Direzione didattica di Pavone Canavese |
(05.01.2008)
Se son rose fioriranno. Se sono boutades, sono interessanti lo stesso. -
di
Marco
Guastavigna
Nella scuola c'ancora chi si chiede se valga la pena scrivere con il word processor e/o apre la propria casella di posta elettronica con frequenza mensile, oppure si iscrive agli svariati corsi che "insegnano" il web 2.0 - di raro in modalità free (english), ovvero gratis (latino)- in piena contraddizione con la filosofia originaria di questi strumenti, che considerano che:
- molte persone riflettono, scrivono, elaborano in modi diversi idee, che in modo riduzionista chiamiamo d'ora in poi contenuti;
- c'è bisogno di ambienti semplici, tali da consentire virtualmente a tutti di collocare contenuti propri in rete e di raggiungere (e magari discutere in modo critico e cooperativo) materiali altrui che considerano davvero significativi per il loro significato e per la prospettiva adattata - non per l'accrocchio tecnologico utilizzato, che è invece (almeno nelle intuizioni) organizzato in modo intuitivo, allo scopo di rendere immediatamente autonomo l'utente.
La galassia di coloro che ruotano intorno alla tematica delle tecnologie a scuola comprendono poi gli "esperti de noantri", coloro che si arrogano il ruolo di grandi conoscitori del digitale e, approfittando per lo più dell'inerzia dei colleghi, che funziona anche da copertura al vuoto pneumatico delle loro proposte, praticano lo sperimentalismo fine a se stesso e sottopongono i propri allievi ad esperienze almeno discutibili - del tipo "Ragazzi, oggi sperimentiamo un wiki"; "Sperimentiamo cosa...? C'è Wikipedia a farci capire a cosa serve e come funziona un wiki. Il problema è un solo: avere qualche cosa da dire in modo collaborativo che sia significativo e possa interessare anche chi non ne è autore. E non facciamo un wiki per parlare di wiki, per favore!".
Bene. In questo panorama confuso, probabilmente destinato nella scuola ad aumentare il caos e ad alimentare il determinismo neopositivista che sostiene l'idea dell'innovazione ad ogni costo, si affaccia ora la visione del web 3.0.
Ne parlo comunque, nella convinzione che almeno una minoranza continui a praticare il senso critico e la voglia di riflettere, rivolgendomi a questa tipologia di colleghi.
Torniamo indietro, al Web 1.0 - che per altro non ha mai saputo di essere tale. Esso era caratterizzato da:
- produzione di materiali da parte di pochi specialisti;
- consumo di contenuti da parte della maggioranza degli utenti;
- netta separazione, sul piano tecnico e pratico, ma anche della rappresentazione mentale, tra applicazioni rivolti al lavoro in locale (scrivere, calcolare, archiviare, produrre diapositive, elaborare immagini e video e così via) e applicazioni rivolte alla rete (tipicamente il browser per navigare).
Il Web 2.0 - che invece sa molto bene di chiamarsi tale - ha modificato il paradigma:
- cade (per lo meno tendenzialmente) una vera e propria distinzione tra produttori e consumatori "passivi" di contenuti, come del resto già detto in apertura dell'articolo;
- tutti possono produrre e collocare contenuti in rete, che propone cms, blog e wiki e che più in generale diventa un gigantesco deposito di materiali (testi, fotografie, video i più diffusi) che si possono caricare,organizzare e classificare sul piano semantico attraverso il meccanismo dei tag su siti di condivisione, semplicemente iscrivendosi al servizio e ricevendo un nome utente e una password di accesso esclusivo e quindi un proprio spazio specifico; qualche sito-deposito è già passato alla richiesta di denaro, ma molti sono ancora gratuiti;
- cade anche la distinzione tra applicazioni rivolte al lavoro in locale e applicazioni rivolte alla rete; sono sempre più frequenti le attività di manipolazione di dati che si possono attuare in modalità rich Internet, ovvero attraverso ambienti alle cui funzionalità si accede direttamente con il proprio browser.
Ed ecco arrivare i primi annunci del Web 3.0.
Ne spieghiamo le caratteristiche commentando un esempio, che si è reso disponibile da poco, Adobe Integrated Runtime, attualmente in Beta3.
L'idea è molto semplice: rendere inutile il passaggio attraverso il browser (che resta attualmente a presidiare il confine tra risorse locali e risorse Internet) e disporre piuttosto direttamente sul nostro computer di piccole e veloci applicazioni distinte e molto semplici da usare, ciascuna delle quali agisce contemporaneamente sul nostro computer e in rete.
Al momento è disponibile una serie di esempi molto semplici e le attuali applicazioni sono destinate a funzioni ben specifiche, come trovare un indirizzo confrontando le mappe affiancate di Google maps e di Yahoo, oppure collocare file su Google docs, dove magari condividerne l'elaborazione con altri utenti.
Il lettore interessato a sperimentare questi moduli operativi, che per certi aspetti mi hanno richiamato i widgets di MacOSX, proceda così:
- scarichi prima il modulo runtime (esistente per Windows e per MacOSX; li ho provati tutti e due e funzionano entrambi);
- proceda poi all'installazione delle singole e diverse applicazioni che gli interessano o direttamente dalla rete o scaricandole e successivamente attivandole con un doppio click; in entrambi i casi stia attento al percorso di installazione per ritrovare il tutto e non si spaventi di fronte al messaggio che avvisa del fatto che l'applicazione agisce sul sistema e sull'accesso alla rete: questo fatto è proprio la caratteristica di fondo dell'ambiente, che dichiara di lasciare intatti file di registro, librerie dinamiche e quant'altro possa compromettere l'equilibrio del sistema.
Come detto nel titolo: se sono rose, vedremo fiorire applicazioni più significative e operativamente estese delle attuali; se sono boutades, resta interessante l'idea di eliminare ogni distinzione tra le tipologie di applicazioni disponibili su di un pc, soprattutto per l'immagine mentale che ne deriva: la rete è un ambiente-risorsa, non un ambiente-applicazione.
Questo articolo è pubblicato sotto Licenza Creative Commons.