ragazza del cane giallo della Mongolia, mentre le mani della nonnina inviteranno la piccola a far cadere del riso sopra la cruna di un ago: “Perché ci sono altrettante possibilità che un chicco resti appoggiato sopra la cruna di un ago, quanto quelle di un uomo di reincarnarsi in un uomo”. E un chicco prima o poi ci resta a forza di provare.
Un leitmotiv questo, che può apparire persino un po’ subdolo, ma è proprio il ritmo umano (da noi percepito invece come esotico) a permettere di immaginare l’eterna ricorrenza del ciclo vitale: la vita per l’umanità messa in scena, proprio perché immersa nella natura, è un tutt’uno che non muta mai in quantità; si muore e si rinasce in un afflato costante.

La madre recupera la piccola, mentre il fratellino e la sorellina, rimasti soli nella yurta, si divertono a giocare con i budda di ceramica laccata, facendo smorfie e borbottii di fronte a uno specchio, che li riprende in una falsa oggettiva, concedendo così alla macchina da presa il piacere di sdoppiare/raddoppiare una sensibilità tutta femminile nell’inquadrare in maniera tenera queste creature, che non stanno affatto recitando, ma sono spontanei come tutti i bambini sulla faccia della terra. La sequenza (una delle tante dove la regista preferisce avvicinarsi ai soggetti, riprendere corpi che rotolano infagottati o ricorrere ai primi piani, non foss’altro per mostrare l’incarnato di faccine bianche con le gote dai pomelli rossi) sa abilmente incastonare le figure in campo, seguendone gli spostamenti nel contesto familiare della tenda: un mondo che protegge all’interno di tendaggi, in mezzo a tappeti variopinti, dove stendersi a riposare, quando ormai si è stanchi morti.
L’estate finisce e la famigliola si accinge a scendere dai monti per avvicinarsi alla città, e anche la yurta viene smontata pezzo a pezzo, quasi officiando a un rito che si conclude con il ringraziamento alla terra che ha dato loro ospitalità.
La tenda montata appare come un oggetto unico e solido, poi si scopre gradualmente che è fatta in realtà di tanti piccoli elementi, ognuno dei quali può avere una funzione anche separato dagli altri (i bastoni lunghi, le pelli…), ma tutti sono rigorosamente naturali: non c’è plastica, anzi l’unico utensile di plastica presente nel film è destinato, non a caso, a fondersi e a perdere le sua forma originaria.
Nansal deve prendere congedo da Macchia, legato a un palo per impedirgli di seguire la carovana in partenza. Ma il finale non potrà contraddire l’assunto leggendario del film, pertanto al cane verrà data la possibilità di riscattare la natura selvaggia, superando una prova decisiva: avrà il coraggio di salvare il più piccolo dei fratelli di Nansal, destinato a diventare preda di uno stormo di enormi avvoltoi, assicurandosi così un posto all’interno della famiglia Batchuluun e forse un futuro passaggio di grado.
Resta soltanto un dubbio: seppur portandosi appresso la tenda, saprà questa famiglia - che ha accettato di spostarsi dalla campagna alla città, dove invece è in corso “una campagna elettorale”, come urla la voce all’altoparlante del furgoncino che è costretto a frenare la sua corsa per dar tempo al gregge di sgombrare la strada – resistere alla contaminazione del progresso e al consumismo, che fa nascere anche il desiderio di comprare oggetti artificiali come la plastica, per salvare la memoria di un rapporto autentico con la madre terra? Ma questa è un’altra storia, forse persino più banale e conformista, infatti alla regista interessa filmare quello che c’è prima, ossia la sua cultura d’origine, gli insegnamenti morali che si possono trarre dalle leggende e soprattutto la bellezza di paesaggi incontaminati, come quelli della regione nord ovest del suo paese, la Mongolia, dove ancora vivono pastori nomadi in tende bianche dai colori incantevoli all’interno, capaci di resistere all’idea di migrare verso stanziamenti urbani. Sarà mica perché nella loro vita passata erano cani gialli!?

La famiglia al completo

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