PavoneRisorse

LA BUONA SCUOLA OGGI: Documenti e interventi su  "Piano Renzi" (settembre 2014)

(24.06.2017)

La nostra è ancora un "scuola di classe" ?
di Franco De Anna

      

In un recente contributo, redatto commentando i dati del Rapporto Annuale ISTAT 2017, e intrecciando quelli su popolazione e reddito con quelli relativi a istruzione e titoli di studio (vedi “La scuola di classe” sul sito di Claudio Cereda “Pensieri in Libertà”) proponevo alcune affermazioni e argomentazioni molto schematiche che forse meriterebbero una riflessione ulteriore. Le sintetizzo di seguito.

  1. Rispetto al complesso della popolazione il processo di scolarizzazione di massa ed il suo “successo” sono in sostanza verificabili con la diffusione del possesso del titolo di “Licenza Media”. I dati sono ovviamente stratificati per classi di età e dunque permanentemente aggiornati dalle nuove generazioni. Ma la Licenza Media si colloca come “piattaforma sociale di istruzione”. Un fattore, per quanto limitato, di eguaglianza sociale
    L’acquisizione di titoli di studio successivi è invece fortemente intersecata/condizionata dalle differenze di reddito famigliare (si veda il Rapporto ISTAT) e dalla “riproduzione” della stratificazione sociale.

  2. Al confronto tra dati della scolarizzazione e quelli della stratificazione sociale, emerge una “efficacia sociale” della politica dell’istruzione nella storia degli ultimi cinquanta anni, misurata in termini di effetti diretti sulle scelte, sulle opportunità, sui comportamenti, limitata a pochissimi provvedimenti ”strutturali”.
    In sostanza la legge istitutiva della Media Unica (1962) e l’adeguamento dei suoi programmi (oltre 15 anni dopo!!); gli interventi diretti a promuovere l’inclusività ( dalla Legge 517/77 in poi); la liberalizzazione degli accessi universitari.
    Ad essi si sovrappone la crescita “fisiologica” della domanda di istruzione che è connessa con lo sviluppo economico e sociale stesso e a cui viene data risposta (o si tenta..) incanalandola o “facendo spazio” entro le strutture del sistema esistenti. In tale processo la politica pubblica dell’istruzione non si esprime attraverso una “politica attiva della domanda” ma attraverso un adeguamento passivo dell’offerta
    .

  3. Sotto tale profilo (risultati in termini di “efficacia sociale”) la nutrita serie di interventi di politica pubblica dell’istruzione, che da un certo punto in poi si è preso il vezzo di classificare come “epocali”, sono da considerare come “interventi di manutenzione” di un sistema “forzato” dalla domanda sociale. Il giudizio può apparire ingeneroso, ma si consideri che

    *** La “manutenzione” è comunque attività preziosa e indispensabile in un macrosistema che coinvolge progressivamente e in termini prolungati l’universo delle nuove generazioni,
         che è anche segmento istituzionale fondamentale.
     *** Il giudizio drastico è espresso sotto il profilo della efficacia sociale e cioè della capacità della politica dell’istruzione di esprimersi in termini di promozione e conformazione della
          domanda sociale di istruzione; quanto a dire (in coerenza di impegni costituzionali) di promozione di emancipazione e uguaglianza socio culturale. Ciò non significa che in gran
          parte di quegli interventi (per esempio penso alle “Indicazioni” che riguardano i contenuti ed i metodi dell’insegnamento, o ad alcune sperimentazioni..) non vi siano espressi
          elementi di qualità, sia culturale che scientifica
     

  4. Le contraddizioni della politica nazionale dell’istruzione, soprattutto dalla fine degli anni ’70, sono particolarmente gravi perché investono specificamente la struttura dell’istruzione secondaria superiore e dell’Università. Cioè quei segmenti di sistema che lo sviluppo della scolarizzazione di massa a partire dalla “comune” acquisizione della “media dell’obbligo” (uso volutamente termini “desueti” e non istituzionali)([1]), ha investito e investe in progressione.
    In assenza di interventi “strutturali” di sistema, almeno paragonabili per ricadute sociali a quelli operati sulla Scuola Media, o comunque capaci di esprimere una efficace e riconoscibile “politica della domanda” di istruzione superiore, quest’ultima rimane “prigioniera della fisiologia” dei processi. Potrebbero esserne testimonianza gli andamenti ondeggianti delle iscrizioni tra i diversi indirizzi: dallo svuotamento dei Licei a favore della crescita dell’istruzione tecnica, al capovolgimento degli andamenti con diversa disseminazione tra indirizzi; senza che di tali dinamiche sia possibile ricostruire ragioni che non interpellino solamente le percezioni o le condizioni soggettive della “clientela”.

Piccolo supplemento di analisi

Richiamo con qualche specificazione ulteriore, alcuni dati già commentati nell’articolo precedentemente citato, nel prospetto che riporta la distribuzione dei titoli di studio per fasce di età. Si intenda che, come già ricordato in citazione, il titolo di studio terziario coincide di fatto, nella situazione specifica del nostro Paese, con la Laurea.

 

Titoli di studio per fasce di età. -anno 2016 (%)

Classi di età         licenza                  dip. Sec                 Titolo
                                media                    Sup                        terziario

15 - 24 anni         51.8                        44,1                        4.1

25 - 34 anni         26.6                        47.9                        25.5

35 – 44 anni        34.8                        44,8                        20.4

45 – 64 anni        48.4                        38.4                        13.2

Oltre 65 anni      77.0                        16.4                        6.6

Totale                   50.9                        35.8                        13.3

(Fonte ISTAT)

 

·         Se si guarda al complesso della popolazione a partire dai 15 anni (termine “formale” della scolarizzazione di base) in poi, il possesso della licenza media come massimo titolo di studio, segmenta in due parti quasi equivalenti la popolazione stessa (il 50.9% ha come massimo la licenza media, il 49.1% titoli superiori: diploma o laurea..).
Naturalmente il processo di scolarizzazione investendo alla base l’universo delle nuove generazioni esprime dati in permanente evoluzione (si veda nella tabella la composizione per fasce di età che sono le medesime utilizzate da ISTAT per le forze di lavoro). Non voglio presentare una analisi dettagliata di tale sviluppo. Ma solo accennare a una “immagine di insieme” che guardi alla diffusione dell’istruzione come “connotato” del cittadino italiano.

·         Arrischio, con qualche approssimazione mirata alle diverse fasce di età, una possibile “rappresentazione sociale”. Si potrebbe sintetizzare in questo modo: “nel decennio finale del secolo scorso, si colloca un “flesso” nella curva del processo di scolarizzazione proiettato sulle generazioni in successione: prima di tale flesso i figli avevano scolarità mediamente più elevata dei genitori (fase affluente della scolarizzazione di massa) dopo tale flesso la scolarizzazione dei genitori tende ad eguagliare quella dei figli (stabilizzazione della scolarizzazione di massa)”. La “base scolastica” di tale “flesso sociale” è costituita dalla acquisizione via via generalizzata del livello previsto della istruzione dell’obbligo, la scuola media unificata a partire dal 1962 (titolo esclusivo detenuto da oltre il 77% degli ultrasessantacinquenni).

·         In questo senso si può affermare, come detto nel paragrafo precedente, che il provvedimento istitutivo della Scuola Media Unica, che interpretava in termini di eguaglianza di fruizione il diritto di cittadinanza alla istruzione dettato in Costituzione, abbia costituito un elemento di politica dell’istruzione che ha effettivamente inciso, e profondamente, nel corpo sociale e nelle sue dinamiche, accompagnando e favorendo i processi di emancipazione sociale che lo sviluppo economico trascinava con sé e sollecitava.

·         Il problema che si pone oggi in termini di politica dell’istruzione è dunque il seguente: posta la progressione generazionale crescente dei livelli di istruzione dove si potrà collocare, come effetto di scelte di politica pubblica, un nuovo e più avanzato “punto di flesso” che segnali direzione, senso, “efficacia sociale” del processo, e contenuto di “politica della domanda” di istruzione superiore? (una nuova “base scolastica” per quel “nuovo flesso sociale”)?

Vi sono altri dati che qui non riporto per esteso, che suffragano le affermazioni precedenti. Se si considera la fascia dei 25-34enni e si correla il titolo di studio posseduto con quello dei rispettivi genitori, si può osservare quanto segue (rimando alla pubblicazione precedentemente citata e alla lettura del rapporto ISTAT per un approfondimento analitico)

·         Se si confronta il titolo di studio dei genitori con quello acquisito dai figli (sempre per quella fascia di età) oltre il 50% dei genitori ha come titolo massimo quello di licenza media. Circa il 40% è diplomato; il 10% è laureato. Per i figli: un poco meno del 50% è diplomato, poco più del 25% ha solamente la licenza media; il rimanente, meno del 25% è laureato.

·         Il confronto differenziato, mostra invece i “riflessi riproduttivi” della stratificazione: circa il 40% dei 25-34 enni che hanno solo titolo di licenza media hanno genitori con tale titolo; meno del 50% di figli di genitori in tale condizione acquisisce un diploma di secondaria superiore, e meno del 10% si laurea. Al contrario quasi il 60% dei 25-34 enni laureati ha genitori laureati. Una evidente “ereditarietà del titolo di studio” ai livelli più elevati.

Per descrivere sommariamente tutto ciò si usa spesso la metafora “dell’ascensore sociale”, e ci si chiede se la scuola possa funzionare come tale. Non condivido la metafora posto che l’ascensore, come si sa, è un contenitore sempre molto piccolo; troppo per descrivere processi di effettiva emancipazione sociale e non di “successo personale”. Ma volendo indulgere a tale metafora diffusa la domanda che riassume la problematica fin qui descritta è: da quale piano far partire l’ascensore?

L’istruzione di massa: i dati e i diritti

Oltre mezzo secolo fa la politica dell’istruzione nel nostro Paese diede una prima risposta al quesito precedente, formalizzando entro l’architettura del sistema pubblico di istruzione una struttura di istruzione secondaria unificata per tutti i cittadini, resa obbligatoria e gratuita.

In tal modo di superava una selezione precoce tra indirizzi (la Scuola Media e l’Avviamento al lavoro, commerciale industriale) e si dava corpo al dettato costituzionale dell’art. 34, primo comma “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.” Il secondo comma recita, come noto “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Il terzo, particolarmente impegnativo conclude “La Repubblica rende effettivo questo diritto, con borse di studio assegni alle famiglie, ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Naturalmente quella “nuova struttura” inserita nel “vecchio sistema” in prima battuta “rivedeva” l’esistente e riadattava. (Questa è una costante della politica italiana dell’istruzione).

Senza affrontare grandi elaborazioni: se ci si mette nei panni dei Padri Costituenti, cosa poteva significare quel primo comma (attenzione al linguaggio istruzione inferiore… per almeno 8 anni… Non si parla di cinque anni di Elementare e di tre di Media)? Non credo di forzare l’interpretazione sostenendo che il riferimento fosse ad una piattaforma di istruzione uguale per tutti, gratuita perché obbligatoria, e costruita da un set di saperi, conoscenze, comportamenti sociali, che fosse in grado di contrassegnare la “base della cittadinanza”. Questa “idea costituzionale” venne travasata in un contenitore esistente con l’intenzione di farne una “nuova struttura”.
Naturalmente si comprendono i limiti delle condizioni operative: la scuola elementare si era via via configurata già come “scuola popolare”, diffusa territorialmente e con una sua cultura pedagogica via via innovata. D’altro canto la “secondaria inferiore” veniva riunificata superando le canalizzazioni interne, ma occorreva mutare coerentemente programmi e metodologie, e soprattutto immaginari, stili, modelli professionali dei docenti.
Ricordo che nella ricerca di quel set fondamentale di “istruzione di cittadinanza” si abolì il latino, si introdussero la tecnologia, l’arte e la musica… Ma per arrivare alla definizione coerente e completa di programmi di insegnamento e di studio passarono oltre 15 anni e quei programmi del ’79 per almeno altri dieci anni continuarono ad essere indicati nel linguaggio comune come “i nuovi programmi” della Media. Quanto all’adeguamento dei modelli professionali e delle culture dei docenti, mi risparmio anche in tale caso una analisi approfondita usando un approccio “sintomatico” e leggero
Per esempio il fatto che una importante ricerca sociologica sugli insegnanti di Marco Barbagli e Marcello Dei “Le vestali della classe media” (1969) il cui titolo è assai significativo, venisse spesso indicata nelle stesse discussioni progressiste (lungo anni ’70) con titolo deformato “le vestali della scuola media”. Tale frequente deformazione racconta più di ogni altra considerazione quanto ancora si fosse lontani nel disegnare una immagine e funzione “popolare” del “professore” della Media (al contrario di quanto accadeva per l’elementare..). Eppure a quel carattere popolare del loro impegno professionale venivano chiamati i docenti dalla innovazione della Scuola Media Unificata.
Aggiungo altro esempio, sempre in tema di significati nascosti del linguaggio utilizzato: per molti anni, e in qualche caso fino ad oggi, per indicare il primo biennio del Liceo Classico si è usata (si usa?) la denominazione di IV e V Ginnasio. Quasi inconsapevolmente. Mai chiedendosi che fine abbiano fatto la I la II e la III ginnasio.(La Secondaria di primo grado)
Sedimenti storici profondi, semantiche non esplicitate (anzi nel dichiarato sarebbero negate) ma che non cessano di produrre effetti nei modelli, negli immaginari, negli stili professionali. (Vedi le difficoltà permanenti nella organizzazione degli Istituti Comprensivi che scontano la separatezza “reale” dei modelli professionali tra “maestri” e “professori”).
Certo si tratta di semantiche celate, che sembrano appianarsi nelle matrici delle schede di valutazione, o nelle celebrazioni rituali e giaculatorie delle “Nuove Indicazioni” o dei “Curricoli Verticali”. Taccio per pudore e carità di patria, di come siano state accolte tutte le proposte di intervento sulla struttura organizzativa stessa dell’istruzione (le riforme dei cicli…) e soprattutto dei motivi che sostennero il rifiuto, ed anzi la puntigliosa richiamata riconferma dell’etichetta “Istruzione Secondaria di Primo Grado”.
Non vi è dunque da stupirsi eccessivamente se il risultato in termini di “efficacia sociale” del diritto alla istruzione inferiore per almeno otto anni si sia consolidato di fatto impiegando quasi mezzo secolo di Storia. Non un parametro di grande efficacia della politica dell’istruzione nel nostro Paese.


L’istruzione come diritto assoluto e diritto condizionato

Con quel primo comma dell’art. 34 Cost. si definiva un diritto all’istruzione di carattere “assoluto”, incondizionato. Ma per realizzarlo lo si è inevitabilmente calato entro un processo “condizionato”.
Del condizionamento costituito dalle “permanenze e stratificazioni” di significato e di organizzazione concreta entro la “macchina istituzionale e amministrativa” si è detto sopra.
Su tale piano per la verità molto si è fatto e tentato: vedi appunto le elaborazioni pedagogiche, le suggestioni didattiche, le proposte di contenuti e modalità. Ma l’impatto con la permanenza della “macchina” e del “manuale operativo” mi ha fatto ascrivere quel “molto fatto”, forse ingenerosamente, alle “attività di manutenzione”.(
[2])
Ma il condizionamento più rilevante si è operato per effetto del complessivo sviluppo economico e sociale del Paese. Quello relativo alla istruzione di base è un “diritto” assoluto” ma ha anche un valore economico. Sempre per procedere in via estemporanea: l’istruzione di base, anche solo in termini di acquisizione di modelli di socializzazione congruenti è indispensabile (e lo è stata) per trasportare un contadino di Eboli dalla sua campagna e dalla sua cultura magica alla linea di montaggio della FIAT. La scuola media per tutti fu dunque anche un valore economico funzionale a quella fase storica di sviluppo economico e di cambiamento radicale della struttura sociale del paese (basti pensare che le forze di lavoro dell’agricoltura passarono in 50 anni da quasi il 50% del totale a meno del 10%. Oggi stiamo a meno del 4%)
Nello sviluppo successivo, la consapevolezza del valore sociale dell’istruzione, coniugata con la maggiore disponibilità di reddito e con l’urbanizzazione, hanno promosso l’accesso all’istruzione oltre l’obbligo, ben più che iniziative legislative corrispondenti di riforma/revisione (!!??) dell’istruzione superiore. I tassi di passaggio dalla Media alla Superiore sono cresciuti prepotentemente lungo tutti gli anni ’70 e ’80. Tutti o quasi i giovani si iscrivono alla secondaria superiore… cosa accada dopo è, appunto, una parte del problema che qui si discute.
Il processo di “innovazione sociale” si è affermato per effetto di “spingere”, piuttosto che per effetto di “tirare” (
[3]) Più per dinamiche proprie della domanda che per una “politica attiva della domanda”.

E tuttavia, per affrontare la questione che abbiamo indicato come di fondo (quale “piattaforma di istruzione” possiamo costruire per un “flesso sociale” più avanzato di quello realizzato con la media dell’obbligo), occorre richiamare ancora un elemento che si rivela essenziale proprio per collocare tale “piattaforma” entro l’istruzione superiore.
Uno degli elementi che, insieme a quelli già ricordati, stanno alla radice dei limiti con i quali in oltre un cinquantennio si riusciti faticosamente ad adeguare l’istruzione di base è costituito dalla implicita “teleologia” istituzionale che presiede ai cicli di istruzione secondaria.
Anche questa è una eredità (gentiliana) mai dismessa. In tale “concezione” di sistema, le ragioni e i significati dei diversi livelli di istruzione sono determinati e guidati dai livelli successivi. Ognuno dei livelli intermedi ha senso solo come “tappa” di un percorso che si conclude (nel modello gentiliano con il liceo classico). Non ha un grado apprezzabile di “autoconsistenza” culturale scientifica, formativa.
L’unico livello che storicamente si sottrae a tale effetto teleologico è quello dell’istruzione primaria la cui “autoconsistenza” è stata spesso semplificata con il “saper leggere, scrivere e fare di conto”. Una semplificazione inappropriata (si veda una mia lettura storico-sintomatica della scuola elementare dei primi del ‘900 in Franco De Anna ”I giacimenti” in Pavone Risorse)
  ma che ha avuto se non altro l’effetto secondario di tenerla a margine di tale approccio e concezione  elitaria al sistema di  istruzione. (Si pensi al retaggio storico per il quale tale istruzione era affidata ai Comuni, non allo Stato…)
Ricordo che in quell’impianto teleologico gentiliano sul tronco della media intesa come “primo triennio ginnasiale” si impiantava lo sviluppo successivo coerente nel Liceo. Solo qualche arborescenza laterale con istruzione tecnica ma solo quella commerciale (i ragionieri… quella tecnica industriale fuori dal Ministero dell’Istruzione) e con il Magistrale (quasi una istruzione professionale dedicata..). Inutile ricordare quale gerarchia di valori espliciti e impliciti sia abbinata a quel modello teleologico
.

D’altra parte nello stesso dettato costituzionale il diritto all’istruzione superiore ha carattere “condizionato”. E’ esteso a tutti, ma non assume i vincoli della obbligatorietà e dunque mantiene quelli economici. La fruizione di tale diritto è condizionata sia economicamente, sia nei risultati raggiunti (si veda la forse obsoleta dichiarazione sui “capaci e meritevoli”… )
Ma tale “condizionamento” si misura anche con gli effetti operativi dell’esercizio di tale diritto su piano dello sviluppo e economico e sociale. L’istruzione superiore non ha solo un “valore d’uso”, ma comunicando e dialogando direttamente con il mondo del lavoro e con la collocazione “adulta” del soggetto nel contesto socio economico, ha un “valore di scambio”. La declinazione (il rapporto dialettico) dei due valori rappresenta una questione fondamentale, e di difficile soluzione, per ridefinire una “piattaforma sociale” del diritto all’istruzione più avanzata di quella costituita dalla licenza media.

Istruzione secondaria, post secondaria non terziaria, terziaria non universitaria

Tutto quanto sopra rende ovvia l’affermazione che la semplice ridefinizione dei livelli dell’obbligo in termini di età, (obbligo a sedici anni) sia del tutto inappropriata. Non lascia traccia nelle dinamiche sociali, non alimenta una politica della domanda di istruzione, non definisce una “piattaforma di istruzione” con livelli apprezzabili di autoconsistenza tali da farne un “obiettivo di emancipazione sociale”.

Oggi quella definizione dell’obbligo di istruzione più esteso del classico “impartita per almeno otto anni”, è disseminata e distribuita entro la pluralità degli indirizzi della secondaria superiore e mantiene una differenziazione fondamentale per contenuti, indirizzi, valori effettivi e riconosciuti…che continua a richiamare quella teleologia tradizionale Tutt’altro che una “piattaforma di cittadinanza”: il mantenimento implicito dei quelle scale di valore che il modello gentiliano rielaborava nei suoi ordinamenti, sono stratificate come eredità “latente” al di sotto delle formali affermazioni di equivalenza e parità degli indirizzi della secondaria superiore. Si consideri che anche Istituti superiori che declinano diversi indirizzi ne mantengono le differenze fin dal biennio, formalmente “dell’obbligo”.
Tralascio di esplicitare, e lo lascio fare ai lettori, quanto e come ciò si rifletta anche sui modelli professionali dei docenti, oltre che sui comportamenti e sul costume sociale. Quanti docenti della secondaria realizzano la differenza di insegnare nel biennio come obbligo? E quanti, tra quelli che ne divengono consapevoli, “mirano” ad emigrare nel triennio?
Da questo punto di vista il biennio dell’obbligo entro la secondaria superiore è poco più che una cadenza temporale (
[4]). Solo che tutto, dall’analisi dei dati alle proposizioni culturale, alle percezioni sociali sembra dimostrare che quella definizione sia attraversata dalla dislocazione delle differenze sociali. In altre parole, oggi da li passa la faglia della “scuola di classe”.
Per usare le medesime categorie: oggi il problema fondamentale di una politica dell’istruzione capace di promuovere il significato di emancipazione sociale che l’istruzione deve avere (il valore d’uso della diffusione del sapere) è quello di destrutturare l’antica e obsoleta “teleologia” e riformularne un’altra. Una diversa “idea guida” dello sviluppo del sistema dell’istruzione pubblica.

E su tale base definire il modello di “autoconsistenza” di tale istruzione obbligatoria (contenuti, metodologie, sviluppi).

Certo si disegna così una ampia area di confronto politico, culturale, tecnico-scientifico. Animata da tutt’altro che univoci e condivisi significati. Il problema (la sfida) è tracciare tale quadro di riferimento con valori a lungo termine e non legati alla contingenza politica, in modo che possano “unificare” la politica pubblica di lungo periodo, al di là delle transitorie composizioni di governo
In tale senso appaiono (purtroppo?) ancora assennate vecchie proposte, non per caso formulate in tempi più prossimi alla istituzione della Media Unica (penso per esempio alle proposte della Conferenza di Frascati del 1970/71) con un biennio unitario con articolazioni ”interne” (estesa e prevalente area comune, contenuta area di indirizzo a carattere orientativo; mix di insegnamenti fondamentali, insegnamenti complementari, insegnamenti facoltativi). Gli indirizzi diversificati solo nel triennio. (PS. In quel modello si terminava a 18 anni)

Ma un disegno di politica dell’istruzione che si ponesse tale obiettivo (per altro richiamato in una proposta di legge di iniziativa popolare…) avrebbe comunque la necessità di misurarsi innanzi tutto con quella che ho indicato come una diversa “teleologia”.
Insomma provarsi ad affrontare la sfida di ridefinire “il ciclo dell’obbligo” come “struttura portante” del sistema di istruzione.

Di seguito provo solamente ad elencare le problematiche specifiche che tale obiettivo mette in movimento. Molte di esse sono e sono state in questi anni campo di innovazioni anche significative: occorrerebbe una politica dell’istruzione capace innanzi tutto di riconnetterle ad un elemento di semantica comune, o se si preferisce ad una comune “teleologia”

Gli ambienti di formazione. Uso il termine ambiente come sintesi di: spazi, tempi, relazioni. Dunque organizzazione dei processi e delle persone che li animano. La mente mi corre ad alcune esperienze di Istituti Omnicomprensivi, dall’infanzia alla secondaria superiore.
Certo in tale capitolo occorrerebbe inserire tutte le problematiche relative alla dimensione “istituita” dell’istruzione: la dimensione delle Istituzioni scolastiche, la programmazione della loro distribuzione territoriale, la “classificazione” del lavoro che vi opera, le griglie e matrici di responsabilità e di mansioni. Con una sottolineatura particolare alle innovazioni sull’ambiente di formazione che le tecnologie digitali hanno introdotto o possono introdurre.

L’organizzazione interna al ciclo dell’obbligo. I dodici anni di istruzione e formazione che compongono l’obbligo non possono certo costituire un “continuum” indifferenziato. Gran parte del dibattito sviluppato in proposito sulle sue articolazioni interne (dal 6+6 delle proposte OCSE, al 7+5 della stagione berligueriana, al 5+3+2 attuali) è stato in gran parte condizionato dalle stratificazioni professionali dei docenti, per ciò che sono e per come sono immaginate ed ereditate (si pensi alla gerarchia implicita tra “maestre” e “professoresse”, uso il femminile per realismo).
Le stesse “Indicazioni nazionali” per il primo ciclo (a proposito: per quanti anni le indicheremo con l’attributo “nuove”?), pur sensatamente ed apprezzabilmente orientate a costruire articolazioni fondate “pedagogicamente”, pagano il loro tributo alla segmentazione tradizionale tra primaria e secondaria di primo grado. La sfida è di carattere scientifico, culturale, tecnico ma deve combattere con ostacoli di carattere “strutturale” (i modelli di classificazione del lavoro). Il problema è di definire “sensati” contenitori (la dimensione “istituita” della formazione) al processo “istituente” della formazione di un soggetto dai tre-sei anni ai sedici. Contenitori capaci di dare ospitalità e dunque sensata promozione, ad un processo che ha continuità, discontinuità, progressioni che riportano alla persona ed al soggetto, non alle cesure “organizzative/istituzionali”. Ma poiché a queste ultime corrispondono scale di valori e gerarchie implicite o esplicite, l’impegno ha una dimensione politico-culturale di prima grandezza.

La formazione post obbligo: post secondaria non terziaria, terziaria non universitaria. E’ su tale terreno che si colloca la sfida per quella che ho chiamato una nuova teleologia dell’istruzione obbligatoria. Ciò che si colloca come suo sviluppo. Qui indico, tralasciando la problematica degli indirizzi della secondaria nel triennio, quell’orizzonte che mi pare più destrutturato e meno presente alla politica dell’istruzione e alla sensibilità più diffusa sulle problematiche della scuola.
Al 1999 risale l’impegno del nostro Paese verso l’OCSE per un riordino dell’istruzione terziaria coerente con gli indirizzi e le classificazioni internazionali. A quell’impegno risale lo schema che articola l’istruzione terziaria in tre segmenti: Università, Formazione Artistica e Musicale, Formazione Tecnica Integrata. (Con tale schema l’Italia rispose alle sollecitazioni OCSE)
Uno schema interessante, ma che come accaduto per altri aspetti della politica dell’istruzione nel nostro Paese sembra avere prodotto uno sforzo (variamente interessato) ad adattare un nuovo software su un vecchio hardware. Soprattutto se si guarda a quanto si è prodotto in termini applicativi. Schematizzo quasi un quindicennio di storia.

·         L’Università si è immediatamente proposta per riassumere nella propria competenza (e padronanza?) l’intera formazione terziaria, lasciando generosamente (!) la Formazione Artistica e Musicale (AFAM). Subito dopo (2002) produsse la riorganizzazione con il 3+2, e la proliferazione di “lauree brevi” su creativi (!) indirizzi “professionalizzanti”. Un processo che, per fortuna o recupero di saggezza, dopo un decennio sembra ri-contenersi, recuperando forse un significato più adeguato di “formazione universitaria”.

·         Il terzo segmento “terziario non universitario” definito in quell’accordo OCSE coinvolge indirettamente il sistema della Formazione Professionale i cui percorsi sarebbero disponibili, in teoria, all’uscita dell’obbligo scolastico (tralascio argomenti di discussione spesso strumentale e ideologica su obbligo di istruzione trasferibile in quel contesto, ecc..).
Nella connessione tra obbligo scolastico, Secondaria Superiore, e percorsi di Formazione Professionale evoluti è possibile intravvedere, con qualche capacità e prospettiva progettuale sia un percorso post secondario non terziario (livello 4 OCSE)  sia un percorso terziario non universitario (Livello 5). Poiché la Formazione Professionale, come è noto è competenza regionale (sia pure con la sopravvivenza consistente degli Istituti Professionali di Stato) deve necessariamente mettere capo a un sistema di governance (governo misto) con accordo Stato – Regioni.

Dopo anni, dal 1999 all’ultimo accordo Stato Regioni del 2016, e dopo la creazione, da parte del MIUR degli ITS (Istituti Tecnici Superiori, 2008) si è prodotta  una “sistemazione” del settore che molto sinteticamente possiamo così rappresentare (chiedo scusa delle approssimazioni)

1.      Percorsi IFTS. Percorsi di due semestri (800-1000 ore) progettati da Istituti Secondari Superiori, Enti di Formazione accreditati, Università e imprese. Rilasciano una “certificazione di specializzazione”. Vi si accede con diploma della secondaria superiore o tramite accertamento competenze acquisite in altri percorsi formativi o in esperienze formazione lavoro. (Livello 4 OCSE)

2.      Percorsi ITS , percorsi di quattro/sei semestri (1800-2000 ore) gestiti sul modello “Fondazione partecipata” da un Istituto secondario Superiore (Tecnico o Professionale); un Ente Locale, una struttura formativa accreditata regionalmente per alta formazione, una impresa del settore corrispondente, un Dipartimento Universitario o struttura analoga di ricerca scientifica e tecnologica. Rilascia un Diploma di Tecnico Superiore. Vi si accede con diploma secondario superiore o con quadriennio Formazione professionale più un percorso IFTS. I percorsi ITS di quattro semestri corrispondono al livello 5 OCSE. (terziario non universitario), I percorsi ITS da sei semestri dovrebbero corrispondere al livello 6 OCSE e dunque confrontarsi con il primo livello terziario universitario. (in teoria riequilibrare il modello “lauree brevi”)

3.      I Poli Tecnico Professionali rappresentano un tentativo di consolidare strutture definite regionalmente che operano come rete tra Istituti Secondari Superiori (almeno due), ITS, organismi di formazione professionale, imprese. Dovrebbero costituire sul territorio un riferimento permanente per la programmazione dell’insieme di interventi di formazione post obbligatoria, professionale, terziaria non universitaria.


Non è questa la sede per esplorare analiticamente sia gli aspetti istitutivi che quelli operativi realizzati da un sistema che in oltre 15 anni si è almeno configurato come “repertorio” di “finalizzazioni” articolate di una istruzione post obbligo e post secondaria che, come più volte rilevato analizzando i dati, sembra ancora essere in larga misura “sequestrata” dall’Università, favorendo il riprodursi di una segmentazione di classe “ereditaria” dell’istruzione superiore.  Voglio solo evidenziare tre elementi critici.

a.       Il primo, di carattere generale è la comprovata debolezza “di governo” di tutti i sistemi che fisiologicamente necessitano di elementi di “governo misto” (governance) tra Stato e Regioni. Dalla assennata programmazione del ciclo 0-6 anni, alla programmazione territoriale degli insediamenti delle Istituzioni scolastiche. Ma è una debolezza generale di sistema nazionale che si riflette per esempio sul complesso del welfare territorializzato. Dalla Riforma del Titolo V (2001) non abbiamo ancora imparato le regole della governance, oscillando di fronte ad ogni difficoltà, tra una predicazione di ritorno al centralismo e dichiarazioni di gelosa indipendenza locale. Ma ci sono temi e problemi, come quelli indicati, per i quali il “governo misto” è una componente ”fisiologica”, del resto sperimentata da tutti i Paesi europei. Prima o poi dovremo imparare.

b.      Il sistema descritto, faticosamente costruito in questi quindici anni, sembra collocato e vivere in un “angolo appartato” del Sistema Nazionale di Istruzione. Sia la sua conoscenza che il confronto tecnico, scientifico, culturale che dovrebbe animarlo, sono in realtà di scarsa diffusione e approfondimento. La maggior parte delle famiglie, ma anche la maggior parte delle professionalità operanti nella scuola continuano a pensare (e a comportarsi di conseguenza) che il sistema di istruzione sia quello “ereditato” e consolidato nella teleologia dalla elementare alla laurea. Che proprio quel sistema sia attraversato dalla faglia di classe appare cosa inevitabile. Si pensa che si correggerà nel tempo, come avvenuto con la scuola Media. Non si costituisce perciò come oggetto di una possibile “politica della domanda” capace di combattere proprio quella dislocazione sociale.

c.       C’è un probabilmente inevitabile ricorrente uso del termine “Tecnico” nel definire le etichette degli elementi costitutivi del modello, che rispetto alla “cultura nazionale” potrebbe rappresentare uno svantaggio pregiudiziale. Appare come una deriva verso il mondo industriale e della impresa. In realtà non è cosi. Per esempio tra le Aree di impegno del modello ITS, accanto a quella “Efficienza Energetica” o della “Mobilità sostenibile”, vi è quella delle ”Tecnologie innovative per la gestione dei beni e attività culturali e il turismo”, oppure quella denominata “Nuove Tecnologie della vita”. Tutti indirizzi che certamente anche giovani liceali possono seguire (e lo fanno, sia pure in pochi) Ma è indubbio che i soggetti realizzatori siano sempre individuati negli Istituti Tecnici o Professionali. Io credo che si potrebbe e dovrebbe investire esplicitamente (magari cambiando “etichette”) l’attività di questi livelli di formazione anche in settori terziari o del welfare. Penso per esempio alla Sanità, ma anche alle amministrazioni pubbliche in senso lato (con quali titoli di studio assumono?), sup    erando un possibile equivoco “aziendalistico” che, come sappiamo rischia sempre di inquinare il confronto culturale (Per qualcuno l’impresa è sempre dedicata a “lo sterco del diavolo”)

Il tutto si configura come una grande sfida culturale e politica. Se si saprà superare una visione del Sistema Nazionale di Formazione e Istruzione nel quale l’occhio guarda, un poco deformato, sempre in Viale Trastevere.



([1]) Come sempre il linguaggio utilizzato ha un senso anche “sotto traccia”. Per lunghi anni si parlò senza eccepire di “Media Unica” o di “Media dell’obbligo”, termini che sottolineavano il carattere radicale della innovazione a far data dal 1962/63. Poi (a far data dal ministero Moratti) fu ripristinato il rigore della terminologia istituzionale “Scuola Secondaria di primo grado”. Ricordo però che già in precedenza, all’orale del mio concorso ispettivo, mentre io usavo indifferentemente le prime due allocuzioni, un commissario d’esame mi corresse accigliato “si dice secondaria di primo grado…”. Evidentemente voleva sottolineare significati non dichiarati ma certo distinti da quelli che io assegnavo e utilizzavo. Il confronto non fu, in quella occasione, esplicitato.

([2] )Come non richiamare in proposito anche l’influenza culturale profonda almeno su una generazione di docenti, operata dal pensiero di importanti maestri: da Lorenzo Milani, a Mario Lodi, da Bruno Ciari a Gianni Rodari, al MCE e, perché no a Alberto Manzi. Senza questo apporto credo che lo stesso costrutto di “scuola dell’obbligo” non avrebbe assunto il significato necessario. Ma, se si guarda ai nomi citati, non si può fare a meno di considerare che l’attenzione di tutti loro fu destinata in particolare alla “costruzione di base” dell’istruzione, a partire dalla scuola elementare. Quella di Don Milani sul livello della scuola media fu, non per caso, una “incursione” che assunse un valore “rivoluzionario”.

([3]) Con i termini “spingere” e “tirare” indico modalità diverse di affermazione di processi innovativi. I secondi avvengono avendo una meta innanzi da raggiungere, ben visibile a chi guida… i primi avvengono sia pure in una direzione e in un verso, ma non con predeterminazione della meta; o meglio condizionati strada facendo da correzioni, deviazioni… chi spinge non vede la meta finale. Facile è affermare che le due modalità dovrebbero combinarsi e in dosi corrispondenti ai contesti storici, alle urgenze e alle risorse disponibili.

([4]) Del resto basterebbe ricordare come si è giunti al prolungamento dell’obbligo scolastico. Attraverso una legge finanziaria. Dunque non proprio una mobilitazione di cultura, scienza, economia, pedagogia, ed un confronto allargato di politica dell’istruzione.

torna indietro